“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 October 2021 00:00

Ei fu Moebius

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Si è tenuta al MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) la mostra su Moebius. Per chi lo conoscesse è stato un gran piacere vedere, fra i reperti della collezione Farnese, come i disegni di uno dei maestri moderni della perizia pittorica non sfigurassero.

Ma anzi. Anzi, anzi. Una lodevole sinergia della recente direzione dell’Archeologico che si sta orientando verso un modello più inclusivo di diffusione dell’arte, in grado di valorizzare tipi diversi (in tal senso le operazioni come il fumetto e il videogioco, e la messinscena teatrale, inerenti al tema della mostra sui gladiatori – ricordiamo che a Capua c’era una scuola di gladiatori e non è un caso se nella capitale del granaio dell’Impero sia sopravvissuto uno dei meglio conservati anfiteatri e proprio da qui fosse partita la rivolta di Spartacus – non sono che ulteriore conferma) di arte, orientandosi verso una visione totalizzante della stessa, capace di travalicare medievali distinzioni fra arte e kultura bassa e alta, trascendendo generi e incrociando medium (in tal senso va ricordato come prima fosse possibile ammirare il bellissimo murale di Diavù riproducente, sulle scale che conducono a Piazza Cavour, una riproduzione prospettica della Testa del Cavallo Carafa di Donatello, purtroppo sbiadita via con gli anni). E così, fra avventori venuti apposta e turisti preparati ad ammirare scheletri, mummie egizie e quant’altro le casse del MANN possono scoperchiare, si è potuto imbattersi nelle illustrazioni memorabili del genio francese (da questa terra scomparso ma reso immortale dal suo segno). Il MANN sembra essersi appropriato della famosa frase dell’archeologo hollywoodiano per antonomasia: “That belongs in a museum!”.
Moebius, per la cronaca Jean Giraud, classe 1938, ha bisogno di presentazioni, forse, solo in Paesi nella provincia d’un impero da Fondazione asimoviana (quindi in Italia potrebbe essere necessario visto che qui l’ultimo dei media per riconoscimento è ancora negletto e, peggio che vituperato, invisibilizzato o quasi). Giraud perviene a chiara (e meritata. E indubbia) fama con le sue matite messe in prestito per la saga del glorioso Blueberry: un indisciplinato e sdrucito antieroico cowboy, dall’inconfondibile naso camuso, gli zigomi carenati e gli occhi glauchi intagliati in pelle resa cuoio dal sole del deserto, in un western decostruttivista, che omaggia, alla lontana, il recentemente scomparso Jean-Paul Belmondo (il più bello fra i brutti o il più brutto fra i belli, proprio per discostarsi dal cavaliere solitario senza macchia e dal viso angelicale e messianico). Insomma, il cowboy della bande dessinée più celebre, secondo solo al Lucky Luke morrisiano (di Blueberry abbiamo un film, lo psichedelico western del 2004 con Vincent Cassel, mentre del secondo abbiamo il film con Jean Dujardin, e prima ancora la serie anni Novanta con Terence Hill: forse uno dei suoi ultimi e più bei ruoli). Purtroppo la mostra è da questo punto di vista mancante perché la fase in cui Giraud si firmava come tale è assente: scelta stilistica quella di rispettare il suo desiderio di votarsi a un altro alter ego e quindi dedicarla solo alla sua seconda, incandescente e vertiginosa, carriera artistica, capace di consacrarlo autore completo e a tutto tondo e farlo ascendere all’empireo dei più grandi. Sì, perché nei ’60, Giraud fa la “Romain Gary shuffle”, ma senza segreti, con cui affianca al suo stile un altro completamente diverso, arrivando anche a firmarsi sotto lo pseudonimo più evocativo del matematico tedesco del celebre nastro eponimo (che ha ispirato il bel racconto A Subway Named Mobius, e l’altrettanto bel film francese del ’96). Fino ad allora Giraud ci aveva abituati a vedute infinite e iperrealistiche, calanchi dai colori abbacinanti, dove l’occhio poteva perdersi fra le centinaia di dettagli stratificati capaci di rendere immersiva e profonda l’esperienza di seguire il nostro indisciplinato soldato di Fort Navajo. Invece, sulle pagine di Métal Hurlant, rivista spartiacque per il fumetto adulto d’autore, con sferzate di brutalmente alte vette di sperimentabilità cyberpunk, dove incontrastabilmente grandissimi maestri si peritavano di stravolgere la storia del fumetto finora nota, spingendo la narrazione dove nessuno aveva mai osato prima. Provocatori, sperimentali, audaci, trasgressivi, debordanti, gli autori di tutto il mondo si incontravano per dare libero sfogo alle loro passioni, attingendo disinvoltamente all’immaginario pulp, underground, fantasy, e sci-fi. Giraud, rinato Moebius, dà prova di una poliedricità e versatilità che nessuno aveva mai avuto prima e nessuno avrà nello stesso modo come lui. Il suo Garage ermetico (opera di lettura non facile, terribilmente decostruita, che si diverte a spiazzare e sconvolgere il genere, non troppo diversa, in tal senso, dalle ardite sperimentazioni di Godard e della nouvelle vague o dei postmoderni che compiono i primi passi negli anni ’70, come pure della scrittura randomica della beat generation, dalla cut-up technique burroughsiana agli I Ching dickensiani), resta una lettura imprescindibile e un passaggio obbligato con cui doversi confrontare non per i soli fumettisti quanto per i narratori tutti. Avrà innumerevoli epigoni (su tutti, senza nulla togliere ma in un omaggio abbastanza evidentemente, il Penthotal di PAZ! e il primissimo Giuseppe Bergman di Manara), il modo in cui la storia diverge, converge, straborda, si perde, e procede a balzi, e come il tratto si involva e stravolga continuamente, fino ad approdare a un tratteggio nervoso e puntinato, che sembra matchare macchiaioli e dripper pollockiani. Mai uguale a se stesso, il cangiante e mutaforma Jerry Cornelius, sempre uguale e sempre diverso a parte un improbabile cappellone boero e i suoi baffi, ci sgrana l’evoluzione del tratto in spoliazione dal Giraud al Moebius, in un affinamento che è sgretolazione, fra paesaggi e lunghe campiture à la De Chirico.
Decostruendo le storie, il rinato in Moebius, decostruisce il suo stesso tratto, scrollandosi di dosso il realismo e l’iperdettaglio barocco, per abbracciare un disegno quintessenziale, votato alla sintesi sottrattiva (in ciò più moderno dei modernissimi, precorrendo le correnti future e comprendendo come un tratto semplice, naïf, talvolta persino infantile, possa esser veicolo ancora più efficace di disturbanti visioni in grado di demolire qualsiasi sicurezza). Se il contemporaneo Liberatore è considerato il Michelangelo del Fumetto, tuttavia Giraud/Moebius ne sembra ripercorrere la parabola (passando per lo sperimentalismo innovatore sfrenato), passando dalla gargantuesca Cappella Sistina ai bozzoli in un eterno incompiuto divenire dei Prigioni. Scrollandosi di dosso la rincorsa al gusto delle masse, dandosi da solo il riconoscimento che pretende, Moebius assurge a quello che è nato per essere: creatore di mondi (dimostrando come lo storytelling sia salvifico e contrapponendosi al concretismo dello scientismo oppenheimerianicamente inteso che ha portato la scienza umana a incarnare la profezia di Bhagavd Gita) e lo fa proprio attingendo e riabilitando la narrativa di genere, facendo un giro largo, e parlando d’altro per tornare a parlare, più efficacemente di noi, proprio come ha fatto abdicando un tratto di cui era maestro per volgersi a un altro, solo apparentemente, completamente contrapposto (un po’ come la scoperta dell’uovo di Colombo di un Picasso quando dal periodo blu passa al cubismo): quella ligne clair dei cugini belgi che, incrociata con l’immaginifico e il perturbante, può scrollare l’animo più anche di qualsiasi realismo artificioso (è il non visto hitchcockiano che ci turba più del bodyhorror in CGI, la macchia di sangue sulla candida coperta di un bambino che ci turbano più di qualsiasi macelleria guantanamesca, perché ci urla, ancora, Et in Arcadia ego). In questa seconda e mirabolante ascensione, su cui si concentra la mostra del Comicon ospitata al MANN, Moebius ci regala il suo meglio. Storie sulle quali tutti i grandi maestri si sono consumati gli occhi, come il neonoirscifi de The Long Tomorrow (giù il cappello Lucas, Gibson – William –, Besson). Il terribile Incubo bianco che parla alla pancia molle e più selvaggiamente razzista del borghese sovranista, purtroppo, ancor più attuale oggi, nelle banlieue di tutto il mondo.
I voli pindarici del suo Arzach metafisico, l’ultimo degli pteroguerrieri (la cui Rhapsody è visibile gratis online su YouTube ma non è, e come potrebbe mai esserlo, la stessa cosa, e che qualcuno ricorderà volare sulla sigla di Mixer, a Raidue, nell’89, sulle note di Jazz Carnival degli Azymuth), asserragliato nel suo reciso silenzio, fra improbabili rencontre alieni e scontri con ctonici mostri dai risvolti onirici e ironici. Metaforico, metalettetario, metatestuale, Metamoebius (il film visibile alla mostra ma anche proiettato al Cinema Vittoria complice il Napoli Film Festival), come nel chiaroscurale La deviazione, Giraud/Moebius perviene a una mimesi con la sua arte, finendo per cadere nelle sue stesse tavole (come farà il suo John Difol), terminando per diventare, a sua volta, soggetto della sua stessa arte e fotografando il suo proprio invecchiamento (in tal senso bellissima la tavola riprodotta su cartellone di lui intento a disegnare e il suo stesso disegno che, plastico, organico, di carne vivida, polposa e urlante, consistente più e quanto lui, sbalza fuori dal foglio).
Ma quante vite ha avuto Giraud/Moebius? Troppe per una sola mostra, e così vi rientrano le tavole del suo paradiso dantesco, ma sono grandi assenti il suo Parabola dove prestò le matite nientemeno che al Silver Surfer stanleeiano. Come pure sono assenti le altre illustri collaborazioni nate dagli incredibili incontri della sua vita: su tutti uno dei sodalizi più proficui dell’arte, quello derivante dalla simbiosi col genio immaginifico di Jodorowski. Conosciutisi sul set del più bello fra i progetti arenatisi (quel Dune perduto a cui non potrà mai esserci rimedio), con lo psicomago cileno ha avuto la fortuna di incrociare i pennelli e dar vita alla sua epica odissea fantascientifica e allegorica dell’Incal, ennesimo caposaldo di un genio inarrivabile, mentre le idee del suo Dune sono state saccheggiate e riciclate da tutti coloro che ne hanno visto i bozzetti (Alien, Blade Runner, Star Wars, il Dracula di Coppola).
La mostra dà, per scelta e perché ogni tentativo di esaustività sarebbe stato destinato a un deflagrante esaurimento, visione solo di uno spicchio dell’arte moebiusiana e in particolare scegliendo di valorizzare il suo legame con Napoli.  Moebius è stato ed ha amato Napoli (Napoli, come sempre ingrata, s’è fatta un poco negare: quando fu ospite al Comicon del 2007, memorabile fu quanto sottile fosse la fila per incontrarlo rispetto a quella del suo vicino di banco, l’altrettanto abbacinante narratore di storie, il mangaka Go Nagai). La nostra città, infatti, è stata onorata della sua attenzione, e possono scorrersi le tavole originali del suo Vesuvio (non meno celebre né degno di quello wharoliano custodito a Capodimonte) in uno fra gli omaggi più notevoli e lusinghieri che si possano immaginare, consacrando e così immortalando la nostra città in una delle dimensioni parallele dell’immaginario dove volano pterodattili meccanici albini, detective del 97esimo livello, cervelli elettronici Major, il cavaliere Tornsoc, un euchinus parnopiano e donne fauno che sentono pulcini della montagna leggere Rimbaud, evitando cacciatori del Lippon di Barascalpoe, mentre il presidente di un cda ottiene il permesso di cacciare l’ultimo sacro Ktulu.  
Forse una fiera non basterà a far capire al pubblico che l’arte va ricercata anche fra le pagine stampate e colorate della nona arte, e che anche i semplici fumetti, e non le solo pompose graphic novel, possono prestarsi a scrigni per scioccanti perle di maestria, se si accantonano i propri pregiudizi. Forse siamo ancora lontani, in Italia, da avere poli museali del fumetto degni di questo nome, che servano almeno a valorizzare i nostri di grandi maestri italiani (i dimenticati De Luca, Buzzelli, Toppi, Milazzo, Battaglia, Micheluzzi, Giardino, Tacconi e via discorrendo), per diffonderne non tanto il prestigio (quello che nelle loro terre natie gli viene negato, fuori gli viene tributato a mani basse) quanto la conoscenza e la consapevolezza di un passato glorioso (da recuperare la puntata di Du tac au tac del 1972, dove Pratt e Giraud si sfidavano a colpi di pennello per una sessione di disegno living in diretta che nemmeno nei sogni più sfrenati... oggi sì sarebbe fantascienza realizzare qualcosa di simile), unico modo per staccarsene e spingere se stessi e la propria arte verso altri lidi. Che è proprio quello che, in questa mostra, vediamo fare dal Fu Giraud E Sempre Sarà Moebius.





Moebius alla ricerca del tempo
MANN − Museo Archeologico Nazionale Napoli
Napoli, dal 10 luglio al 4 ottobre 2021

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