“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 01 July 2021 00:00

Sulle orme di Antonio Tarantino

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Lamezia Terme è un nuovo confine teatrale da esplorare, è una geografia che si allarga ai miei occhi, spostando un po’ più a sud quel limite territoriale dello sguardo che ci porta spesso in direzioni “eccentriche” – nel senso di lontane dalle direttrici centrali e centralizzate – in cui abitualmente vediamo declinare il teatro. Il TIP, a Lamezia, è un avamposto. Una “punta”, se vogliamo tradurre letteralmente il suo nome. E, come tale, proietta il suo sguardo in avanti, sforzandosi di immaginare un orizzonte possibile.

Al limitare di quell’orizzonte è apparsa una rassegna che è stata qualcosa di più e di diverso da una selezione di spettacoli: è stata invece una settimana di incontri e di tematiche, il cui volano è stato costituito dal tema dell’editoria teatrale e nel cui bel mezzo si è avuta anche l’occasione di ascoltare Daniele Timpano in un excursus affastellato della sua opera omnia, di dialogare di drammaturgia con Tino Caspanello e di ascoltare Goffredo Fofi ragionare, disquisire e raccontare intorno alla figura – e all’opera – di Alessandro Leogrande. Il tutto nello spazio accogliente di un foyer che s’acquartiera resistente già nella sua denominazione: “Biblioteca galleggiante dello spettacolo”; tra alti scaffali pieni di libri, appiglio sicuro a cui aggrapparsi, scialuppa di salvataggio, per mettersi in salvo da alluvioni reali e simboliche, ricovero salvifico fatto di carta e inchiostro. E di lì allo stretto corridoio che costeggia la sala teatrale, denominato Canyon Inverso, gli scatti di scena di Angelo Maggio hanno raccontato in fila e in sequenza circa tre lustri di teatro apparso sui palchi di Lamezia e dintorni. Infine, un focus dedicato alla figura di Antonio Tarantino, alla sua opera drammaturgica, ha preso forma nelle parole di Sandra De Falco (che dell’archivio di Tarantino è la curatrice), incastonate fra due rappresentazioni: Il vespro della Beata Vergine, portato in scena da Dario Natale per la regia di Mauro Lamanna e La scena, testo inedito condotto in forma di lettura drammatizzata da Licia Lanera. Settimana densa e pregna, che si è poi conclusa, in regime di eco-teatro, sulla spiaggia di Marina di Curinga ritrovando Patres e chiudendo con la performance rituale Zèphyr, dell’ensemble di Biagio Accardi.
Ed è proprio sull’opera di Antonio Tarantino, nella forma inscenata in due serate teatrali lametine, che vogliono precipuamente incentrarsi queste righe. Che partono dal ritorno al teatro, allo spazio chiuso di una sala, quella del TIP di Lamezia Terme, che ci ospita nel suo interno raccolto, uno spazio che il distanziamento rende più dilatato ma non per questo meno intimo: siamo a teatro, di nuovo; siamo in un luogo chiuso, fuori dal quale abbiamo lasciato le paure per provare a riappropriarci di quanto avevamo lasciato in sospeso. Calore di corpi in presenza, respiro e sudore, nervi che si tendono, vene che si gonfiano, voce che risuona al ritmo dei gesti. E poi: oggetti di scena, luci suoni e rumori. Teatro. Si ricomincia. Si riparte da dove ci si era lasciati, da come è sempre stato, da quella zona liminare tra palco e platea in cui il teatro, quando è teatro, “succede”.
E succede che a farsi teatro siano le parole di Antonio Tarantino, quelle di una drammaturgia “sporca” e necessaria, che espettora e non edulcora – e quanto bisogno se ne sente in tempi di esasperazione da politically correct che oltrepassa il parossismo! – che cerca parole adeguate che facciano “girare” il senso dei concetti che devono esprimere, e che conserva viva e intonsa quell’impudica e (im)poetica poeticità, insita in un senso di abiezione apparente (che volentieri lasciamo a quei benpensanti che inorridiscono per la scorza dura e mal assaporano la polpa pura). Perché, quando ci si approccia alla drammaturgia di Antonio Tarantino è la lingua la prima rivelazione che appare evidente, sia che vi si acceda attraverso la parola scritta, sia che la si ascolti risuonare in corpi scenici. È una scrittura ruvida e in dissonanza, che ricalca l’uomo che era stato, drammaturgo “tardivo”, arrivato alla scrittura oltre la soglia de cinquant’anni, dapprima pittore, dipoi spirito inquieto alla ricerca di una diversa forma d’espressione, che aveva trovato in una lingua graffiante e feroce, una lingua sporca e irregolare, la lingua parlata da un’umanità vilipesa e derelitta, una lingua che odora della carne marcia e della santità laica degli ultimi. È questa lingua che ascoltiamo vibrare nel Vespro, è questa lingua che ritorna la sera dopo ne La scena; Dario Natale prima, Licia Lanera poi, ne sono cassa armonica di risonanza.
Un ticchettio piovoso in sottofondo prelude all’ingresso in scena di Dario Natale, interprete unico e polifonico di questo testo a più voci, Il vespro della Beata Vergine, parte della Tetralogia delle Cure − ovvero i Quattro atti profani di Tarantino − comprendente, oltre al Vespro, Stabat Mater, Passione secondo Giovanni, e Lustrini.
Sulla scena vedo un paravento, un cubo, un tavolino con le rotelle su cui un drappo rosso che scopriremo essere un abito femminile spezza i toni dominanti di un bianco diafano e metallico che sa d’asepsi ospedaliera: nella freddezza anonima d’un obitorio, un padre è in cospetto del cadavere del figlio e ne ripercorre, in una ridiscesa agl’inferi del sordido, il panorama esistenziale, fatto di una famiglia di vite allo spasimo.
Posso immaginare quanta energia compressa fosse incamerata in un corpo scenico dopo tanta inattività forzata; posso immaginarlo e ne ho la conferma vedendo Dario Natale in scena, corpo, sudore e vene che si gonfiano, possedere il testo e farsene possedere, con furore. Interpreta le parti principali di tre figure: il padre, il figlio, la madre, a ciascuno corrisponde una postura e una direzione dello sguardo. Occhiali fumé, un impermeabile lungo, una borsetta. Modula i timbri e le voci per variare i personaggi, il tono è concitato, sovraccarico come la tensione verbale che anima e pervade il testo, l’abito rosso afferrato, come nel gesto di volerlo scaraventare lontano, fermandosi all’intenzione, inveendo contro “la vita puttana” del figlio. Lo sguardo di Dario Natale è costantemente puntato verso l’alto, come se i destinatari dell’interlocuzione fossero in uno spazio altro, posto al di sopra, probabilmente il cielo a cui per antonomasia si fanno ascendere le anime private del loro corpo mortale, come quella di un figlio strappato alla vita.
L’atmosfera musicale è rarefatta, composta di poche note che si ripetono ipnotiche, congrue e consone a questo clima da tragedia balorda. A queste note fanno da contrappunto vocale le diverse voci a cui corrispondono personaggi ed essenze: un padre la cui fonesi è arrochita dall’abbrutimento, un figlio in cui risuona una emotività fragile e dissennata e una madre affranta, che seduta vagola il suo dolore; parole in centrifugo affastello, che sembrano condurti verso un impervio senso dissonante, per poi ricondurti alla cruda verità del vero.
È del figlio l’unico sguardo che si rivolge verso la platea, mentre si susseguono parole che caracollano e che potrebbero sembrare slegate, in una concitazione che restituisce il senso laico di un sacro – apparentemente sudicio e laido – che s’appantana agli orli d’un degrado di periferia. Una periferia di seconda mano, in cui un padre raccoglie le disperazioni postume al suicidio d’un figlio: depravato frequentatore di “puttane da un quintale” l’uno, marchettaro travestito l’altro: una borsetta e uno sdrucito abito rosso sono i segni visibili di quel vissuto, mentre aumenta il sibilare del vento, mentre la luce resta soffusa e bassa.
S’innestano poi su racconto e evocazione corporea e verbale le proiezioni in videomapping che si dipingono sul biancore degli elementi di scena: come in una sequela di filmini domestici, passa in rassegna una sorta di amarcord familiare, che probabilmente evoca e dice più di quanto fosse necessario, meno di quanto la forza scenica delle parole e la loro interpretazione carnale e mimetica di Dario Natale abbisognassero, bastando già a sé; è come se le immagini che vediamo scorrere di un’infanzia serena e gioiosa un po’ stridessero con quanto abbiamo fin lì veduto apparire e richiamare in scena. Sono immagini che trasmettono lo stupore panico del candore fanciullesco, come di un Antoine Doinel che nel finale de I 400 colpi raggiunge per la prima volta il mare o di un Ciàula che s’accorge del bagliore inaspettato della luna, e che in definitiva divengono un’estensione esplicita di ciò che parola e gesto erano già riusciti a disegnare coi tratti essenziali del linguaggio scenico.
Nel suo mimetismo, nel procedere da un ruolo all’altro, fino a dar voce impastata a un commissario di polizia intabarrato nel suo lungo impermeabile, a un infermiere o al proprietario della pensione che reclama un sospeso lasciato dal suicida, Dario Natale si carica sulle spalle tutta la forza interpretativa delle parole tarantiniane: corpo che vibra, che pulsa, che risuona e in cui, come forse avrebbe detto Tarantino stesso, la parola “gira”. E si fa carne, s’imperla di sudore e infine arriva, tutta, con tutta la sua forza squassante.
La sera dopo è la volta di Licia Lanera; è lei a farsi portatrice delle parole di Antonio Tarantino in un testo inedito, La scena. Una tuta blu, zeppe ai piedi, una sedia e un leggio, due stivaletti anfibi davanti, un tavolinetto a servizio, sul quale campeggiano un flaconcino, uno specchio e un cotton fioc. Prima di dar corso al suo atto scenico, la Lanera racconta – indugiando in quella zona mista tra confidenza informale e inizio del rituale canonico da palco – del suo incontro con Tarantino, avvenuto in una progressione di senso, dall’uomo alla scena, dalla scena alla pagina. Rimarca anche lei lo studio che c’è alla base della lingua nella drammaturgia tarantiniana, di una lingua che non fa sconti. Mentre parla, calza gli anfibi, prima mimesis, nonché segnale scenico della teatralizzazione in forma di lettura che va a incominciare. Nella sua mise improbabile, scherza definendosi “il vostro meccanico di fiducia”, ancor più ‘credibile’ in quanto tale per un paio di baffi che si appiccica tra naso e bocca, seconda mimesis. Comincia poi a modulare i toni della voce, e le mimesi arrivano a tre.
Comprendiamo subito, dalla chiarezza con cui Licia Lanera lo rende evidente, che non siamo dinanzi a una semplice lettura su palco, ma alla drammatizzazione scenica di un testo letto; corpo e voce seguono l’andamento delle parole, ne sottolineano le coloriture, ne riproducono fedelmente la ritmica interna.
La scena ha la compattezza di un corto teatrale, ambientato nel degrado universale di una città qualunque, “una merda di città come una New York o una Sarajevo”. Il panorama umano non è poi troppo dissimile da quello del Vespro. Se ne differenzia per una coloritura da apologo grottesco, da scuola di vita per principianti non del tutto avvisati di come vada il mondo, che rischiano di rimanere fottuti (e ci rimangono) per l’improvvida dabbenaggine di essersi fermati a un semaforo rosso. Il grado di drammaticità del testo è praticamente inverso rispetto al Vespro, ma nelle parole – e nel modo che la Lanera ha di porgerle – ritroviamo la medesima carica eversiva di una lingua che all’apparenza svilisce verso una degradazione di se stessa, ma che in realtà, a leggerla con attenzione, possiede una raffinata circolarità di senso e una purezza semantica che deborda in un flusso di invenzioni icastiche che si susseguono senza soluzione di continuità.
Licia Lanera si mette al servizio di questa parola, facendosi concava nell’accoglierla, convessa nel restituirla, trovando una misura che sembra appartenere per empatia ed elezione a testo e interprete, all’autore e a chi se ne è fatto latore.
Due testi e due recite, Il vespro della Beata Vergine e La scena, in due sere: la sensazione di essere entrati in contatto e in visione con una drammaturgia pregna, con una scrittura da attraversare e da cui lasciarsi scuotere. Pura, come l’approccio di chi, camminando sulle orme di Antonio Tarantino, in due sere e in due recite, l’ha portata su un palco lasciandosene attraversare.

 




Lo sguardo e la veduta
Il vespro della Beata Vergine
di
Antonio Tarantino
regia Mauro Lamanna
con Dario Natale
disegno sonoro Alessandro Rizzo
videomapping Ejab Halabi Kher
scena Pasquale De Sensi
contributi strumentali Mattia Natale, Donato Parente
voce fuori campo Giorgia Morabito
abito di scena Santina Nicotera
foto di scena Angelo Maggio
produzione Scenari Visibili
lingua italiano
durata 1h 10
Lamezia Terme (CZ),  TIP Teatro, 20 maggio 2021
in scena 20 maggio 2021 (data unica)


La scena
di
Antonio Tarantino
regia e interpretazione Licia Lanera
foto di scena Luca Imperiale
produzione Compagnia Licia Lanera
lingua italiano
durata 40’
Lamezia Terme (CZ),  TIP Teatro, 21 maggio 2021
in scena 21 maggio 2021 (data unica)

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