“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 May 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Baglioni e Bellani

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Per la trentesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo due giovani autori Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani sono autori e drammaturghi, interpreti e registi. Di loro ricordiamo la Trilogia dei legami con Gianni, Mio padre non era ancora nato e Sempreverde.


Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Caroline Baglioni: La grandezza di un’opera è direttamente proporzionale al numero di persone che riesce a coinvolgere intimamente, il rapporto unico che si crea tra chi sta sopra il palcoscenico e chi  sta lì a guardarlo è la forma più assoluta di fiducia che ci può essere tra persone. Quando qualcuno si siede in platea e decide di stare ad ascoltare uno sconosciuto e la sua storia, inevitabilmente mi chiedo cosa stia cercando e cosa cerco io che sto lì sopra. Ecco, credo che tutti in teatro ogni sera cerchiamo qualcosa, qualcosa che si avvicini più possibile al prenderci per mano e fare un viaggio insieme per scoprire nuovi mondi, punti di vista, traiettorie possibili. E per far sì che questo possa accadere e diventare uno scambio alla pari sono imprescindibili almeno tre cose: l’ascolto reciproco privo di giudizio, la condivisione intima di un mondo, il desiderio di lasciarsi rapire senza gridare ‘Aiuto!’.
Michelangelo Bellani: La creazione scenica potrebbe fare a meno di tutto, ad eccezione della ‘relazione’. Tento di spiegarmi. L’arte teatrale è un forma di creazione spuria. Essa ricorre sovente a numerosi elementi creativi: parola, azione fisica, musica, immagini, e via dicendo. E questo sembrerebbe compromettere la possibilità di rintracciarne un’essenza. Tuttavia, tutti questi elementi, concorrono alla dimensione dello ‘spettacolo’. Il teatro invece si basa sulla relazione. La relazione di almeno due esseri viventi che si pongono uno di fronte all’altro in un tempo presente. Da questo punto di vista non si tratterebbe tanto di identificare un luogo deputato o un particolare stile di azioni, ma appunto di appurare l’esistenza di questa relazione. È l’azione che muove verso questa relazione profonda di significanza, il porsi dinnanzi a guardare/mostrarsi, (vedersi vedenti) a fare teatro, come la stessa etimologia della parola testimonia. Certo, questa relazione potrebbe valere anche al cospetto di un tramonto, o di un cielo stellato sopra di me, ma in quel caso parleremmo della meraviglia del pensiero, la meraviglia di fronte al mistero dell’universo a cui gli antichi Greci legavano la nascita della filosofia. Mentre quando gli uomini si pongono gli uni di fronte agli altri per comprendere il dolore, la nascita, la morte, il sogno e la realtà, lì accade il teatro.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?  
Caroline Baglioni/Michelangelo Bellani: Il discorso è complesso da fare e meriterebbe un ampio confronto. Indubbiamente le possibilità si sono moltiplicate a livello strettamente quantitativo, ma se della creazione artistica ci interessa anche e soprattutto l’aspetto qualitativo, la situazione non è altrettanto entusiasmante. La stessa idea di bando, come strumento egemone per il finanziamento, sembra mostrare non poche criticità. Se da un lato il bando è uno strumento volto a incrementare accessibilità e trasparenza nella gestione delle risorse; dall’altro rischia di compromettere il libero accadimento della creazione e, fatto ben più grave, rinuncia alla responsabilità di una direzione artistica/produttiva intesa come fondamentale relazione sinergica fra ente produttore e artista. La coercizione al bando ha allevato una generazione di artisti sempre più affannati a reperire e compilare moduli, piuttosto che impegnati nello studio e nella creazione e ha abituato gli organizzatori a pescare nel mare indistinto delle proposte invece di coltivare relazioni proficue sviluppate nel tempo. Per di più la categoria più in voga dei bandi riservati ai così detti “under 35” (oramai anche under 30) rischia di generare un buco nero per tutti gli artisti che, una volta compiuto il trentaseiesimo anno di età non trovano più referenti. Nel proliferare delle occasioni, bandi e festival, molti dei quali rappresentano una reale opportunità e sono gestiti con passione e competenza, ve ne sono purtroppo altrettanti che rappresentano dei veri e propri specchietti per le allodole. Fra bandi a premio che premiano con una replica a costo zero per chi la organizza, magari dopo aver ricevuto un finanziamento regionale per organizzare il proprio festival; teatri con finanziamento pubblico che propongono repliche a incasso senza garantire un minimo cachet; produzioni di teatri nazionali che costringono gli artisti a paghe al minimo della sopravvivenza, mentre la gran parte delle risorse pubbliche vengono destinate al mantenimento organico della struttura; è tutto, ancora troppo spesso, drammaticamente sulle spalle degli artisti, che pur di riuscire a vedere realizzate le loro creazioni si piegano a condizioni inaccettabili.
Bisognerebbe in primo luogo creare una normativa adeguata al settore che riconosca le specifiche professionalità. Riconoscere che essere artista significa anche svolgere una professione con specifiche tutele sindacali. Distinguere con adeguati strumenti giuridici le realtà professionali dal calderone delle tante attività amatoriali, e forse anche distinguere la creazione artistica di interesse pubblico dall’impresa teatrale prettamente commerciale imperniata esclusivamente sul personaggio noto di turno.
Il concept, perlopiù squisitamente algebrico, dell’attuale normativa ministeriale, sin dalla sua entrata in vigore, ha mostrato evidentemente tutti i limiti del caso e rischia di azzerare i veri indici di salvaguardia della creazione scenica.
Ma c’è bisogno anche della passione e del cuore. Bisognerebbe anche che i ‘produttori’ tornassero a innamorarsi dell’arte degli artisti con cui scelgono di avere un rapporto e come fanno tutti gli innamorati ricominciassero a fare ‘pazzie’ per rendere avvincente un panorama teatrale (per non dire mercato) oramai tanto disciplinato e prevedibile da risultare sempre più simile a una fotocopia mal riuscita della televisione.


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Caroline Baglioni/Michelangelo Bellani: La distribuzione attualmente in Italia è contingentata. Gli enti teatrali finanziati pubblicamente hanno degli indici da rispettare che di fatto disincentivano la circuitazione. Le realtà più virtuose cercano di ricavarsi dei piccoli spazi per dare ossigeno alle produzioni indipendenti più interessanti al di fuori del ‘mercato ufficiale’, ma sono gocce nel mare di chi si adegua e fa buon viso a cattivo gioco inventandosi meccanismi ancora più perversi fra scambi di date e falsi borderò, pur di mantenere gli indici di quantità necessari, a totale discapito dell’evento teatrale e della sua promozione e diffusione. Inoltre la cattiva pratica delle stagioni ‘off’ ha diffuso la fuorviante nomenclatura di un teatro di serie A (con le grandi facce nei cartelloni) e un teatrino ‘semiclandestino’ di serie B in cui insensatamente finiscono anche artisti di valore assoluto con trent’anni di carriera alle spalle. La domanda è: chi difende questo valore? Perdurando in questa separazione potrà mai avvenire il passaggio dall’off all’on? La critica, ormai deportata (come del resto tutta la comunicazione della comunità teatrale) nei social network, non ha più nessuna voce in capitolo per contribuire alla costruzione di un valore artistico. Come i politici con i sondaggi elettorali, i gestori delle risorse spesso si nascondono dietro l’idea che il ‘pubblico’ − nel generico indistinto in cui è proiettato − “vuole questo”; e così non propongono uno stato dell’arte, ma semplicemente lo subiscono. Di fatto avviene qualcosa di molto simile a una censura preventiva. Artisti che non trovano nessuno spazio di confronto con il pubblico, magari se adeguatamente promossi, avrebbero la possibilità di attirare una fascia di persone che attualmente viene scarsamente presa in considerazione. L’innovazione e la distribuzione culturale è anche un fatto di coraggio e di anima, se ci arrocchiamo nelle nostre ormai così poco stabili posizioni acquisite non andremo troppo lontano.
Nel 2016 abbiamo vinto il Premio InBox, uno dei pochissimi che attraverso una rete mette in palio il vero ossigeno per gli artisti teatrali cioè le repliche. L’anno precedente il Premio Scenario Ustica, e poi altri bellissimi riconoscimenti. Ma si riparte sempre da zero. Non c’è continuità perché quasi nessuno investe in un progetto artistico pluriennale. Occorrerebbe moltiplicare la possibilità e gli incentivi alla circuitazione retribuita con cachet equi; non sprecare risorse in teatri o festival che non garantiscono condizioni dignitose; riorganizzare il sistema della gestione dei finanziamenti pubblici in modo tale che, contrariamente a quanto avviene, il costo di mantenimento delle strutture e del personale non artistico, non superi la quota destinata alla creazione e diffusione delle opere. Ma è necessario più di ogni altra cosa il fattore umano, senza il quale nessuna riforma strutturale potrebbe produrre risultati. Credere nelle persone. Nell’arte. Al bisogno interiore e collettivo di respirare bellezza, che seppur non può salvare il mondo è da sempre la spinta di chi il mondo lo salva davvero.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la vostra opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Caroline Baglioni: Siamo da poco entranti nella quarta settimana di quarantena nazionale, eventi live online di ogni genere, (letture, poesie, video integrali di spettacoli, conferenze) hanno iniziato ad affollare le nostre bacheche e le nostre mail. Se all’inizio l’ho trovato il modo più efficace e diretto per sostenere il teatro e il nostro lavoro, già dopo pochi giorni mi sono resa conto di quanto questo genere di virtualità tradisca la natura specifica del teatro veramente live, (vivo, immediato, vibrante per respiro o colpo di tosse) che non può bucare lo schermo, né avvicinarsi minimamente a poter essere un’esperienza. La specificità del teatro è proprio la relazione, come abbiamo già sottolineato più volte, e tradurlo per immagini lontane, sfocate o nitide che siano, non può rendere giustizia a nessuna caratteristica che definisce l’esperienza dal vivo. Il video, già solo per la possibilità che apre ad essere visto e rivisto, stoppato, ‘pausato’, filtrato, non può sorreggere la potenza del qui e ora, anzi, appiattisce e allontana lo spettatore che cerca l’immediatezza e la vicinanza. Non a caso alcuni lavori che ci paiono strepitosi in video a volte dal vivo ci deludono e viceversa. Il teatro non ammette mediazione, né virtuale, né umana.
Michelangelo Bellani: Il teatro non è un luogo (tòpos) del tempo. È un luogo della coscienza. Coscienza di un gesto. Di una parola. Di una scelta. Di un’azione. È dunque molto difficile proiettarlo, ‘spammarlo’ nella totalità digitale e iper-connessa dominata dal ‘tempo reale’. In teatro non esiste una durata nel senso bergsoniano del termine, poiché non vi è alcuna preoccupazione feticistica di conservazione o archiviazione. È un’arte deperibile che contravviene alla vocazione dell’estetica tradizionale. Infatti, il fine dell’estetica artistica − sia che si tratti della ‘fissazione’ dell’impressione del sentimento, sia che si tratti di un’espressione concettuale − mantiene una sottile quanto imprescindibile tensione all’eternità, per la quale il grado di riuscita estetica è commisurato a una bellezza universale cui risulta indispensabile durare nel tempo. L’estetica di una situazione teatrale, al contrario, si distingue per la rinuncia a voler realizzare un’opera durevole e per il suo essere-per-la-fuga del tempo in quanto espressione concreta di un vissuto. Il teatro è un’esperienza che si compone della stessa ‘stoffa’ dell'esistenza e dunque, come è naturale che sia, è mortale. Vivere qualcosa di unico e irripetibile e viverlo sulla propria pelle. Non è da sempre questo il desiderio più o meno velato di chi partecipa a un’esperienza? Far accadere qualcosa di nuovo e imprevisto nel corso di ogni replica, non è forse il segreto del vero talento dell’attore? Da questo punto di vista, una continua reperibilità e accessibilità non può che svilire l’esperienza teatrale. Può valere come strumento promozionale, caso di studio, ma in nessun caso come surrogato dell’esperienza. Il teatro non è tempo reale, è presenza. Per me, fare teatro significa soprattutto riflettere la contemporaneità. L’apertura dell’arte teatrale, proprio per la sua natura di evento immediato e deperibile, lontano dal real-time della comunicazione di massa, riceve e produce valore in una società come atto di partecipazione collettiva ovvero come compresenza attiva in un determinato momento storico, ma che si nutre anche di una certa distanza, di un certo ‘scarto’ dal tempo reale, di un certo ‘mosso’ dato all’apparenza delle cose. Coscienza, appunto di ciò che ‘rappresentiamo’ nel presente e delle implicazioni del nostro modo di parlare e di agire.


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo voi gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Caroline Baglioni: Sottrarsi a ciò che per definizione chiamiamo ‘reale’, per quanto ci sforziamo, è forse impossibile. Personalmente negli ultimi anni, anche attraverso la scrittura, ho preso a prestito come basi dei miei testi fatti estremamente concreti, che fanno parte del quotidiano e che se anche non riguardano in prima persona tutti, sono entrati a far parte della storia di tutti, come ad esempio il crollo del Ponte Morandi nel 2018 o la battaglia di Dj Fabo per il suicidio assistito. La mia personale sfida col reale è sempre quella di partire da esso per discostarmene, veicolarlo cioè attraverso vie inaspettate che portino da un’altra parte, il reale come una porta per entrare in un altro mondo, universale, che riesca ad intercettare una storia comune, un’umanità comune. Non trovo quasi mai interessante riportare la realtà nuda e cruda su un palcoscenico, il teatro ha la forza per fare molto di più, proprio perché parte dall’opposto, da una ‘finzione’, e allora si tratta di reinterpretare la realtà in modo da renderla tridimensionale, elevarla a qualcosa di tanto impossibile quanto significante, e compiere un giro tale per cui la realtà possa tornare, per magia, a superare la fantasia.  
Michelangelo Bellani: Per me non si è mai trattato di imitare la realtà. Semmai di essere autentici. L’autenticità non è una categoria che si specchia necessariamente nella realtà. Anche un fatto immaginario, un sogno, un’invenzione, possono essere autentici come vissuto. Essere autentici significa esprimere il momento di un Essere, più che la sua essenza. Esprimere la manifestazione di un tempo finito, piuttosto che l’assoluto di un ideale. Anche se una certa idealità non può essere del tutto impedita.
Tutto questo mi porta a considerare lo spettatore un incontro, non un fronte, nel quale incontro, agisce come metafora il più ampio rapporto che riguarda lo ‘spettacolo’ del gran teatro dell’esistenza, delle categorie del pensiero, del vedere e decifrare l’estensione della realtà. Mi pare allora che in teatro ci si possa porre la questione di come condividere un’autenticità di cui si è naturali partecipanti dal momento in cui le categorie della simulazione, tanto nella vita che nel palcoscenico, sono perennemente in agguato.
Non c’è una mimesis perfetta della realtà, così come non c'è qualcosa come un’assoluta distinzione di ciò che è vero. Senonché, la mimesis perfetta della realtà è la realtà stessa. Così come (Essere) ciò che siamo, è per sua natura, e non per strabismo umano, una relazione e non un’essenza immutabile da disvelare. In questo senso, allora, il teatro vale non come semplice imitazione, ma in un qualche modo come ‘produzione’ di realtà. Vedere ed Essere-visto: esso stesso accadere.
Drammatico o post-drammatico sono puramente esercizi dello stile. La cui possibile de-costruzione ha abbondantemente superato ogni possibile esito programmatico.

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