“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 19 January 2020 00:00

Sergio Blanco e l’autofinzione: “Tebas Land”

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“Io è un altro”
(Arthur Rimbaud)



Che cos’è l’autofinzione? Lo spiega molto bene Sergio Blanco, drammaturgo e regista franco-uruguagio nel primo capitolo del suo saggio intitolato appunto Autofinzione. L’ingegneria dell’io (Cue Press, 2019): neologismo coniato nel 1977 da Serge Doubrovsky, il termine designa un genere letterario che associa e fonde elementi autobiografici con elementi finzionali. Non che tale pratica non esistesse già – e per spiegarlo Sergio Blanco passa in rassegna esempi significativi che vanno da Paolo di Tarso a Sant’Agostino e Santa Teresa d’Avila, da Montaigne a Rousseau e Stendhal, per arrivare fino a Rimbaud e Nietzsche, prima di inoltrarsi nei meandri del Novecento con le ricadute speculative della psicologia freudiana e del pensiero filosofico – ma è a Doubrovsky che se ne fa risalire la codifica in forma di genere.

Sergio Blanco, in ciò sovrapponendo ulteriormente i piani in modo da darne definizione “sul campo”, in una sua drammaturgia – Il bramito di Dűsseldorf – fa definire l’autofinzione da uno dei suoi personaggi “come l’incrocio tra delle narrazioni reali e delle narrazioni di fantasia”; ancora, più nello specifico “l’autofinzione rappresenta il lato oscuro dell’autobiografia e, come l’autobiografia si basa su un patto di verità, così nell’autofinzione vige un patto di menzogna”.
Dunque, la drammaturgia di Sergio Blanco nasce e s’impronta a questa commistione tra ciò che è reale e ciò che non lo è: una cosa non esclude l’altra, ma entrambe si fondono, concorrendo alla costruzione di quella che lo stesso Blanco definisce “ingegneria dell’io”, ovvero un dispositivo meccanico che trasforma l’evento effettivo in immagine poetica, traslata mediante una serie di passaggi che nel loro insieme compongono per l’appunto il quadro autofinzionale.
Grazie all’attenzione che Il Teatro di Rifredi – Pupi e Fresedde ha dedicato e sta dedicando alla drammaturgia internazionale contemporanea, abbiamo avuto modo di assistere alla messinscena di uno di questi testi autofinzionali, Tebas Land, per la regia di Angelo Savelli. Lo stesso Savelli aveva curato anche la regia delle opere di altri due autori internazionali: lo spagnolo José Maria Miró (Il principio di Archimede) e il francese Rémi de Vos (Alpenstock, a cui assistemmo proprio a Rifredi e il successivo – e meno convincente – Tre rotture, visto in scena allo scorso Napoli Teatro Festival). Così facendo, il Teatro di Rifredi conduce operazione meritoria, consentendo di allargare confronto e percezione di un universo drammaturgico dalle frontiere dilatate, che guarda fuori dai nostri confini, così fornendo uno spettro più ampio – e dal più ampio respiro – su ciò che si produce per la scena in un raggio più largo di quello esclusivamente nazionale.
Nel caso specifico, l’attenzione e la cura rivolte al lavoro drammaturgico di Sergio Blanco danno modo di interfacciarci con un tipo di scrittura della scena conoscendone teoresi e prassi.
L’autofinzione, come s’accennava dianzi, consiste in una creazione di immagini capaci di compiere una traslazione dal trauma all’intensità poetica dell’immagine stessa: un’operazione di “ingegneria dell’io” (per riportare ancora il sottotitolo del volume in cui Blanco enuclea i principi dell’autofinzione), che trova i propri fondamenti nell’opera di pensatori e scrittori illustri del passato; Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, nelle sue Confessioni scrive a proposito del recupero memoriale dei propri ricordi: “Ci sono vuoti e lacune che non posso colmare se non con racconti confusi”, così compiendo una relativizzazione della verità, in certi casi un’espulsione della verità stessa: in tal modo il tempo dell’interiorità non coincide con il tempo reale e si suppone per vero ciò che avrebbe potuto esserlo, mai però aggiungendo ciò che è del tutto falso. Tutte queste considerazioni – autofinzionali ante litteram – da parte del filosofo ginevrino risalgono a molto prima (sono del 1782) che psicologia e pensiero filosofico del ‘900 arrivassero a constatare l’inconsistenza narrativa dell’io. In pratica, secondo Rousseau, in questa operazione di recupero memoriale ciò che viene riportato “è come se fosse la stessa cosa ma non è la stessa cosa”.
Sergio Blanco stila un vero e proprio decalogo della scrittura autofinzionale, i cui passaggi dettagliatamente enucleati vanno dalla Conversione (ovvero trasformazione dal vero al verosimile) al Tradimento, ovvero la poetizzazione espletata esercitando la libertà di essere infedeli; c’è poi l’Evocazione, ovvero la riattivazione del passato come elemento da ripercorrere per riappropriarsene; segue la Confessione (di qualcosa fino ad allora indicibile e ignominioso, che diventa pubblico), la Moltiplicazione dell’io, ovvero la prospettiva individuale che acquista pluralità di angolazioni possibili, la Sospensione, ovvero la perdita di consistenza del tempo, per cui il passato è aperto come il futuro, cosicché diventa drammaturgicamente manipolabile, l’Elevazione (significativamente incarnata dal professore di Tebas Land interpretato da Ciro Masella), che consiste in un cinismo mascherato da falsa umiltà che in realtà ha funzione opposta a quanto sembrerebbe, aumentando il senso di ambiguità e ambivalenza; all’Elevazione segue il suo opposto, con medesima funzione: la Degradazione del personaggio, spesso un’auto-degradazione, che può in realtà celare un sottile meccanismo di nobilitazione dell’io spingendo su una forma di vittimismo: “Così come l’elevazione nasconde lo strappo di una frattura, la degradazione nasconde il recupero di una riabilitazione”, scrive in proposito Sergio Blanco nell’opera citata. Concludono il percorso autofinzionale Espiazione e Guarigione, ovvero fasi ultime che consentono di operare una riabilitazione attraverso il racconto (scritto prima, scenico poi). Nell’autofinzione alla parola si riconosce un potere curativo, che poi altro non è che una forma elaborata di catarsi applicata.
Fin qui la teoria. Nella prassi, la teatralizzazione del testo curata con fedele scrupolo nella traduzione e con avveduta congruenza nella regia da parte di Angelo Savelli, avviene mediante una serie di segni che si disseminano lungo la rappresentazione e che cominciano prim’ancora che s’acceda in teatro, quando nel foyer Ciro Masella (che troveremo poi in scena insieme a Samuele Picchi) si issa su un piccolo scranno e – microfono alla mano – comincia a parlare in prima persona come fosse un banditore che invita alla visione: la finzione è già cominciata, è l’attore che recita la parte, ma gioca consapevolmente sull’equivoco indotto: siamo già nello spettacolo, ma non ne siamo ancora del tutto consapevoli, l’inganno finzionale ci ha avvolti prim’ancora che riuscissimo ad accorgercene; Masella è già nel ruolo che la drammaturgia gli ha assegnato e l’arricchisce di un dettaglio “reale” (l’accenno all’influenza che effettivamente ha), che colgo e riscontro come una commistione aggiuntiva e significativa fra verità e finzione, un inveramento improvvisato e collimante coi dettami della poetica di Sergio Blanco. Il gioco è cominciato e ci ha da subito mostrato l’essenza concettuale di Tebas Land.
E prosegue.
L’ingresso al teatro avviene da dietro, palco e platea sono invertiti (e questo è un altro aspetto significativo, un ribaltamento di prospettiva tra la posizione abituale di chi guarda e chi è guardato); la platea è metallica, come la gabbia in scena. Dentro la gabbia due panchine, fuori da un lato una cattedra, dall’altro una lavagna. Nella gabbia un canestro: ogni arredo di scena avrà un senso e una valenza nell’economia drammaturgica della rappresentazione, il cui vero fulcro saranno però i personaggi e l’interpolazione drammaturgica tra verità e finzione. C’è una frase in particolare, pronunciata in scena da Ciro Masella, che a mio avviso segna effettivamente l’ingresso dello spettacolo in una forma ‘meta-drammaturgica’, ovvero quando il suo personaggio (drammaturgo e regista di un’opera che s’avvia a prendere forma), si chiede: “Quando si comincia a scrivere realmente un testo?”. In quell’avverbio di modo pare si condensi l’intera polivalenza di quanto vediamo, la sfumata commistione tra il vero, il falso, il verosimile e il possibile.
Una mescolanza che rende ancora più intricato e avvincente il plot della vicenda: c’è uno scrittore e drammaturgo (Masella) che si reca in carcere – o meglio, nel campetto da basket del carcere – per incontrare Martino, un parricida conclamato, per scrivere l’adattamento teatrale della sua vicenda personale. Inizialmente il ruolo del parricida in teatro è pensato per essere interpretato dal parricida stesso, così creando identità totale tra protagonista della storia (vera) e protagonista del dramma (finto); gli subentrerà poi un attore (vero) che sulla scena manterrà il proprio nome reale (Samuele) come interprete di sé stesso e assumerà al contempo  il ruolo del (finto) detenuto parricida Martino. Il gioco è bello denso e complesso, è una sfida allo spettatore non tanto sul piano della comprensione della dinamica drammaturgica – che è chiara e lineare nel suo sviluppo – quanto nella stratificazione dei livelli di senso e dei piani di verità e menzogna, realtà e finzione, che diventano sezioni intersecate destinate a lasciare sospesa la percezione di chi vi assiste.
Dapprincipio il drammaturgo e regista (Masella) indugia intimidito in un angolo della scena, mentre il giovane parricida appare nevrotico, spizzica compulsivamente la superficie di un pallone da basket all’interno del piccolo playground, Ciro gli tende una mano, lui non raccoglie il gesto di avvicinamento. Tra i due lentamente comincia a instaurarsi un rapporto, i cambi di luce rimarcano i passaggi scenici nonché il cambio di personaggio: giù il cappuccio e inforcati un paio d’occhiali, Samuele esce dalla gabbia, smette di interpretare Martino e torna ad essere Samuele che deve interpretare la parte di Martino.
Il riferimento al titolo, oltre che alle implicazioni edipiche insite nel parricidio, suggerisce anche il rimando all’enigma posto dalla Sfinge che lo stesso Edipo risolse; è anche questo un rimando che s’allaccia al rovello costruito da Sergio Blanco: questo testo è una sorta di cimento con cui lo spettatore è indotto a confrontarsi, per venire a capo di una percezione plausibile del vero. O ancora (e meglio) è un modo per interrogarsi speculativamente sulla sistematicità del dubbio, che viene instillato con acume, ponendo una serie di questioni che, anziché essere risolte, vengono lasciate al vaglio della coscienza dello spettatore. E Tebas Land, la “terra di Tebe” finisce per rappresentare una zona d’ombra, un lato oscuro, qualcosa che intimamente ci appartiene e ci accomuna, affratellandoci potenziali parricidi (simbolici) nella zona grigia del dubbio.
E la costruzione scenica di questo dubbio avviene in modo del tutto credibile – “vero” oserei dire, se il senso del vero non fosse messo filosoficamente in discussione dai principi autofinzionali – mediante una compresenza di elementi compositivi che vanno dal disegno luci cangiante alla capacità attoriale di alternare i registri in base al variare dei toni dialogici. Se Ciro Masella si conferma un interprete notevole per la capacità di infondere spessore al proprio personaggio cesellandolo a tutto tondo e facendone vibrare ogni sfumatura caratteriale e calibrandone minuziosamente le sottigliezze psicologiche, Samuele Picchi si rivela molto bravo nel bipartire la propria interpretazione connotando i due ruoli in cui è chiamato a scindersi con una capacità di variare piani e livelli senza incertezze né sbavature. La gamma espressiva di Masella ben si coniuga con la dualità attoriale di Picchi e insieme appaiono del tutto a loro agio in un disegno registico che, concepita la scena come un realistico playground da basket – territorio detentivo e contenitivo – ai cui lati sono situati una scrivania e una lavagna – territorio “professorale” e “autorale” – ha nel proscenio una zona neutra del dialogo; zona neutra che da un certo punto in poi cessa di essere tale e le “prove” dello spettacolo si spostano all’interno della gabbia, aggiungendo un livello ulteriore alla sovrapposizione dei piani. Nessuna concessione a fronzoli e orpelli, la regia funziona bene e anche quando sulla scena compaiono le “foto del crimine” con dei listelli a coprirne delle parti è tutto funzionale a un’idea di verosimiglianza. Verosimiglianza che ha un’unica significativa svolta immaginifica nella discesa dall’alto di un frigorifero (che è l’oggetto contro il quale il detenuto aveva sbattuto suo padre accoltellandolo) che si colora di rivoli rosso sangue atti ad evocare il truce misfatto.
L’elaborazione del rapporto tra il drammaturgo e i due personaggi (il parricida e l’attore) possiede un’evoluzione lineare che si snoda con una coerenza tale che fa sì che ci sia una crescita progressiva e parallela del rapporto fra i personaggi, i quali assumono a poco a poco una dimensione sempre più nitida, che va di pari passo con i riferimenti letterari e culturali che vengono evocati, come Dostoevskij e I fratelli Karamazov (sul senso del delitto, ma non solo: Martino ha un attacco di epilessia e sappiamo che Dostoevskij era epilettico), o ancora la figura di San Martino da Tours (santo del quale il parricida porta il nome), che ebbe un rapporto tormentato col proprio padre. O ancora lo struggente andante del Concerto per piano N° 21 in do maggiore di Mozart (e anche Mozart ebbe un rapporto conflittuale col proprio padre).
La moltiplicazione dei piani e dei livelli di senso fin qui descritta, che potrebbe di primo acchito apparire come una complicazione cervellotica di una teoria astrusa, è in realtà qualcosa che si dipana con una semplicità notevole, soprattutto se parametrata sulla complessità del gioco inscenato. Tutto ciò fa sì che Tebas Land rimanga impresso negli occhi e nella mente come un lavoro di notevole livello, la cui articolata struttura autofinzionale si definisce sulla scena con precisione e chiarezza. Lasciando nello spettatore le domande inevase che il dubbio suggerisce a ciascuno di noi quando ci si affaccia nella zona grigia di cui si diceva e ci si confronta con interrogativi destinati a non avere risposta. Un modo, sottile e raffinato, per ricordare a noi stessi quanto plurime siano le angolazioni possibili da cui guardare la realtà, coi filtri possibili del vero, del falso, del verosimile e del possibile.





Tebas Land
di Sergio Blanco
traduzione, scene, costumi e regia Angelo Savelli
con Ciro Masella, Samuele Picchi
assistente e figurante Pietro Grossi
luci Henry Banzi
allestimento scena Lorenzo Belli, Amedeo Borelli
esecutore al pianoforte del brano di Mozart Federico Ciompi
foto di scena Marco Borrelli
produzione
lingua italiano
durata 1h 20’
Firenze, Teatro di Rifredi, 26 ottobre 2019
in scena dal 15 al 27 ottobre 2019

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