“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 30 April 2013 02:00

Intervista a Monica Casadei: Cassandra della danza contemporanea

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Il 25 giugno 2013 presso il Teatro Comunale di Bologna andrà in scena la nuova creazione La doppia notte, Aida e Tristan della coreografa Monica Casadei, artista affermata nel panorama della danza contemporanea in Italia e all’estero. Ho avuto il piacere di poterle fare alcune domande alle quali ha risposto in modo divertito ed incuriosito, decidendo di condividere anche con i lettori del Pickwick le suggestioni all’origine della nuova produzione e del suo percorso artistico. 

Cosa cerchi in un danzatore oggi?

Penso a cosa ho sempre cercato; un essere umano e un incontro elettivo, nel senso che ci si cerca e ci si trova. Credo che nulla sia casuale, ci sono dei percorsi del coreografo nel mio caso e dei danzatori nel loro che magicamente si incrociano.

Alle volte possono essere più pratici e funzionali. La prospettiva è per me la condivisione; condividere una storia, un percorso, un viaggio. Lo spettacolo funge da pretesto, nonché da occasione per l’incontro; e la storia, o per lo meno il tema dello spettacolo è ancora una volta un pretesto per condividere una vera esperienza. Esperienza condivisa non unicamente nella mia mente, ma si crea uno spazio-tempo, cioè un luogo dove ciò possa avvenire. Artemis crea le condizioni perché questo si manifesti in un luogo sacro ed imprevedibile, sorprendente, magico, fatto di vita vera, fatto di un momento storico oggettivo.
Cerco individui che si confrontino e che siano pronti a tutto. Siamo tutti a disposizione; un danzatore rispetto a una pièce è anche un coreografo e viceversa. Siamo tutti sulla stessa barca e siamo tutti nella stessa navigazione e al servizio di tutti e di tutto rispetto ad un obiettivo. Il coreografo è il catalizzatore, una sorta di demiurgo che canalizza, nutre, incentiva e fomenta quest’alchimia che in qualche modo sceglie il distillato più opportuno; quindi dà ordine a questo caos che si riscontra e che è creativo e produttivo laddove avviene ed è auspicabile. Una sorta di disordine finalizzato dalla figura del coreografo. È un’immagine romantica che ho e che cerco; cerco un danzatore che abbia voglia di vivere, che abbia fame di vivere, di fare un’esperienza importante e che dia importanza a ciò che fa. Che dia una vera urgenza, una vera necessità a tutto quello che fa e che gli si propone. Credo che la bellezza nasca da questo, nasca dal vedere, dal sentire l’urgenza, la necessità che ogni danzatore può mettere dentro ad ogni gesto creando un immaginario collettivo. Per questo uno spettacolo alla fine appartiene a tutti ed è universale.
Cerco una disponibilità a vivere un’esperienza; come un laboratorio alchemico dove vivere un’esperienza crea il vissuto per tutti. Il contributo artistico viene da sé ed è una conseguenza. Non è il contributo che mi interessa ma l’urgenza e la necessità che il danzatore può mettere in ogni gesto e in ogni proposta; il tipo di adesione e coinvolgimento. Questo è creativo e questa è la creazione. Non è un rapporto personale intimo quello che cerco tra coreografo e danzatore, ma è più vasto e allargato; ritengo il danzatore prima di tutto un essere umano con una sensibilità e un potenziale energetico che va messo a disposizione.

Quanta importanza ha nel tuo lavoro l’estetica?

Sono laureata in estetica con una tesi su Platone e la danza e credo fortemente che non ci sia lavoro senza un’estetica. Dipende poi dall’accezione di estetica che vogliamo prendere in considerazione, se quella filosofica o quella prettamente di uso corrente. L’estetica c’è, esiste ed è consapevole. Il valore che io do all’estetica è il valore etico-morale che trovo nella parola stessa; in questo senso è un’estetica estremamente rigorosa.
Quella che invece formalmente trasuda dai miei spettacoli è un’estetica variegata e multiforme dove il tratto comune di tutta la mia cifra stilistica è quello energetico. Un’estetica dove, ammesso che sia un contenitore, tutto il lavoro sta nel potenziare e nello scaldare il contenuto perché possa travalicare qualunque forma ed avere una forma propria, che detto così è un po’ astratto; creare forme nuove è in realtà trovare, all’interno del nostro sentimento, del nostro sforzo nell’anelare un desiderio, una forma a tutto questo; trovare una forma a questo grande sforzo, a questa grande lotta, che un interprete e un danzatore fa nell’aderire nella maniera più profonda possibile al proprio anelito d’amore. È quindi una ricerca costante di una forma che corrisponde esattamente a questo tipo di tensione che ogni danzatore deve avere e che io nel mio ruolo ho nell’avvicinare sempre di più; è come un contenitore che deve essere sempre più in adesione a questa tensione così forte, personale e nello stesso tempo universale. È un’estetica infuocata, infiammata. Un’estetica pensata come un contenitore la cui forma ha però una risonanza, quindi netta ma piena di afflato, riverbero come d'una fiamma la cui geometria non è rigida… un po’ come quando si guarda il fuoco.

Come si articola generalmente il processo creativo?

Ogni creazione per me è un percorso a parte. Le vivo e mi sembrano sempre processi diversi. Ho l’impressione sempre di vivere viaggi completamente differenti, come quando con la compagnia siamo andati in Giappone o in Indonesia, due mondi e storie a parte; così per me le produzioni sono grandi viaggi. Il ‘generalmente’ della domanda possiamo tradurlo nell’approccio; c’è un approccio simile ma lo svolgimento del processo è molto diverso, per questo mi piace sorprendere e farmi sorprendere. Sono sempre molto eccitata come i bambini, non ho mai l’impressione di percorrere strade già conosciute, ho sempre l’impressione di andare verso qualcosa di misterioso e nuovissimo, inafferrabile.
C’è sempre molta curiosità e spavento positivo  perché non sai mai cosa troverai. Effettivamente chi ha partecipato a più creazioni me lo conferma. C’è di sicuro un approccio simile nel tempo, cioè essere sempre meno programmata; non lo sono mai stata, però a volte credo che per timore possa cercare di gestire la situazione e regolamentare il percorso e invece sono sempre più trasgressiva. Più c’è incertezza e più aspetto e lascio che le cose si facciano e avvengano. È come un viaggio con persone diverse, fatto di luoghi e incontri diversi. Non c’è un canovaccio ma c’è un obiettivo. Ho sempre una meta così non rischio mai di perdermi, perché l’obiettivo è molto chiaro, non in forma di estetica ma so che qualunque mia parola, azione, decisione, apparentemente non razionale, porta a quell’obiettivo lì. Quindi so sempre, ancor prima di cominciare le prove, cosa vorrei vedere da quello spettacolo. È qualcosa di emotivo, so cosa vorrei vedere da spettatrice. È una visione senza forme, un impatto come un evento naturale che ti sorprende. È più un impatto di quello che sarà, però non so la forma, ma so cosa deve esprimere; quello è sempre, lo so molto prima. Parto molto chiara dentro sebbene le forme possano variare e poi insieme si cerca come tirar fuori un contenuto non narrativo dalla pièce. È  quella la stella cometa che indirizza tutto e il percorso sta nel cercare la forma coerente, dopo aver istigato in ogni danzatore lo stesso tipo di afflato.
È trasmettere un sentire più che una visione che di per sé ha una forma. Ci sono zone che possono cambiare il giorno prima dello spettacolo. Non si trova tutto subito, però il perché e cosa è chiarissimo profondamente prima di iniziare. Quello mi dà il permesso di andare apparentemente secondo il fluire delle cose.  

Perché crei ad occhi chiusi?

La doppia notte e gli occhi chiusi sono fortemente collegati come concetti perché credo rappresentino il massimo del romanticismo nell’esaltazione della notte; ad occhi chiusi perché le cose, il mistero, la notte sono forse l’opposto della morte. Nella notte entri in uno stato sublime e gli occhi chiusi sono vissuti come il tramite per poter accedere a questo stato, perché di giorno ad occhi aperti le cose sono più limitate e finite. Nella ‘doppia notte’ siamo in piena età romantica. Entri in uno stato limite tra conscio ed inconscio; entri in contatto con zone misteriose e in penombra, fragili dove si animano sensibilità maggiori alle quali puoi dare ascolto e voce. Ad occhi chiusi si ha un ascolto maggiore e non distratto, che non subisce regole diurne ed estetiche rigide. Faccio spesso lavorare i danzatori ad occhi chiusi perché c’è una massima vitalità non regolamentata; entri in un’altra dimensione, una dimensione oggettiva dove il panorama cambia semplicemente per merito della scoperta di sensibilità del corpo totalmente superiori.

Quanta importanza ha per te che Artemis sia ambasciatrice della cultura italiana nel mondo?

Credo che sia importante che la danza sappia parlare al corpo e all’anima attraversando diversi linguaggi; caratteristica fondamentale di quest’arte dove non ci sono barriere linguistiche. Ho sempre creduto nella danza come strumento conoscitivo di attraversamento di popoli. Il fatto che la compagnia abbia questo ruolo ufficiale e istituzionale non è un atto dovuto, ma è una missione che ho deciso di dare alla compagnia, non di essere solo ambasciatrice della cultura italiana nel mondo ma un mezzo per in incontrare un’altra famiglia, un altro popolo; come fossimo ambasciatori non solo di rappresentanza, come potrebbe essere di solito una tournée, ma di incontro. Ci si cala, ci si immerge nella cultura locale e si incontrano le altre famiglie della danza nel mondo. Abbiamo viaggiato moltissimo vivendo grosse esperienze. Siamo stati in Brasile, a Cuba, in Messico, in Giappone, in Indonesia, in Malesia, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Albania, in Colombia, in Africa e in altri luoghi dove lo scambio è sempre stato il risultato di una grande residenza artistica vissuta come esperienza di vita.

Perché La doppia notte, Aida e Tristan?

È il bicentenario di Wagner e Verdi, due compositori contrapposti e diversi. È un’opera nuova ed inedita sia dal punto di vista musicale che  coreografico. Questa nuova produzione, che debutterà il 25 giugno 2013 presso il Teatro Comunale di Bologna, rappresenta una sfida per me, per il Teatro Comunale stesso e per il compositore, perché credo sia una grande operazione. Trovo sia molto originale perché in un atto unico siamo riusciti a far fluire e confluire Verdi in Wagner e Wagner in Verdi.
Il primo tassello l’ha dato Claudio Scannavini che ha fatto una lavoro mastodontico perché ha selezionato con me le parti solo per orchestra con un tratto comune, rispetto a quello che normalmente si sa di Aida, del notturno. Sono due grandi notturni. Generalmente di Aida ci si aspetta un’opera solare che si svolge in Egitto con colonnati di pietra dove il colore è quasi sempre diurno ma in realtà musicalmente siamo di fronte ad un notturno. Verdi è in questo senso notturno, psicologico ed intimista. Wagner è più metafisico con un universo notturno romantico e leggendario.
Quindi il tratto comune è sicuramente il notturno, non atmosferico ma legato al grande sentimento che li unisce: la storia di questi due amanti sia in un’opera che nell’altra. Questo flusso continuo a livello musicale è un grande inedito perché la partitura è al 95% originale, con la connessione di due autori differenti soprattutto musicalmente ma anche come filosofia e come idea di teatro che per la prima volta sono riuniti nella Doppia notte, in questo unico e grande dramma esaltante e sublime che è il dramma dell’amore. È l’esaltazione del sentimento tanto caro anche ai poeti romantici; è l’esaltazione di questa notte, dove questa unione cosmica, questa fusione, questo infinito, è l’unico modo per accedere a questo desiderio e a questo sforzo continuo, inafferrabile di giorno e compiuto nella notte. La morte, cara al periodo romantico, è liberatoria ed in questo caso non è un atto di rinuncia, non è una morte sacrificata ma in realtà è una morte intesa come vera e propria liberazione; come unico modo per raggiungere quest’unione cosmica. I concetti del sublime, del desidero, del sentimento, dell’amore sono per i romantici la vita stessa.

Che valore ha per te l’amore? Credi esista la promessa di un amore eterno?

Credo che questa pièce sia probabilmente la più consapevolmente romantica che io abbia mai fatto. Credo di essere sempre stata romantica ma non in maniera così consapevole come trattare da vicino i temi un po’ wagneriani che mi riportano ai poeti come Novalis, Byron, come anche questa scenografia alla Turner che vorrei fare con questa natura travolgente. I concetti fondamentali del romanticismo, come lo sforzo e la tensione continua,  sono ciò che chiedo sempre ai danzatori; un anelito costante, un desiderio travolgente che non si raggiungono mai. Il percorso vale più dell’obiettivo.
Il tentativo e la lotta costante nel raggiungere qualcosa credo che sia un’esperienza più unica che rara, più che il raggiungimento della cosa. Tutti questi concetti mi hanno sempre attraversato e sono felice in quest’opera di trattarli nel senso pieno del termine. Oggi li riconosco e dico: ‘sono davvero una grande romantica’. Penso la stessa cosa dei grandi poetici romantici, che l’amore sia la vita stessa, non c’è nessuna differenza; è una forza travolgente come un paesaggio tempestoso. L’amore eterno esiste ma non in questa terra, non diurno e quindi non in questa realtà che ci rimanda alla nostra finitudine. Lo sforzo è andare oltre i propri limiti, è un po’ come per gli eroi o le eroine. È  uno sforzo titanico e credo valga la pena di farlo perché questo desiderio diventi realtà. Esiste un amore eterno, di anime. Sono tra l’amore dell’anima che può essere eterno e un amore, come in questo spettacolo si esprime, molto carnale e viscerale che lo rende anche eterno. Quando si va in profondità nella carne accedi proprio alla sostanza più invisibile. L’amore eterno non è da un’altra parte necessariamente, forse c’è ma non lo saprò mai perché sono pragmatica, ma so che qui può esistere; bisogna veramente entrare ancora più profondamente nel nostro corpo e nella sua materia e nel momento in cui lo si attraversa si accede al suo contrario, un po’ all’ultraterreno.

La notte è il tempo preferito del mito e quindi della profezia per Cassandra;  in che modo credi sia possibile reinterpretare il lavoro in questa chiave?

In realtà sono tutte delle Cassandre. Non ci sono mai solo io nella pièce perché sono tutte emanazioni della mia espressione. C’è un destino e c’è invece uno sforzo nonché una lotta rispetto al destino stesso. Siamo noi di fronte al nostro destino, ma non è qualcosa fuori da noi o imposto; per questo nei miei lavori chiedo ai danzatori di incarnarsi profondamente nei pensieri e nelle azioni. Come se da lì nasca la profezia. La profezia non è qualcosa d’altro se non questa grande volontà, nonché possibilità ed impossibilità di cambiare il nostro destino; è una frizione costante. È il peperoncino costante della vita.  Si arriva costantemente ad avvicinarsi al proprio destino perché ci riguarda, ma nello stesso istante può allontanarsi. In questo sforzo di avvicinare il proprio destino, che non sia una fato o una condanna né un privilegio tout court, la vita viene incorporata ed incarnata; e se ciò accade possiamo essere protagonisti e possiamo essere padroni decidendo del nostro destino. È incredibile questa grande capacità che possiamo avere. Nessun fatalismo e nessuna rinuncia ma voglia di appartenere e di appartenersi.

In che modo è maturato il tuo modo di pensare una pièce per il pubblico? Che fase artistica della tua vita stai vivendo?

È nella possibilità di accesso che credo i miei lavori, devo ammettere, abbiano avuto fortuna; anche rispetto al successo di pubblico e di critica. Il che vuol dire non che siano accessibili ma che ti permettono di avere degli accessi che non sono strategie o parole chiave ma sono semplicemente la generosità attraverso la quale le cose si esprimono. Questa generosità, che il danzatore offre, che lo spettacolo stesso offre per il tipo di impianto, travalica ogni barriera e può comunicare con un pubblico, può esprimersi e condividere con altri l’esperienza. Credo che il grande accesso sia proprio questa generosità a prescindere da qualunque volontà. La mia fortuna e la fortuna dei miei lavori è che in realtà il mio desiderio e la mia urgenza artistica corrispondono esattamente a questa accessibilità, nel senso che la mia urgenza artistica non potrebbe esserci indipendentemente dalla condivisione con gli altri; non avrei nessuna necessità artistica. Quindi la mia necessità artistica non è un fatto solitario ed isolato o l’espressione di una problematica personale ma è una necessità di condivisione e partecipazione ad una vita, ad una vitalità, ad un universo soprattutto vitale. Per queste ragioni non ho mai avuto l’impressione di aver fatto dei compromessi e nello stesso tempo so che il mio prodotto può travolgere e rendere il pubblico non spettatore passivo ma protagonista perché si immedesima. È un prodotto estremamente riconoscibile – in quanto a intenzione e generosità – più che esteticamente, come capita per alcune forme: ad esempio il neoclassico.
I miei spettacoli sono molto diversi e poco etichettabili. Posso fare ridere o piangere, non ho una cifra unica o un’estetica fissa; non sono una coreografa di provocazione perché non mi ha mai interessato, non è la mia missione. La mia come artista, rispetto ad altri miei colleghi, è sicuramente quella di far danzare le anime degli spettatori e scogliere i loro cuori. È molto diverso da altre missioni coreografiche dove giustamente bisogna scuotere, rivoltare e provocare; la mia è, in un momento storico così faticoso dove il cuore non può che indurirsi perché ritenuto non più protagonista in questa società, dove il protagonismo è fatto più di strategie e furbizie altre, dargli uno spazio-tempo di esistenza. Lo spettacolo è un pretesto per creare uno spazio-tempo dove in qualche modo i cuori si possano scogliere e grondare lacrime se sono lacrime o sorridere se devono sorridere. Questo mi interessa.

 

Dopo aver intervistato la coreografa ho creduto fosse interessante ascoltare e condividere con voi le risposte di due danzatori storici della Compagnia Artemis Danza di Monica Casadei: Vittorio Colella e Sara Muccioli.

Come si è evoluto nel tempo il rapporto tra voi e la coreografa?

Vittorio: il rapporto è cresciuto con la naturalezza con la quale cresce normalmente un rapporto naturale fra esseri umani. È partito con un rispetto profondo e nel tempo si è consolidato con la confidenza e la stima di un legame familiare.

Sara: sono cresciuta con lei. Mi ha aiutato attraverso il suo lavoro a tirare fuori molti lati di me stessa e a conoscermi e nello stesso tempo ho avuto la possibilità di conoscere lei come essere umano oltre che come coreografa. Un rapporto di fiducia e di conoscenza profonda soprattutto.  Sono stata molto sostenuta dopo l’incidente dell’anno scorso che mi ha costretto sei mesi a stare ferma. È stato importante per me essere stata sempre viva e partecipe oltre ad essere stata protetta e compresa.

Riuscite ad essere economicamente indipendenti con questa professione?            

Vittorio: a volte si a volte no. Ci sono periodi di lavoro intenso e periodi di lavoro minore dovuto al fatto che in Italia c’è sempre meno spazio per festival ed eventi culturali. Alcune volte siamo fortunati se i periodi sono condensati, altrimenti ci ritroviamo a dover trascorrere periodi di vuoto dove le nostre economie chiaramente tendono ad esaurirsi. Utilizzo anche l’insegnamento per aumentare i miei introiti economici, preferendo formule di insegnamento come stage che mi permettano di continuare a nutrire i bisogni della mia vita da danzatore e da essere umano.

Sara: si, sono riuscita ad essere economicamente indipendente ma chiaramente non solo con Artemis. Ho dovuto collaborare con altre compagnie. Di sicuro una vita di stenti ma grazie al sostegno delle persone che mi amano sono riuscita sempre a risollevarmi in momenti di crisi economica.

In quale pièce vi riconoscete di più?

Vittorio: Beh, sicuramente in Giappone, sole dell’anima sola, perché trovo che il Giappone sia un Paese molto vicino al mio sentire e nella pièce Monica è stata molto brava a raccontare un popolo senza iconografarlo, ma semplicemente raccontandolo.

Sara: Giappone sole dell’anima sola, per il processo creativo che ci ha permesso di entrare in profondità di noi stessi. Abbiamo lavorato a degli assoli e in quel periodo abbiamo potuto personalmente elaborare concretamente aspetti profondi di noi stessi in un rapporto dialogico con la coreografa. L’Aikido, arte marziale alla base del training della Compagnia, è stato approfondito e ci ha permesso di sviluppare coerentemente una ricerca con l’intento della pièce. Aver vissuto in residenza il Paese è stato fondamentale.

Quanto vi sentite utili, capaci e indispensabili nel processo creativo?

Vittorio: trovo che siano tutti utili ma nessuno indispensabile. Ciò che posso fare è spendere le mie energie perché la pièce vada a buon fine. Dare un contributo attivo come un sistema cellulare che si autorigenera e sostiene.

Sara: personalmente mi sento utile nel momento in cui mi metto al servizio degli altri in maniera generosa, come mio contributo personale posso intervenire nella logica e nella struttura (conti, posizioni, architetture). Indispensabile no, perché nessuno è mai indispensabile.

 

Info CV Monica Casadei http://www.artemisdanza.com/monicacasadei_artemisdanza.html

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