“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 18 February 2019 00:00

Può un Eschimese vivere in Amazzonia?

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La Compagnia The Baby Walk approda al Piccolo Bellini di Napoli con lo spettacolo vincitore del Premio Scenario 2017: mi riferisco ad Un eschimese in Amazzonia, terzo capitolo del progetto “Trilogia sull’identità”. Lo spettacolo, sostenuto e prodotto dalla stessa compagnia e dagli organismi di produzione e residenze della regione Umbria, è una genuina critica alle troppe e inutili classificazioni e categorizzazioni che sono àncore e saldi parametri di conoscenza, identificazione e relazione costruiti dalla società e, in particolare, Un eschimese in Amazzonia si focalizza sulla questione del transgenderismo.

La scrittura scenica è semplice, è aperta e democratica, ovvero è composta in modo collettivo da tutti gli interpreti della Compagnia (che, per la verità, si sono occupati anche di tutti gli altri aspetti della messa in scena), pur vertendo la tematica intorno a una storia molto personale, che riguarda il protagonista, nonché regista dello spettacolo, Liv Ferracchiati. Un eschimese in Amazzonia si rifà dunque a vari format teatrali e mediali del filone americano che nominerò solo dopo aver cercato di darne visione anche ai lettori.
La compagnia è formata da giovani artisti che cercano, con un linguaggio attuale e non pretestuoso, di utilizzare il teatro in maniera intima, riflessiva, senza troppa architettura e composizione plateale o sacrale.
L’Eschimese, colui che potremmo nominare come protagonista della scena, è una persona che s’interroga su come sia possibile condurre una vita scevra dal pettegolezzo sociale quando non si è né carne né pesce, né nero né bianco, né uomo né donna, ma si è due cose insieme e si cerca di esprimere inclinazioni che fuoriescono dal paradigma binario della classificazione antropologica. Lo fa nella timida dimensione della domanda, della riflessione, appellandosi ai modelli della sua infanzia e dunque rifacendosi alle favole e ai personaggi dei cartoni animati, in una lettura però critica e filtrata e finalizzata a scovare ambiguità e ambivalenze anche nella vita dei personaggi inventati. L’Eschimese espone le sue riflessioni secondo visioni della realtà abbastanza distorte ma non esce fuori dalla coerenza fluida e scorrevole dei suoi pensieri personali.
Un coro di donne e uomini vestiti in maglietta, pantaloncini e scarpe da ginnastica rappresenta, invece, la prosopopea della società: fa domande banali, scontate, senza pretese investigative, si muove secondo usi e costumi televisivi, coltiva aspirazioni niente affatto personali e originali, agisce per l’appunto in coro, come un gregge di pecore, attraverso dinamiche ripetute, canticchiando parole senza emozioni. Il coro è una rivisitazione solamente strutturale di quello che era il chorós delle tragedie greche e non dialoga affatto con l’attore singolo, sia chiaro, anzi: segue schemi rigidi e precisi di parole e movimenti mentre l’attore singolo, che sembra dialogare tra sé e sé è in costante dialogo con il coro (che, in senso allargato, comprende anche il pubblico), è la voce dell’individualità: è una voce scomoda, la sua, di cui è difficile seguire gli articolati pensieri.
L’Eschimese si trova, dunque, in Amazzonia, (può un Eschimese vivere in Amazzonia? È una questione ossimorica), ovvero in un mondo in cui le sue risorse fisiche e psichiche non combaciano affatto a causa della sua controversa identità di genere: egli infatti non solo è una persona transgender ma è anche un essere che usa il pensiero, il ragionamento e l’immaginazione.
Seppur in una maniera falsata dai codici del mondo favolistico e con strutture un po’ distorte, egli cerca, in qualche modo, di approdare a delle formule di verità e lo fa, nel suo processo, cercando di adattarsi, di curiosare, di identificarsi negli altri e, addirittura, cercando di nascondere la sua diversità, il suo essere nota stonata, “un errore”, usando costantemente il lume filosofico della riflessione.
Il discorso sull’identificazione del genere sessuale spunta fuori violentemente, anche grazie alle insistenti richieste del coro, e l’Eschimese, con suo immenso piacere e godimento nell’articolare a parole le sue riflessioni, racconta la divergenza tra l’anatomia e le sue inclinazioni sessuali: “Sei maschio o femmina?”; “Scopi con gli uomini o con le donne?”.
Domande complesse in una realtà, come quella attuale, in cui le classificazioni, in effetti, sono oramai andate perse. Ma nell’alterco tra un coro, che domanda e domandando impone una rigida e banale visione del mondo, e un essere solitario che si sente inadatto e ricerca risposte in una dimensione che media tra la conformità alle piatte regole sociali e la dimensione extranormale di cui è fatto il suo essere (struttura su cui è costruita la trama dello spettacolo di Liv Ferracchiati), l’essere solitario ricerca una messa in contatto tra l’io (transgender) e la società (“O sei maschio o sei femmina”; “Se hai il pene sei maschio, se hai la vagina sei femmina”; “O questo o quello”). La dimensione del ragionamento, sviscerato in parole e descrizioni che non si esimono da voli pindarici, è anche un’arma a doppio taglio che, in qualche modo, permette al personaggio di nascondersi dietro al cappuccio della sua felpa, non rivelandosi subito nella sua propria e apparentemente strana, “anormale” natura.
La questione dell’identità di genere porta inoltre a riflessioni più ampie su ciò che sono le incongruenze su cui è costruita la storia del mondo, l’inclinazione dell’uomo a dover comodamente tenere allenato il proprio ragionamento esclusivamente secondo un sistema di classificazione binaria e perciò esclusiva. Egli si colloca dunque in una condizione marginale ma preziosa, ovvero la dimensione della domanda, unico “ambiente scenico” in cui il personaggio agisce davvero: è infatti un corpo asettico e verrebbe da dire addirittura un corpo quasi asessuato, fatto di sole domande e di flussi di coscienza e, la sua presenza e il suo muoversi, sembrano non avere un ruolo armonico nella composizione proposta in assito. Egli però cerca con timida delicatezza di scrutare e, a tratti, di prendere parte alle mode della società, rappresentata da un coro di uomini e donne che parla e si muove secondo i codici di omologazione del tempo attuale.
Lo spettacolo è costruito su un testo molto aperto, che è quello che maneggia i pensieri del protagonista, che si contraddistingue per una presenza e recitazione molto naturale. Il suo “testo” è aperto a svilupparsi in base a ciò che il pubblico gli suggerisce con risate e sensazioni a pelle: il protagonista sembra essere in una sorta di talk show corporeo per cui, mentre presenta la sua personalità e la sua storia, fa una sorta di archeologia del processo che, secondo lui, ha portato alla distorsione dei paradigmi sociali ed antropologici: causa per cui oggi dominano l'omologazione, l'assenza di spirito critico, la riduzione del rispetto dell'originalità individuale (dell'unicità individuale) e la standardizzazione dei processi di costruzione della personalità.
Il mezzo per farsi ascoltare, oltre alla sua affascinante verve, è un microfono con un lungo filo azzurro, forse una sorta di cordone ombelicale che determina una relazione (e origine umana comune) con le figure del coro, vestite per l’appunto con maglietta e pantaloncini blu, come una squadra di calcio. La prossemica e il movimento nello spazio degli elementi del coro esprime chiusura in schemi rigidi e ripetitivi, la voce è usata all’unisono come se ogni frase fosse la scansione del verso di un testo, ovvero la declamazione di qualcosa di già scritto, e le parole sono pronunciate in maniera fredda: quasi come se a pronunciarle fossero dei robot, dunque, non sensibili all’ascolto delle risposte. La prossemica dell’Eschimese, spaziale ed emotiva, si sviluppa invece in un’ottica di avanzamento: egli, infatti, cerca di inserirsi sempre di più all’interno dei banali schemi di movimento da branco del coro, pur mantenendo la sua costante dimensione di domanda, provando così a scrutare quel mondo in cui si è trovato a vivere.  Il calcio, inclinazione prettamente maschile, è un elemento ben presente nella scena: oltre alle caratteristiche del coro, che sembra essere vestito come una squadra di calcio, l’eschimese racconta con cuore in scintille della vita del famoso Oliver Hutton, personaggio del suo cartone animato preferito, Holly e Benji. Egli, dunque, cerca nella vita di persone che non esistono risposte alla possibilità di esistenza della felicità e della propria libertà.
Nella seconda parte il coro finalmente si scioglie e lascia spazio a nuove individualità, altri personaggi (interpretati, però, dagli stessi attori) che mostrano interesse verso la “strana creatura” e che raccontano, in una sorta di confessionale privato (dunque, non si esce del tutto fuori dagli schemi del reality show), ciò che è stata la loro conoscenza e la loro relazione con Eschimese (ormai, a questo punto dello spettacolo, diventa il nome proprio del personaggio): quali sono stati i dettagli della sua vita che hanno riscosso maggiore interesse, tanto da diventare degni di memoria e racconto. Sembra quindi che il mondo possa conservare ancora qualcosa di vero e di autentico se all’interno di una dimensione privata, un’anima dunque che ancora è curiosa, che ancora mostra un pizzico di attenzione verso la diversità (forse non ancora tutto è perduto, mi viene da scrivere, per un progresso di inclusione sociale).
L'Eschimese rivela (anch’egli, finalmente, in questa fase di narrazione di sé, abbandonati i codici del mondo fantastico), la sua biografia, la sua natura sessuale non unitaria, il suo percorso archeologico in materia di affetti e la scoperta del proprio sesso, ben oltre l’anatomia, e anche lui riesce ad esprimere la verità di una confessione, liberandosi finalmente del ruolo di ponte mediatico tra sé ed il coro.
Dunque, la dimensione del pensiero e della parola (riflessiva, canzonata, ripetuta, aperta) dona alla ricerca teatrale che porta in scena questo spettacolo una possibile riflessione sui format che, magari inconsciamente, sembrano aver fatto da modello alla composizione scenica e teatrale (il linguaggio e l’immaginario di espressione dei social media, la stand up comedy, i talk show e i reality show americani con l'aggiunta di una vena cinematografica in stile Woody Allen per cui regista e protagonista principale coincidono e la materia di argomento verte completamente intorno alle sue ossessioni private). La tematica del transgenderismo, arricchita da approfondimenti su studi sociologici, psicologici, filosofici, che sono alla base del reperimento di materiali e della composizione dello spettacolo, non è affrontata in maniera imponente, plateale, sfrenatamente critica né storica, ma è un pretesto per parlare di quanto il mondo sarebbe un posto più tranquillo se il contributo dell’essere personale di ognuno fosse inteso come speciale, prezioso, vento di novità, invece che oscuro, irriconoscibile, non etichettabile (l’ispirazione di questo pensiero, come il titolo dello spettacolo, derivano dalle affermazioni della sociologa ed attivista Porpora Marcasciano, che identifica l’incapacità dell’uomo di vedere oltre il rigido modello binario circa l’identità di genere).
Nel mondo in cui viviamo tutte queste etichette sono ormai decadute; si tratta di un mondo i cui processi trasformativi stanno andando oltre ciò che sono i paradigmi costitutivi originali e va da sé che bisogna lasciar fluire questi processi metabolici, riconoscendone ciò che è creativo, progressivo e magari arginando ciò che è completamente anti-salutare per l’uomo (e qui si potrebbe aprire un capitolo immenso, e non è questa la sede di espressione).
Il personaggio dell’Eschimese, nell’immagine finale con cui si spengono le luci di scena, impara a vivere sereno in Amazzonia (non essendoci altra alternativa di mondo da abitare): con la sua felpa, la sua maglietta di Oliver Hutton, il suo pallone da calcio e i suoi occhi teneri, feminei.

 

 

 

 

 

Trilogia sull'identità - Capitolo III
Un Eschimese in Amazzonia
ideazione e testi
Liv Ferracchiati
scrittura scenica di e con
Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
costumi Laura Dondi
disegno luci Giacomo Marettelli Priorelli
suono Giacomo Agnifili
progetto The Baby Walk
foto di scena Andrea Macchia
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Centro Teatrale MaMiMò, Campo Teatrale, The Baby Walk.
in collaborazione con Residenza Artistica Multidisciplinare presso Caos – Centro Arti Opificio Siri Terni
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Piccolo Bellini, 13 febbraio 2019
in scena dal 12 al 17 febbraio 2019

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