“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 10 April 2013 02:00

CICLO BERGMAN (parte ottava) - Persona

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“Una volta ho detto che Persona mi salvò la vita – non esageravo. Se non avessi trovato la forza di fare quel film, avrei probabilmente gettato tutto all’aria. Oggi sento che in Persona, mi sono spinto al massimo delle mie possibilità. Ed in quel film, lavorando in piena libertà, ho raggiunto inesplicabili segreti che soltanto il cinema può scoprire”.

(Ingmar Bergman)

 

Il film trattato è forse l’opera, tra le più famose del regista, più complessa e simbolica. Siamo nel 1965 quando iniziano le riprese di uno dei film più enigmatici della storia del cinema. Bergman aveva ormai concluso il discorso sul “silenzio di Dio” e si era dedicato alla realizzazione di altre due opere cinematografiche: A proposito di tutte queste signore, arguta commedia brillante del 1964 e Daniel, cortometraggio facente parte del film a episodi Stimulantia (1965). Le riprese di Persona si svolgono nella cara isola di Fårö, e rappresentano il punto più sperimentale della cinematografia del regista. Avvertiamo subito il lettore che questo è un film di quasi impossibile lettura. Tutto ciò che si è detto intorno a quest’opera è pura congettura, e l’autore non rivelò mai indizi rilevanti ai fini di una comprensione logica rigorosa della narrazione, anzi (e questo forse può accantonare definitivamente ogni pretesa di sicura speculazione sul senso razionale del film) lo stesso Bergman affermò: “Per la prima volta non mi preoccupai se il risultato avrebbe avuto un significato generale o no”. Ci troviamo quindi di fronte ad un’opera prettamente “emozionale” e distinguiamo fortemente da “sensazionale”. Se quest’ultima infatti presume essenzialmente un “sentire”, un qualcosa che sia quindi estremamente fisico (cioè opera dei sensi), l’emozione invece (che ovviamente scaturisce sempre dal sentire, ma poi diventa affare tutto umano e soggettivo) trascende l’appiglio del mondo fisico per immergere il soggetto in un mondo metafisico dove le leggi della vita (e della narrazione filmica) sono completamente inesistenti. A nostro avviso questa premessa serve da impostazione per una comprensione “emozionale” dell’opera e lo stesso Bergman si serve di un linguaggio del genere (ovviamente però in senso cinematografico, metacinema) per introdurre il film. I primi sei minuti sono infatti apparentemente senza senso (o meglio, il senso, il sentire ha già operato tramite quel concetto di sensazione precedentemente descritto, ed ora lascia il campo all’emozione) con immagini oniriche che si susseguono sullo schermo. Innanzitutto il regista ci informa che stiamo per assistere ad un’illusione (le lampade della macchina da presa e la pellicola che si riavvolge).
Continui giochi di luci, rumori di fondo (anche improvvisi ed assordanti), un grosso pene in erezione, un fotogramma di uno strano film d’animazione, un cortometraggio stile film muto anni Venti, un ragno, una pecora sgozzata (ci viene poi mostrato in primo piano il suo occhio, sembra chiaro il riferimento ad Un chien andalou, del 1929, di Buñuel, film che invece si apriva con il taglio dell’occhio di una donna, sappiamo però che l’occhio era quello di un bue, e sembra che Bergman voglia dirci quindi nuovamente questo: stiamo per svelarvi il mondo della finzione), un martello inchioda delle mani (ad una croce?). Poi improvvisamente la calma, il gelo. Siamo in un obitorio. Ci vengono mostrati dei cadaveri, due anziani ed un bambino, poi improvvisamente l’anziana donna morta apre gli occhi ed il bambino inizia a muoversi, stava solo dormendo. Legge un libro poi accarezza le immagini (i volti delle due protagoniste del film che sta per iniziare) che si sovrappongono su di un ipotetico proiettore che racconta del mondo dei vivi (o dei desti).
Inizia la vicenda di Elisabeth, un’attrice che durante l’ultima rappresentazione a teatro (recitava l’Elettra di Sofocle) è stata improvvisamente colta da afasia. Si trova ricoverata in ospedale, ma la dottoressa non ha riscontrato in lei nessuna patologia, fisica o psichica che sia. La affida alle cure dell’infermiera Alma. La dottoressa propone alle due donne di continuare la terapia nella sua casa al mare, poi dice francamente ad Elisabeth il suo parere sul mutismo della paziente: “Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere […] e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa. […] Ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”. Ecco spiegato il mutismo dell’attrice. Una scelta dunque, dovuta al rifiuto di continuare a recitare il proprio personaggio al mondo. La sua infermiera, al contrario, dialetticamente è un fiume in piena. Racconta ad Elisabeth tutta la sua storia, compreso una scabrosa avventura sessuale finita con un triste aborto. “Fa così bene parlare” dice. Le due entrano in sintonia. Alma parla ed Elisabeth ascolta. Poi, un giorno l’infermiera, leggendo una lettera che Elisabeth aveva scritto per una sua amica, scopre che la donna ha raccontato tutti i suoi segreti alla sua interlocutrice epistolare aggiungendo che per lei rappresenta solo una curiosità di studio. A questo punto inizia lo scontro. Si arriva perfino alla colluttazione, Elisabeth prende a schiaffi Alma, e quest’ultima la minaccia con una pentola d’acqua bollente. Elisabeth urla: “No, sei impazzita!”. Ha parlato. “Per un attimo hai avuto paura” le rinfaccia Alma, ma l’attrice torna nel suo mutismo. La rabbia dell’infermiera si placa, ma il loro rapporto ormai è tutt’altro che idilliaco. Ciò non toglie che ora le due siano maggiormente legate. Probabilmente tale scontro le accomuna fisicamente ancora di più. Assistiamo infatti ad un improvviso capovolgimento di ruoli. Arriva il marito di Elisabeth che scambia l’infermiera per sua moglie, ed Alma, dopo aver inizialmente esitato, si lascia toccare e baciare, infine fanno l’amore. Le due donne hanno adesso condiviso lo stesso uomo e le loro “persone” diventano indistinguibili. Alma prende consapevolezza del suo nuovo Io, del suo essere “anche” Elisabeth. Conosce quindi i motivi reali del mutismo di lei. In uno geniale sdoppiamento di prospettive il regista ci racconta la diagnosi finale. Alma rinfaccia ad Elisabeth la sua colpa: aver desiderato un figlio morto. Sappiamo adesso dal racconto dell’infermiera che l’attrice, dopo aver in un primo momento voluto un bambino, durante la gravidanza ha avuto paura. Ha cercato di abortire, ma invano. Fino all’ultimo ha sperato che suo figlio nascesse cadavere. Una volta cresciuto, questo bambino innamoratissimo della madre, non ha mai incontrato lo stesso sentimento materno.
La scena ci viene proposta due volte, identica nel racconto. Viene però capovolta l’inquadratura. La prima ci presenta Alma di spalle con Elisabeth di fronte, la seconda, all’opposto, vede la narratrice in primo piano, poi i volti delle due donne si confondono e diventano la stessa maschera. Le luci del proiettore che lentamente si spengono ci avvisano che la rappresentazione è finita e con essa il film.
Un’opera difficile e geniale. Sicuramente innovativa e lontana dai canoni bergmaniani precedenti, dove i simbolismi, seppur frequenti, erano accompagnati da una narrazione lineare. Un’opera sperimentale che si avvicina a quella nouvelle vague tanto acclamata all’epoca e a tratti anche al cinema tutto onirico di Lynch (sorprendenti alcune somiglianze con Mulholland Drive, 2001).
Il tema dell’apparire e dell’essere, sempre presente nelle tematiche dell’autore svedese, pervade tutta l’opera fin dal titolo. Persona intesa come maschera, o meglio personaggi mascherati (dal latino “persōna persōnam”, o anche “dramatis persōna”). Una maschera che accompagna l’individuo nel suo relazionarsi con l’altro. Gettare via la maschera significa estraniarsi, rinunciare alla comunicazione. Elisabeth (paradossalmente un’attrice), una volta abbandonato il suo personaggio, perde contatto con il mondo e sembra vivere in un dimensione ormai tutta onirica. Di tanto in tanto però la realtà fa irruzione nel suo mondo (la donna assiste alle terribili scene dei monaci buddisti che si danno fuoco in piazza per protesta contro la guerra in Vietnam, e alle foto dei bambini nel ghetto di Varsavia con i soldati tedeschi pronti a far fuoco), scatenando l’angoscia ed il dolore della donna. La genesi del film nasce da un evento fortuito, anche se ampiamente meditato come tutte le opere del regista. Nel 1962 Bergman era stato nominato direttore del Dramatiska Teatern di Stoccolma, tempio del teatro svedese e luogo cult che aveva resto famoso il teatro di August Strindberg. Il regista si butta anima e corpo nel suo nuovo impegno, senza però abbandonare il cinema. Il periodo di intensa attività artistica porta Bergman ad ammalarsi: doppia infiammazione polmonare e intossicazione da penicillina. Siamo alla fine del 1964. Viene ricoverato all’ospedale Sophiahemmet di Stoccolma e qui inizia a scrivere la sceneggiatura di Persona. Scrive il regista: “La creazione artistica in me si è sempre manifestata con fame […]. In linea di massima l’arte è libera, impudica, irresponsabile; il movimento che la circonda è intenso, quasi febbrile. Esso somiglia ad una pelle di serpente piena di formiche. Il serpente stesso è già da lungo tempo morto, mangiato, privato del suo veleno, ma l’involucro si muove ancora, brulicante di esseri viventi e affaccendati […]. Noto, osservo, sono tutt’occhi, tutto è inverosimile, fantastico, spaventoso, oppure ridicolo”. Questo suo scandagliare l’osservazione fino ai minimi particolari lo porta a rivelarne l’anima. I primi piani del suo cinema hanno fatto scuola. In questo film in particolare c’è una cura dei dettagli e soprattutto dei volti (merito ancora una volta del meraviglioso lavoro di Nykvist) che fanno del film, dal punto di vista stilistico, un vertice difficilmente eguagliabile, tanto che lo stesso Bergman lo considererà poi, insieme a Sussurri e Grida (1970), il punto più alto della sua estetica. Persona però è anche opera di grandi tensioni. L’autore rivelerà che il clima, a volte agitato, finì per favorirne la realizzazione, anziché complicarla: “Il film si avvantaggiò naturalmente anche per il fatto che forti sentimenti privati si agitarono durante le riprese”. Le due attrici protagoniste sono state infatti due grandi amori del regista. La prima, Bibi Andersson (Alma) aveva convissuto con lui anni addietro, mentre Liv Ullmann (Elisabeth) era appena diventata la sua nuova compagna (lo sarebbe stata per altri 5 anni, periodo nel quale darà alla luce anche una bambina). L’opinione della Ullman riguardo a Bergman è raccolta nella sua autobiografia Cambiare (Mondatori, 1977): “Era la prima volta che incontravo un regista cinematografico che mi lasciava rivelare sentimenti e pensieri che nessun altro aveva mai riconosciuto. Un regista che ascoltava con pazienza, la tempia appoggiata al dito indice, e capiva tutto ciò che mi sforzavo di esprimere. Un uomo di genio che creava un’atmosfera in cui tutto poteva accadere, perfino ciò che ignoravo di me stessa”. L’attrice confida che la Andersson l’aveva messa in guardia sul pericolo di innamorarsi di Bergman, ma non la ascoltò: “La guardavo dal lontano paradiso dove mi trovavo in quanto ero la prima donna sulla terra che amasse riamata. Mi avvicinavo in punta di piedi a Bibi e mi accucciavo sul suo letto per dirle tutto ciò che non ero stata capace di dire a lui”. L’attrice con tenerezza e grande nostalgia racconta quei giorni durante le riprese: “Giravamo Persona su un’isola. Faceva caldo. Io scoprivo un altro essere umano. Lui scopriva me. E non era necessario che ne parlassimo. Non ho mai vissuto un’estate come quella. Mai più. Andavamo a spasso lungo la spiaggia senza parlare, senza domandare nulla, senza timori. Una volta scoprimmo un muretto di pietra che limitava un pezzo di terreno incolto. Ci sedemmo a guardare il mare che, una volta tanto, era perfettamente calmo sotto il sole. Nel luogo dove eravamo seduti egli ha costruito la sua casa”. Un intreccio amoroso, quindi, che rivela l’anima segreta del film. E già, perché anche questa volta, nonostante ormai l’autore abbia abbandonato inesorabilmente quel Dio d’amore che accompagnava le sue riflessioni precedenti, l’Amore, spogliato di ogni astruso concetto, rimane ugualmente come vera ragione d’essere di ogni sua opera, e la sua ricerca continua. Una frase del film, pronunciata dal marito di Elisabeth, ne racchiude il concetto in maniera tanto semplice quanto efficace: “Conta ciò che ci sforziamo di ottenere, non quello che otteniamo”.

 

 

Retrovisioni
Persona
regia
Ingmar Bergman
con Bibi Andersson, Liv Ullman, Margaretha Krook, Gunnar Bjòrnstrand, Jorgen Lindstrom
produzione Svensk Filmindustri
sceneggiatura Ingmar Bergman
paese Svezia
lingua svedese
colore b/n
anno 1966
durata 79 min.

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