“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 11 March 2013 21:25

La vita è proprio una brutta bestia (parte IV)

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L’ultima giornata di vita di Gennaro o’ scemo trascorse più o meno in questo modo.

Si svegliò molto presto, al solito orario, e presumibilmente si stiracchiò. Rimase molto tempo a letto perché non si sentiva bene. Una strana tosse secca lo tormentava da qualche giorno e, quando la notte a volte si scatenava, si svegliava di soprassalto e tutto sudato. Non era ammalato comunque e la sua salute era continuamente sotto controllo. Non aveva però una buona cera e il suo viso stava perdendo colore, non riusciva più a dormire così profondamente come prima, non riusciva più la sera a chiudere gli occhi stanchi e, senza pensare a nulla, precipitare nell’oblio. Era diventato estremamente pensieroso. Cosa poi fosse capace di pensare o cosa stesse effettivamente pensando nessuno lo ha mai saputo né cercato di sapere. Aveva comunque un aspetto strano, era diventato estremamente silenzioso, forse qualcosa lo turbava. Faceva spesso uno strano sogno (lo raccontava, Susi ascoltava mentre pensava ad altro, poi lo consolava e lo abbracciava), una grossa nave sbatteva contro la porta del suo basso, che fosse una nave lui lo sapeva anche se non la vedeva mai, poi la casa si riempiva lentamente d’acqua, e l’acqua era ovunque e lui, sul materassino che galleggiava e a volte pareva affondare, sentiva freddo, tanto freddo, tremava e gli battevano forte i denti, chiamava allora Susi, e lei, sorridente e ben vestita, arrivava e gli diceva “vieni, vieni, guarda quanta acqua!”, a volte poi vedeva anche Eduardo ma non riusciva mai a ricordare cosa faceva nel sogno, forse non lo vedeva veramente, ne percepiva soltanto la presenza. L’unica cosa che ricordava con precisione era la sensazione di freddo ai piedi.

Fissò poi probabilmente l’immagine di Padre Pio per qualche attimo, “io sono un buon cristiano” sussurrò, “io sono un buon cristiano” ripeté ancora una volta, prima di ficcarsi gli occhiali sul naso. Sicuramente era triste e i suoi occhi erano ancora più lucidi del solito, un azzurro che andava perdendosi nel fondo dell’iride. Eduardo era stato cacciato di casa già da qualche settimana e non sarebbe tornato più e in effetti Gennaro o’ scemo non l’avrebbe mai più rivisto da quella strana giornata in cui, prese le sue cose, se n’era andato stringendogli la mano e abbracciandolo. La sorella Susi aveva deciso così, non poteva permettere che quell’uomo approfittasse ancora del fratello, “la gente è cattiva” gli diceva, Gennaro o’ scemo non sapeva cosa rispondere, sapeva soltanto che Eduardo non era cattivo, ma non lo diceva perché Susi si arrabbiava. Le voci del quartiere riferiscono che il marito di Susi l’avesse minacciato veramente (cioè: con la pistola) e che Eduardo in tutta risposta avesse fatto una strana boccaccia accompagnato da un eloquente gesto della mano sulla patta dei pantaloni (Gennaro o’ scemo era presente e aveva riso con forti sussulti nel petto) prima di andarsene portandosi via i suoi libri. E così Susi, comprendendo lo stato d’animo del fratello, non lo aveva mai abbracciato tanto quanto in quelle ultime settimane e la casa di Gennaro o’ scemo era diventata ben pulita, con le lenzuola sempre fresche e cambiate, il frigorifero pieno, il bagno rimesso a nuovo. Gennaro o’ scemo era però rigido, “ma che tieni?” diceva la sorella, “n-niente, n-non lo s-so” rispondeva lui.

Dopo essersi svegliato si dedicò probabilmente alle sue solite attività, prima di tutto infilò la tuta nuova della Nike (“farai un figurone!” disse Susi quando la portò), era bella, grigia e con le strisce laterali. Gennaro o’ scemo però non aveva uno specchio e non aveva sensibilità per gli specchi, così poco se ne curava. Gli mancava però una vecchia tuta che Susi gli aveva buttato, gli mancava perché era la preferita di Eduardo o almeno così gli sembrava di ricordare. Poi come faceva sempre aprì la piccola finestra adiacente all’ingresso del basso. Non stette molto tempo a guardare la gente che passava, la sua curiosità non aveva più correlati immediati e così si distraeva subito, capitava che gli occhi si perdessero nel fondo grigio di una crepa nel muro di fronte o sulla targa di un motorino o di una macchina. Richiuse la finestra e fissò malinconico la sua casa. Non usciva quasi più e le persone non lo vedevano più vagare, come al suo solito, per la salita di Montecalvario. Non andava più alla ricerca di qualcosa e non cercava più qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. Rideva di meno e la sua risata era divenuta molto meno infantile.

Gennaro o’ scemo aveva un problema, anzi un grande problema, tutte le attività a cui era abituato avevano perso smalto. In poche parole Gennaro o’ scemo aveva preso ad annoiarsi. La noia non è cosa da poco, è sicuramente il primo passo verso la vita civile e l’umanità compiuta. Gennaro o’ scemo sicuramente stava diventando più uomo e meno bestia, ma non ne era abituato, ci sarebbe voluto ancora molto tempo affinché quella sua nuova consapevolezza gli calzasse a pennello così come gli calzava la vecchia. “Ci vuole molto tempo” ripeteva il medico che lo teneva in cura da qualche settimana, “ma con impegno e pazienza ce la faremo” ed era convinto che Gennaro o’ scemo poteva diventare più o meno una persona. Ma il motivo principale della sua noia era che aveva tutto. Voleva il cappuccino e il cornetto? Aveva sempre i due euro che gli servivano, doveva solamente uscire di casa, andare al bar all’angolo, ordinare, aspettare al bancone mentre il barista preparava il cappuccino e intanto prendere a morsi il cornetto, bere il cappuccino, ringraziare, rifare quel pezzetto di strada, tornare a casa, rintanarsi. Le prime volte aveva provato a offrire qualcosa a qualcuno ma nessuno lo aveva preso sul serio, qualcuno bonariamente gli aveva detto di conservare i soldi, qualcun altro aveva semplicemente rifiutato con un brusco gesto della mano, senza neanche guardarlo in faccia. Poi si era arreso, faceva quello che doveva fare e se ne andava. Voleva poi una sigaretta? Aveva sempre un pacchetto nuovo sul piccolo tavolino, non doveva fare altro che aprirlo, sfilare la sigaretta, mettersela in bocca, accenderla e fumarla. Le prime volte era euforico, usciva dal basso e cercava di offrire le sigarette a qualcuno, quasi nessuno le accettava e quasi tutti passavano senza neanche ascoltarlo. Poi si era arreso. Fumava e basta. La sua noia era allora di un tipo particolare, era collegata alla solitudine, a una nuova forma di solitudine che non aveva mai provato, quella che deriva dalla completa disponibilità delle cose.

L’unica attività che aveva ancora un’attrattiva per lui era quella di sfamare i piccioni. Anche quella mattina, anche se più tardi del solito, aveva gettato il pane ai suoi piccoli amici che, probabilmente, erano accorsi e felici si erano lanciati sul cibo. Nessun bambino più dava la caccia ai piccioni, nessun bambino più si permetteva di ucciderne qualcuno con il fucile. O almeno non era più permesso farlo davanti a lui. Susi aveva compreso il suo amore sincero per i piccioni, lo riteneva insana, ma non voleva più che il fratello soffrisse in quel modo. C’era il medico che lo avrebbe fatto crescere e superare quelle stupide e insensate passioni. E così aveva chiesto alla gente del quartiere di far smettere i proprio fratelli, figli, nipoti. E quelli dopo poco avevano smesso. Ora Susi e Gennaro o’ scemo avevano un’autorevolezza maggiore, erano ricchi.

Da qualche tempo, però, Gennaro o’ scemo aveva preso in simpatia anche un gruppo di gatti che spesso facevano capolino nell’immondizia che si accumula all’angolo e così, quando la signora Assunta gli preparava il pesce (ora poteva permettersi di mangiare veramente bene), lui, di nascosto, portava gamberetti interi e teste di pesce a quei gatti. Cercava di accarezzarli e di prenderli, ma quelli scappavano o gli soffiavano contro, una volta lo avevano anche graffiato. Lui cercava di amarli profondamente ma soffriva per il loro rifiuto. Era diventato furbo comunque, e non aveva detto nulla a Susi. Aveva capito che la sorella non avrebbe approvato e così, forse per la prima volta nella vita, aveva calcolato la possibilità di una menzogna o, se non proprio di una menzogna, di un’omissione di verità. Gennaro o’ scemo faceva veramente passi da gigante verso la normalità e il luminare che lo seguiva stava facendo veramente un ottimo lavoro. Susi comunque era venuta a saperlo ma stranamente aveva acconsentito e gli aveva anche detto che, se voleva, potevano comprare delle scatolette di cibo per gatti e lui stesso avrebbe potuto portarle tutte le mattine, però doveva fare una promessa, il pesce che la signora Assunta cucinava e gli portava doveva mangiarlo lui, perché era peccato darlo a quelle bestie.

Dopo aver sfamato i piccioni e dopo che questi erano ritornati sui cornicioni e sui tetti, probabilmente, Gennaro o’ scemo si annoiò. Susi non gli faceva granché compagnia, veniva una volta al giorno, di solito nel primo pomeriggio, stava un po’ con lui, gli raccontava qualcosa, lo ascoltava se aveva voglia di parlare, prendevano il caffè assieme, poi lo abbracciava e se ne andava. Non restava più di un’oretta ma Gennaro o’ scemo non ne soffriva troppo e per questo cominciò a sentirsi inquieto. Se avesse avuto tempo, avrebbe superato anche quest’altro piccolo trauma nel suo cammino verso la perfetta e compiuta umanità, avrebbe di certo superato il fatto che non necessariamente si debba amare il mondo e il prossimo, che non necessariamente si debba vivere e ci si debba comportare seguendo ciò che si pensa e si sente veramente. Gennaro o’ scemo, comunque, a volte piangeva e non ne capiva il motivo. Ripeteva a memoria, ma non cercandone il senso profondo, non cercando di scavare dentro se stesso e dentro le parole, ma come si ripete a memoria una preghiera o una filastrocca, le parole di Eduardo: “la vita è proprio una brutta bestia”. Gennaro o’ scemo non aveva conosciuto, o forse sarebbe più corretto dire, non aveva ri-conosciuto mai “brutte bestie” e così ripeteva quella frase, sentiva qualcosa dentro di sé muoversi e infiammarsi, stava sul punto di sentirla veramente e di comprenderla, ma poi tutto gli sfuggiva. Il medico, comunque, se avesse avuto più tempo a disposizione, sicuramente gli avrebbe permesso di comprendere anche quello. Susi, comunque, due volte alla settimana, arrivava di buon mattino, lo lavava a fondo (in realtà lo faceva lavare a fondo, portava con sé una grossa signora ucraina con la quale litigava sempre per il compenso), lo faceva vestire di tutto punto (gli aveva comprato altri due vestiti, un gessato e un completo a quadri di colore verde), lo portava con sé fino all’ASL e lì lo lasciava in compagnia del medico per circa una mezzoretta. Fu in quelle circostanze che Gennaro o’ scemo imparò definitivamente a mentire, quando non capiva le domande del medico rispondeva a caso, quando le capiva e non gli piacevano inventava qualcosa. Non mentiva ancora bene, però, tant’è vero che il medico lo capiva immediatamente, gli faceva una piccola ramanzina, Gennaro o’ scemo resisteva ma poi l’umiliazione era troppo forte e scoppiava a piangere, il medico gli dava una caramella che aveva sempre nel cassettino della sua scrivania, e così ricominciava il colloquio.

Probabilmente si stese poi sul letto, non dormiva più sul suo materassino che, però, era riuscito a conservare in un angolo del basso, era riuscito piangendo a dirotto e gridando come un pazzo a non farlo buttare via. Sgranocchiò qualche biscotto al cioccolato che aveva nella credenza, infine si addormentò, più per noia che per stanchezza. Sognò i gatti che mangiavano e i piccioni che roteavano le teste, i bambini che giocavano e le persone che correvano di qua e di là, poi un gruppo di uomini che sparavano e uccidevano i gatti e i piccioni, sognò le sue grida e la voce che non gli usciva dal petto, sognò la sua disperazione e si vide inginocchiato a terra, infine sentì qualcuno che lo prendeva alle spalle e gli stritolava il braccio, ebbe un sussulto in tutto il corpo e quando aprì gli occhi vide la signora Assunta che sorridente gli aveva portato qualcosa da mangiare. Dimenticò subito il brutto sogno e la ringraziò come al solito. La signora Assunta restò tutto il tempo che Gennaro o’ scemo ci mise a mangiare, aveva avuto istruzioni di quel tipo, per il fatto dei gatti. Fu fortunato quel giorno Gennaro o’ scemo perché si trattava di una vera pasta al forno napoletana, quella con polpettine, uova sode, ricotta e mozzarella e la signora Assunta, un solo marito ma sei figli, sapeva come le cose andavano fatte e i suoi piatti erano veramente squisiti. L’ultimo suo pasto fu veramente eccellente. Gennaro o’ scemo mangiò di buon appetito e in un baleno vuotò il piatto, la sua faccia era completamente sporca di ragù, poi bevve il solito bicchiere di vino rosso di Gragnano che la signora gli portava sempre (anche se Susi non aveva dato diposizioni in merito) perché riteneva che quel vino gli facesse bene, lo calmasse (lo vedeva infatti strano negli ultimi tempi, a volte addirittura nervoso) e magari gli permettesse di riposare un po’ di più.

La signora Assunta poco dopo andò via e nel momento in cui Gennaro o’ scemo accese la televisione (che era stato uno dei primi regali di Susi) arrivò proprio la sorella per la solita visita pomeridiana. Era nervosa e Gennaro o’ scemo se ne accorse immediatamente. Parlava come una macchinetta, chiedeva cosa la signora Assunta gli aveva portato, se era stata buona la pasta al forno, se il piatto era abbondante, se si sentiva veramente sazio, poi diceva che lui doveva assolutamente assaggiare quella che faceva lei, altro che quella della signora Assunta, che si sarebbe leccato i baffi come fanno i suoi gatti, poi di nuovo gli chiedeva se aveva dormito bene, se il letto era comodo, se la televisione gli piaceva, infine se si sentiva bene e se aveva bisogno di qualcosa. Gennaro o’ scemo non riusciva a rispondere, balbettava qualcosa ma la parola e il pensiero gli morivano immediatamente prima di prendere alcuna forma udibile e comprensibile. Una delle debolezze della sua infantile personalità, debolezza che non era stato ancora in grado di superare, era la sua innata empatia con gli stati d’animo altrui. Susi era troppo nervosa perché lui potesse parlare e dire qualcosa di sensato. Dopo l’ennesimo “e-eehh” di Gennaro o’ scemo e dopo aver preso il caffè, Susi lo lasciò con una battuta stizzita, “qua invece di andare avanti, andiamo indietro”. Quella fu l’ultima cosa che Susi disse al fratello, poi non avrebbe avuto più modo di dirgli nulla.

Il resto della giornata di Gennaro o’ scemo trascorse come tutte le altre della sua vita, facendo poco o nulla.

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