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Sunday, 10 March 2013 22:10

Tonino Porzio "L'oceano in un bicchiere", ovvero dei nuovi scrittori napoletani

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C’ho un amico che adora Filippo La Porta, il critico. Questo mio amico mi ha costretto a leggere alcuni libri e articoli, e io, con un misto di piacere e rammarico (e non chiedetemi il perché), l’ho fatto. Poi ha costretto un altro mio amico a seguire la presentazione della rivista Achab (edizione Compagnia dei Trovatori), il 30 gennaio, alla Feltrinelli Express di Napoli. Quest’altro amico ha seguito la cosa con piacere, ma proprio con piacere, perché è il tipo che di cultura si ubriaca, e allora ben venga per lui la presentazione di una rivista culturale tenuta da Nando Vitali, Pier Antonio Toma, Maurizio De Giovanni, Andrea Caterini, Silvio Perrella e, appunto, La Porta.

Achab ci interessa perché crea un ponte tra Napoli e Roma, a Napoli negli ultimi anni sono usciti tanti scrittori che vendono assai, e anche a Roma. Tanti scrittori validi, altri no. Gli scrittori romani li conosco poco, quelli napoletani meno poco. Io ho l’impressione che gli scrittori napoletani si siano smaliziati, diventando col tempo molto abili ad intercettare quei pezzi della città che fuori attirano tanto (ma anche dentro), e non fa niente se poi si tratta spesso dei soliti luoghi comuni, antichi o contemporanei, roba da cartolina o da cronaca nera. Mi sovviene, talvolta, l’accanimento pornografico nei confronti della città di cui ha detto bene Massimiliano Virgilio in Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli (Laterza, 2009):
“negli ultimi anni Napoli è entrata prepotentemente nell’immaginario nazionale, televisivo e no, e se la tivù parla di Napoli, noi napoletani guardiamo la tivù per partecipare al Grande Racconto di Noi Stessi” (p. 33).
Ad esempio dopo Gomorra è uscita una gran mole di libri sulla camorra, cui in buona parte ha arriso il successo. Io dico che da un lato agli scrittori napoletani non è estraneo il ‘vizio di Totò’, quello di saper vendere qualunque cosa e di sapersi vendere come Totò ha venduto la fontana di Trevi, che poi questo vizio è un pregio, perché libri e mercato devono rimanere quanto più attaccati, altrimenti chi deve scrivere non può scrivere più perché chi deve pubblicare non può pubblicare più. Dall’altro lato Napoli, si sa, è un grande brand. Ciononostante bisogna ammettere che molti di questi libri, forse furbi, forse no, si lasciano godere, e alcuni sono di qualità. Si scrive tanto, troppo (lo dice La Porta, lo dicono anche altri critici italiani), non solo a Napoli, ma in tutta Italia, però a Napoli questa esagerazione sembra giovare: sarà perché Napoli sopravvive sul filo degli estremi, negativi e positivi, e mai vivrà nel giusto mezzo, per una questione storica e antropologica. Per continuare a marciare sui ragionamenti sviluppati nello stimolante libro di Virgilio, aggiungo che Napoli è una città in perenne depressione, sempre in preda a sbalzi d’umore, eccessi di ogni tipo, incontrollabili. La domanda è: si scrive meglio a Napoli? C’è qualcuno che dice di sì, io non azzarderei tanto, nonostante parecchi scrittori contemporanei importanti siano napoletani, e io ricorderei Giuseppe Montesano e Antonio Pascale fra tutti. Comunque, per non allargarci troppo, torniamo a La Porta.
Mi ha detto l’altro mio amico, qualche giorno fa, che durante la presentazione La Porta aveva detto una cosa molto interessante. La Porta è romano, tra l’altro.
“Siamo in presenza di scrittori senza tradizione e di una tradizione che non funziona più per chi scrive. Sempre più spesso la prosa di chi scrive ‘racconti’ e ‘romanzi’ è la propria stessa prosa, nata senza alcun confronto (e, dunque, senza alcuna conoscenza) con la tradizione passata. Si scrive come si parla, senza porsi in rapporto con la scrittura trascorsa: fosse pure per generare un rifiuto”.
Così dice l’altro mio amico, riportando a suo modo le parole di La Porta.
Poi ho letto L’oceano in un bicchiere (Ad Est dell’Equatore, 2012) di Tonino Porzio e c’ho pensato a questa cosa. Tonino Porzio è uno scrittore napoletano delle ultime generazioni (classe ’83), è di Bagnoli, e il suo romanzo parla di Bagnoli, la città dell’industria, della dismissione e di “Bagnoli Futura”. Arturo Martone nella postfazione dice che si tratta di un romanzo di formazione. È la parabola di Pietruccio Brancaccio, ultimo di sei figli, molto intelligente e serio e di poche parole, che prima lavora in un bar, poi si innamora della più bella ragazza del quartiere, Maddalena Zito, poi per uscire con lei gli servono i soldi e deve fare una rapina, poi va in carcere e poi diventa camorrista, poi ovviamente succedono tante altre cose.
Lo stile utilizzato è il parlato, come spesso si usa oggi, solo che con Tonino Porzio accade qualcosa di strano. Dopo averlo sentito parlare dal vivo, leggendo questo libro sembra di sentire raccontare lui stesso, e della sua lingua si potrebbe dire quello che lui stesso scrive della lingua di Maddalena:
“Parlava italiano, ma il dialetto stava tutto nel tono che usava” (p. 47).
È un parlato che a tratti dà un’impressione di verità, non sembra costruito combattendo contro la letteratura come capita per molti libri, anche importanti. È un libro, questo, che si lascia ascoltare. Ad esempio, quando Pietruccio va al pontile di Bagnoli a pescare, per evadere dalla realtà:
“Ma lui quello che voleva era non essere rotto il cazzo, quindi quel ponte andava bene. Erano le dieci di mattina e il sole spaccava le pietre. Meglio usare i bigattini prima, l’esca di palo costava troppo, meglio conservarla per i pesci grossi che sarebbero arrivati al calare del sole. Preparò la lenza come gli aveva insegnato suo padre: mise il piombo scorrevole a goccia, un cinquanta grammi poteva bastare, che non c’era mare forte, poi il pallino fosforescente che serve per non far spezzare la lenza quando il piombo tozza sulla girella. Poi mise la girella. Il mare era calmo ma mise un solo amo a fondo perché si scocciava se iniziava ad arravogliarsi la lenza a ogni lancio. Già teneva arravogliate le cervelle, e ci bastava. Annescò i bigattini e lanciò non troppo lontano, perché se spezzava si sarebbe scocciato di preparare tutto daccapo. Puntò la canna dietro a una trave di ferro, che doveva essere servita a qualche cosa che lui non sapeva. Tesò la lenza e allascò la frizione del mulinello, casomai avesse abboccato qualche pesce buono non lo avrebbe perso subito, l’avrebbe lasciato sfrenare e se lo sarebbe portato a casa con l’astuzia e la cazzimma. Si aprì una coca cola e si fumò una sigaretta, prese la cartolina e la guardò, dopodiché se la rimise in tasca. Tagliò con il coltello alcuni pezzi di sughero e ci arravogliò delle travi che aveva preparato per ogni evenienza. Le sistemò nella cassetta. Era passata una mezz’ora e la canna non dava cenni di cedimento, il mulinello sicuro non era partito, i trecento e passa metri di lenza stavano ancora arroccati attorno alla bobina. Meglio controllare.
Una triglia della dimensione di un dito mignolo si era andata a suicidare vicino al suo amo: è una rottura di palle quando si beccano questi pesci così piccoli, ti fanno perdere quelli grossi. Ma la legge del mare si rispetta, il primo pesce per quanto possa essere minuscolo non si ributta mai a mare, altrimenti il mare si incazza e te ne puoi pure andare, che tanto non prenderai niente” (pp. 51-2).
Il mare più volte cerca di aiutare Pietruccio in questo bisogno di sparire, senza riuscirci, e da qui forse la ragione del titolo, L’oceano in un bicchiere, che l’autore collega esplicitamente al rapporto con il passato, ma che rende bene l’idea dei tentativi vani di cercare scampo alla vita nel mare, senza però mai riuscire a perdersi nei suoi flutti.
Ora però a me viene in mente Raffaele La Capria, e quell’elemento marino onnipresente nella sua opera. In Ferito a morte si parla tanto di pesca subacquea. Però non importa.
Tonino Porzio, e questo non valga contro di lui, forse non ha letto La Capria (o se l’ha letto non è un suo riferimento). Lui ama gli scrittori americani, Ellis e Palahniuk soprattutto, e oggi gli scrittori americani vanno forte ovunque, anche a Napoli. Gli americani stanno ibridando la tradizione italiana, detto così per dire.
Tonino Porzio può essere considerato uno di quegli scrittori senza tradizione letteraria di cui parlava La Porta, e questa sua opera prima, bella a leggersi o, meglio, ad ascoltarsi, può rappresentare un caso sintomatico di rottura con i vari La Capria, Domenico ed Ermanno Rea, Compagnone, Ramondino, Prisco e altri, che oggi vengono riportati anche nei manuali di letteratura italiana. Ne deriva un’impressione di purezza, approcciando la sua scrittura. Ma ne deriva anche un’impressione di mancanza, non so di preciso di cosa, ma di qualcosa che c’entra con la letteratura. Qui però si aprirebbero altri discorsi sulla narrazione, l’estetica, il linguaggio letterario, eccetera eccetera, che non basterebbe un libro ad affrontarli. Meglio tornare a Napoli, in questo abisso tra la tradizione e i nuovi scrittori, tra i padri e i figli, che non riguarda solo Napoli, e non riguarda solo la letteratura. Meglio riparlarne, poi. Magari ricordando i dubbi di Massimiliano Virgilio:
“Mi sorge il dubbio che sia giunto il momento di abbandonare l’idea della città intesa come un corpo, della città-personaggio che è possibile raccontare in un atto unico, della napoletanità come kit di base genetico preesistente. […]
Mi sorge il dubbio che sia giunto il momento di vestire abiti meno provinciali, di rivolgere lo sguardo lontano dalla città e smetterla di osservarsi l’ombelico.
Mi sorge il dubbio che sia giunto il momento di smetterla di raccontare Napoli con uno stile complice, spolpandola a scopo narrativo, usando a man bassa le sue contraddizioni, per passeggere consolazioni dell’anima e della pancia”.
(Porno ogni giorno, cit., pp. 113-4)

 

Tonino Porzio
L'oceano in un bicchiere
Ad Est dell'Equatore, Napoli, 2012
pp. 142

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