“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 07 March 2016 00:00

Go West

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“Attorno alle 6 e 15 della sera il cielo diventa lilla e verde, le montagne porpora, indaco e qualche altro colore...”. Ci sono colori netti, intensi, nei ricordi che Joel recita a voce alta. Sembra quasi un’inquadratura ottenuta allargando il campo dal primo piano della macchina – che attraversa lo schermo sulla highway – prima di essere ripresa dall’alto e scoprire così le alture circostanti, lo spazio sconfinato di tanto cinema. Quello che celebra i paesaggi del Midwest, che costruisce una dinamica narrativa sfruttando le linee di fuga del contesto, che sostanzia nel movimento reale le istanze libertarie di superare un limite sociale, personale, identitario.

Una scrittura fortemente cinematografica, quella di Godfrey Hamilton per Road Movie che ha debuttato nel 1995 in Scozia al Fringe Festival di Edimburgo meritandosi il premio per l’innovazione. Il drammaturgo inglese affida la parte di Joel, come per tante altre sue opere, a Mark Pinkosh, attore australiano conosciuto a Londra e divenuto suo partner anche nella vita.
“Rock’n’roll desertico...” e nella versione di Sandro Mabellini parte la musica, eseguita dal vivo in scena col violoncello.
L’attore alterna le voci di coloro che ricorda con frasi rivolte alla platea e con urla e insulti agli automobilisti che incrocia lungo il viaggio. Il suo è un italiano pieno di intercalari in inglese, per una recitazione sostenuta, senza cedimenti, viscerale, ritmicamente adeguata al testo.
Angelo Di Genio riprende per questa stagione teatrale il protagonista di Road Movie, dopo il felice esordio di alcuni anni fa. Un ruolo ben rodato quello del giornalista newyorkese logorroico, cinico, lucido fino all’obnubilamento alcolico, troppo disilluso per credere alla favola del sentimento coinvolgente e corrisposto. Un’analisi impietosa che disseziona le convenzioni della routine quotidiana “... un mondo di adesivi, di slogan del cazzo”, che esaspera volutamente gli aspetti più falsi ed egoisti dei rapporti sociali per caricare di attese positive il momento della svolta, la caduta (letterale) e la risalita, emozionale, caratteriale, drammaturgicamente fondamentale. Ad Hollywwod, per seguire una mostra, si è annegato ancora una volta nell’alcol in qualche locale e lì cerca un incontro sessuale, implora l’incontro con un “mr. Qualcuno” sotto la luce rossa del palco prima di crollare ubriaco a terra... La luce torna bianca. A questo punto instaura un dialogo con un ragazzo che lo soccorre: è Scott, aspirante poeta. Joel non ricorda molto (è in pieno doposbronza) cosa si sono detti. Ora si trova a Sausalito, in una casa galleggiante – è un alloggio temporaneo per il suo giovane samaritano. Al suono del piano elettrico (anch’esso suonato dal violoncellista) Joel nota che Scott porta un bracciale con il nome di qualcuno: non è quello di un amore, bensì di un amico, un tenente colonnello disperso in Vietnam nel 1966 e che è stato definito “irrintracciabile” (e per cui egli prega). Dopo un sonno agitato (in cui sogna di un marinaio con l’orecchino) Joel si rende conto che deve tornare a New York. Ma c’è ancora tempo per conoscersi meglio, per raccontare i rispettivi passati: Joel rivela che i suoi genitori sono morti, e sarcasticamente aggiunge che sono imbalsamati, il padre nel gin e la madre nel martini. Sulle note del Preludio dalla Suite n. 1 in sol maggiore di Bach, Scott gli chiede di restare con lui, ma egli  rifiuta, deve andar via e poi ha come una visione dei genitori che lo rimproverano: ciò accade quando deve fare l’amore con qualcuno.
Quindi si toglie scarpe e calzini, prende un foglio dalla valigia e legge. Joel è bloccato, non riesce a lasciarsi andare, non riesce a “perdere il controllo”. Poi però non ha paura quando Scott lo bacia, ha solo paura dei sentimenti: forse leggere dei propri sentimenti è un modo per riuscire ad esprimerli e ad accettarli. Decide di restare e di giocare con quel ragazzo, che è il pirata del suo sogno, ed esce sul lato del palco e si appoggia al muro per lasciarsi andare. L’occhio di bue si sposta e lo inquadra, ma Joel striscia sul palco: il riflettore lo perde di vista lasciandolo in ombra a mimare il coito con esagerata violenza.
La luce lo inquadra: è a terra, sfatto, esausto. Ma deve andare via. Scott è deluso, però lo incoraggia dicendogli  che “nel movimento c’è la vita”. E poi dice che lo ama. È un “amore a prima vista” di cui Scott legge la gioia.
Alla fine Joel torna a Manhattan. A casa svuota le bottiglie, e confessa che Scott gli manca e gli telefona, ma questi non risponde. Lascia un messaggio in segreteria.
Comincia il viaggio per tornare dal suo amore, cinque giorni in macchina. Prima tappa: Washington DC, al Vietnam Memorial. “Voglio una cura e i miei amici di nuovo a casa”. Vuole un monumento anche per i gay malati. Nel suo discorso emerge la retorica dell’autore, che introduce un parallelismo tra i morti per la guerra e i morti per AIDS: i primi ricordati nome per nome, perché non c’è giustizia senza memoria. I secondi no, occultati dalla vergogna di una morte infamante.
In una luogo di battuage vede una donna intenta a distribuire i preservativi (e l’attore li distribuisce realmente in platea), e che gli narra di Danny boy, suo figlio morto di AIDS, che amava travestirsi: lei aveva scoperto gli orecchini che lui indossava, e se li era messi per andarlo a trovare in ospedale, dove era ricoverato in gravi condizioni (e lì c’era anche l’amante del figlio, un medico). Danny vuole comunicarle qualcosa, ma non fa in tempo: aveva indossato orecchini spaiati! Elementi comici volutamente inseriti da Hamilton perché la visione di un film comprende l’ampia gamma di toni e sentimenti della narrazione popolare. Solo che Di Genio carica troppo la rappresentazione della madre, tanto da suscitare il dubbio che si tratti di una drag queen, con movenze e contenuti che rimandano decisamente alla cultura camp. Giunto nel deserto dell’Arizona (“il cielo è come nel film Zabriskie Point”) si ferma a un motel (Us and Them dei Pink Floyd accennata al violoncello). Una donna sulla sessantina si avvicina, con un’espressione estatica. Lei dice che gli uomini confondono il sesso con il cuore. Dice anche che sua figlia si è uccisa a venti anni e che ha poi scoperto della sua tossicodipendenza leggendo il suo diario. Ha trascorso cinque anni di lacrime. Un’altra madre che piange un “caduto”, un altro segnale di morte che incrocia il cammino di Joel.
Arrivato in California (accolto dal puzzo di letame) si ferma a Desert Rock e intona YMCA. È allo Starlight Motel. Poi arriva a San Josè e infine a Sausalito, quasi a destinazione, ma un ingorgo lo separa dalla casa di Scott...
Dicevamo di una forte matrice cinematografica della pièce, tanto da chiamarsi come il genere che ha preservato nella contemporaneità il mito della frontiera – tipico del western – rielaborato in letteratura dalla beat generation. Ma lo specifico teatrale risiede nell’abilità del monologo di ospitare il flusso di coscienza di cinque personaggi (più altre comparse), nell’accentrare nell’unico corpo attorale le istanze di cinque diverse personalità, e anche nell’accentuare sentimenti e discorsi che altrimenti avrebbero trovato il tempo per più sottili sfumature.
Dopo l’accensione delle luci l’attore ricorda che lo spettacolo è in collaborazione con la LILA (Lega Italiana per la Lotta all’AIDS). Riporta il dato per cui molti ragazzi dai quindici ai diciotto anni non conoscono i numeri della malattia secondo i quali circa centoventicinquemila persone dai quindici anni in su sono affette da HIV. Di AIDS si parla sempre meno, denunciando la mancanza di un’adeguata campagna promozionale. È un dovere insegnare, convincere a fare il test sulla sieropositività. È un dovere parlarne.

 

 

 

 

Road Movie
di Godfrey Hamilton
traduzione Gian Maria Cervo
regia Sandro Mabellini
con Angelo Di Genio
musiche Daniele Rotella
pianoforte e violoncello Antony Kevin Montanari
produzione Teatro dell’Elfo
Monza, Teatro Binario 7, 27 febbraio 2016
in scena 27 e 28 febbraio 2016

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