“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 26 February 2013 12:17

L'oscurità quasi assoluta

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Ne La città involontaria di Anna Maria Ortese non c’è alcuna misura precisa del reale: i centimetri non sono centimetri, i numeri non corrispondono ai numeri. Eppure l’autrice prova la normalizzazione scientifica del proprio racconto (il quarto de Il mare non bagna Napoli) iniziando con un calcolo topografico che sa di misurazione oggettiva: i tre piani più un terraneo; le trecentoquarantotto stanze; i quattro corridoi e, per ogni corridoio, le ventotto lampade, di cinque candele ciascuna; una larghezza che va dai sette agli otto metri; le ottantasei porte, quarantatré a destra e quarantatré a sinistra, dietro cui sono stipate da una a cinque famiglie, con una media di tre famiglie per vano, per un numero complessivo di tremila persone.

Tuttavia questa catalogazione verista si dimostra inadeguata in un attimo (“Enunciati così sommariamente alcuni dati circa la struttura e la popolazione di questo quartiere napoletano, ci si rende conto di non aver espresso quasi nulla”) e, in un attimo, è costretta a cedere la propria illuminata veggenza.  
Il III e IV Granili di Napoli non ha quantità, forma, nettezza, ma è qualità informe e indistinta. Affogato fino al collo nell’umido, il III e IV Granili è un altro mondo nel mondo la cui natura è l’innaturale fantastico, spaventoso o ammorbato, e per il quale il tono non ha che da essere ombratile e grottesco.
Somigliante alla tana di Kafka quanto ad uno qualsiasi dei terribili quartieri londinesi di Dickens, nel III e IV Granili i barometri non segnano i gradi, le bussole battono il loro ago impazzite, i muri parlano ripetendo la voce del vento. Qui un uomo illividisce violaceo, poi perde colore, nutrimento, sostanza, finendo in uno stato di carcassa bianco-larvale. Qui una donna rassetta i propri capelli, divenuti una matassa di polvere grigia. Qui i bambini non sono bambini ma uomini avvizziti e malati: i loro occhi non vedono chiaro, il loro ghigno è dissestato e contorto, la loro pelle è incrostata e ingiallita.
“L’oscurità era quasi assoluta”: quarta pagina del racconto.
Scrivendo “L’oscurità era quasi assoluta” Anna Maria Ortese certifica la perdita di ogni dimensione possibile: scesa in profondo, ella perde il senso di cifre e parole abbandonandosi all’aggrovigliato fantastico, gotico e buio. Un tanfo di orina, la percezione del freddo, una lamentela che s’alza, ad un tratto l’odore passabile del caffè macinato; l’inizio di una canzone, il tono di un drappo, il rantolo di una frase – una sola – rubata all’interno di un luogo (“aggio visto ‘na casarella vicino ‘o mare, ce stava pure ll’erba cedrina, ‘a vulesse affittà”). Scorci, frammenti, piccoli brandelli in contrasto con la verosimiglianza di una precisa veduta qualsiasi: libresca o teatrale.
Per questo fa bene Antonella Monetti a non tentare la realizzazione impossibile di un impossibile riporto su scena optando per una composizione di segni, di dettagli, di fregi.
Le due tende raccolte sui lati (rimando ai separé improvvisati delle case, in cui convivono più nuclei nella medesima stanza ma anche – una volta raccolte alla meglio – segnale di una salita momentanea verso dimore dalla sistemazione più umana); la quinta alla destra (ad un tempo icona delle mura scrostate dei Granili e lacerto rimasto di un teatro che rinunzia alla ricostruzione fallace e inclusiva); il fondo di rettangoli composti in cornice (quadratura di pannelli di plastica, di compensato, di fogli sottili e di carta da pacchi, ali di scatole di cartone, assi di legname ormai fradicio: accenno geometrico alle intenzioni iniziali della Ortese ed accatasto che rende la miseria del luogo) fanno da ambiente alla resa dei passaggi dell’opera, che vive di fragili rifrangenze opportune: i fili di luce, i passi di una coreografia, gli accenni di squarci del testo.
Il buio domina l’intero centro del palco, una sagoma pare avvertirsi, questa sagoma prende parola. Non l’ascoltiamo, piuttosto osserviamo l’effetto che si vuole prodotto dall’unico lume che la tocca: una sottilissima lamina squarcia il nero assoluto rendendole d’un bianco chiarissimo il naso, la bocca, l’intero occhio destro, il lembo interno dell’occhio sinistro, poi un seno, una striscia del ventre, la curva alta di un ginocchio. È questo barlume, questo alone di sole ridotto in forma di spilli, di tagli, di lembi che si vuole su scena, come concretizzazione teatrale delle indicazioni contenute nell’opera: “Si muovevano senza alcuna precisione, come molecole di un raggio, delle ombre; brillava qualche piccolo fuoco”; “Vidi cadere un po’ di luce”; “Ecco alcune piccolissime lampade, nel cui interno tremano e si torcono dei fili rossastri”.
Ancora. Antonio Vitale danza i propri muscoli tesi, coperti di pelle che intona vecchiaia. Il volto è una maschera, cerea e fissa, cui la drammaturgia impone i suoi necessari bisogni. Ad Antonio Vitale è affidata la resa simbolica dell’intero universo infantile dei Granili: Luigino, che guarda nel vuoto col vuoto delle proprie pupille; i lazzari senza nome, che scagliano pietre come fosse un gioco allegro e innocente; la piccola Nunzia, le cui ossa sono sottili come matite, i cui piedi sono un pugno di grinze, le cui dita sono zampette di uccello. Ad Antonio Vitale è affidata la resa simbolica dell’intero universo infantile dei Granilli perché esso è composto da uomini e donne in forma di nani, già a conoscenza di tutto, già consunti dai vizi, dall’ozio, dalla miseria insostenibile all’anima e al corpo. Rachitici, disposti alla tubercolosi, infetti da sifilide, i bambini de La città involontaria sono una lugubre persistenza priva di età definita: l’altezza li assegnerebbe all’infanzia, il degrado delle fattezze li avvicina alla morte.
Ancora. Un corpo, nudo, vestito da un pezzo di tenda e da più pezzi di buio. Accanto ad esso, davanti ad esso, la testa di una donna si cala, tende il respiro, ascolta scorrere un attimo: è l’ultima scena. È l’ultima scena della Monetti non perché è l’ultima scena della Ortese bensì perché rende la significazione carnale in immagine di un passaggio-chiave del testo: “Cominciava la notte, ai Granili, e la città involontaria si apprestava a consumare i suoi pochi beni, in una febbre che dura fino al mattino seguente”. “Lui era seduto sulla sponda, lei gli stava in ginocchio davanti”: la putredine dei Granili è in questa ossessiva presenza del proprio corpo, unica sostanza che si prende per buona e che si tratta per stimoli, per scatti e per voglie: senza alcun freno, senza alcun medicamento della ragione. La notte ai Granili – in questo ammasso di fogli di giornale, coperte, vecchi lenzuoli coi buchi; di lampade ad olio, casse di bibite, scatole di medicine avariate; di insetti, pidocchi, topi di chiavica – è l’abisso ulteriore che rimuove l’abisso primario: ci si accoppia, con la forza delicata delle bestie, per dimenticare la diurna condizione di bestie.
Ai Granili vi è la caduta di una parte di Napoli, secondo la Ortese. Infima, abbandonata perciò all’infimo, è un’insieme di uomini donne e bambini in abbandono alla condizione animale. “Strisciano o si arrampicano o vacillano” patendo la propria stessa sopravvivenza. “Non sono più napoletani, né alcuna altra cosa”.
Perciò tacciono le cifre, le misure ed i numeri, i calcoli, le valutazioni, i giudizi, lasciando il sopravvento alle schegge di questo cupo delirio di segni, di dettagli, di fregi.
“Non sono più napoletani, né alcuna altra cosa”. Termina il buio, ci scuote l’applauso.

 

 

La città involontaria
da Il mare non bagna Napoli
di Anna Maria Ortese
drammaturgia e regia Antonella Monetti
con Antonella Monetti
danzatore Antonio Vitale
al contrabbasso Michelangelo Severgnini
alla tromba Ciro Riccardi
costumi Zaira de Vincentiis
luci Gigi Saccomandi
assistente alla regia e coreografie Linda Martinelli
installazione scenica Marco Di Napoli
produzione Teatro Stabile di Napoli
durata 50'
Napoli, Teatro Mercadante, 25 febbraio 2013
in scena dal 25 febbraio al 3 marzo 2013

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