“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

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Monday, 25 February 2013 18:11

Chi è l'altro? L'inferno!

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“Chi è l’altro? L’inferno!”. Nella nostra smania citazionista di adolescenti che s’affacciavano al mondo dello scibile, nel nostro orgasmo di sapere voracemente sunto da ogni fonte in cui ci si imbattesse, era questa una delle frasi più ricorrenti che ci piaceva sciorinare. Era a effetto, faceva scena; e poco cale se il senso profondo che la permeava ci apparisse sostanzialmente nebuloso; lo avremmo appreso solo crescendo, allorquando la nostra formazione culturale si sarebbe adoperata ad acquisire la dimensione della profondità. La frase era desunta da Jean-Paul Sartre e la profondità di senso che si citava condensata in uno stralcio dotato di molta approssimazione e poca veridicità filologica, è tutta svolta in Porta chiusa, drammaturgia sartriana per l’occasione messa in scena dalla compagnia romana Officina Dinamo.

Un uomo in divisa, con tanto di giubba a livrea, è un maggiordomo beffardo che accompagna i personaggi su una scena su cui triangolano tre panche; sullo sfondo bronzea erma dallo sbozzato sembiante ferino, di una qualche divinità degl’Inferi, è testimonio allusivo del dove. Tre figure, un uomo e due donne, verranno progressivamente introdotte dal cerbero in divisa (o forse più un caronte senza obolo né traghetto), confermando fra gli echi sardonici dei suoi scoppi di risa che i tapini son giunti in un vano infernale, dietro una porta serrata al di qua della quale reitera angustia e costipazione una teoria di camere, corridoi, scale, a cui si congiungono altre camere, altri corridoi, altre scale; niente finestre, niente specchi, niente oggetti da rompere, nulla di nulla; solo angustia e costipazione.
Garcin è un giornalista irrequieto, Ines una lesbica dal profilo affilato e dal carattere parimenti spigoloso, Estella una giovane donna dal fascino fatuo. Tre individui concentrati in uno spazio circoscritto e senza uscita riproducono post mortem dinamiche proprie di quella vita da cui li ha strappati prematura e cruenta assenza; ciascuno di loro ha lorda la coscienza, ciascuno di loro ha un crimine, una efferatezza, un delitto da espiare. E ognuno di loro, in forme e gradazioni diverse, è attanagliato da un senso di sospesa inquietudine che veicola l’interazione, che li induce a sospettare gli uni degli altri.
La sospensione del tempo, in un luogo senza tempo, lascia insorgere il sospetto che l’attesa diuturna del boia possa far sì che ciascuno sia boia dell’altro: inferno nell’inferno, riproduzione extraterrena di dinamiche terrene, impossibilità di superare il particolarismo individuale mediante qualsivoglia forma di comunicazione ed interrelazione che possa dirsi savia, lo spazio chiuso della scena propone molecole bipedi e instabili, la cui vita s’è disgregata, che si ritrovano nello spazio chiuso della morte a riproporre il meccanismo di un domino inconsapevole giocato da inconsapevoli tessere che tentano di comporsi senza sosta, senza costrutto.
Il mondo per costoro trapassati non è ridotto soltanto a vago ricordo, ma è ancora uno spaccato su cui poter posare uno sguardo curioso e di vita ancora bramoso, ultimo retaggio ed estremo ganglio che perdura nel tenerli legati al consorzio dei vivi, delle cui vicende essi continuano ad esser visualmente spettatori, emotivamente partecipi.
La regia di Roberto Negri ricrea sulla scena la carica emozionale e la tensione psicologica che permea i personaggi, cui attori di buona levatura conferiscono dimensione e spessore. Unico limite della pièce quel sofisticato intellettualismo di fondo che presiede alla scrittura sartriana e che potrebbe in alcuni momenti appesantire la struttura drammaturgica: rischio corso, sfiorato, ma alla fine superato senza lasciar in assito trucioli di noia.
In personaggi che in ribalta ripropongono il ciclico e inane agire umano, risuona la voce d’attori che sulla medesima ribalta ripropongono il ciclico (ma non inane) copione mandato a memoria. Vano è l’affannarsi rio e perverso dell’uomo contro l’uomo; pregevole il racconto portatone in scena.

 

 

Porta chiusa (Huis clos)
di Jean-Paul Sartre
regia Roberto Negri
con Roberto Negri, Lavinia Biagi, Paola Tarantino, Miguel Ceriani
produzione Officina Dinamo
assistente alla regia Alice Mele
musiche originali Gianni Saponara
costumi Giulia Camoglio
luci e fonica Carlo D’Andreis
lingua italiano
durata 1h 15’
Avellino, Teatro 99 posti, 23 febbraio 2013
in scena 23 e 24 febbraio 2013

il Pickwick

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