“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 02 August 2015 00:00

La Lady del Blues

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Quella che due dei più talentuosi fumettisti dei nostri tempi, José Muñoz e Carlos Sampayo, hanno raccontato, è la storia di una commistione. La statura del personaggio su cui si impernia la storia sembra offuscare la fama di coloro che gli danno voce, richiedendo per sé una luce per molto tempo rinnegata.

Questa ricetta, dal sapore alchemico, in cui i sensi vengono ovattati dal fumo delle sigarette che stagnava nei locali degli anni Trenta, cerca di comporre due vite nella stessa persona. Le due vite di una donna dalla voce straordinaria, nata sotto il segno della disgrazia e della distruzione, sotto il turpe marchio della violenza e dei soprusi.
Billie Holiday, questo il suo nome. Una delle prime cantanti jazz di colore a duettare con un bianco, una delle prime a fare soldi con il suo talento. Eppure, nonostante la fama e il talento, fu ricettacolo di violenze, spesso ingiustificate, di offese ed estorsioni che finivano per abbassarla al rango di sgualdrina, e per renderla nota soltanto come ubriacona e tossicomane.
Che fosse una donna problematica non ci sono dubbi: faceva oggettivamente uso di droghe, spesso annaffiate con l’alcol, tanto da morire a soli quarantaquattro anni per delle complicazioni date dalla cirrosi epatica. Ma soprattutto era una donna di colore tesa a scavalcare gli ostacoli del razzismo dilagante nell’America della prima metà del secolo scorso: un razzismo che presto assunse le forme del disprezzo gratuito, non solo da parte di uomini bianchi, ma anche di quelli di colore, che si credevano comunque un gradino al si sopra di lei.
Muñoz e Sampayo hanno scelto di riportare, sotto forma di fumetti dai forti tratti espressivi, alcuni episodi della vita della cantante: eventi che, per violenza o per forte senso di umanità, si rendono significativi per la ricostruzione di una vicenda con molti angoli in ombra.
Fin dalle prime pagine viene dichiarato il labile confine tra la vita privata e il valore artistico: nonostante venga dichiarata la necessità di una scissione del proprio sguardo critico riguardo ad aspetti appartenenti a due ambiti diversi, il pubblico, assetato di gossip, finisce per sovrapporre i due piani. È inevitabile che le esperienze della donna vadano ad influenzare il rendimento artistico (sembra che l’uso smodato di eroina e alcol avesse finito addirittura per intaccare la sua bellissima voce), rendendola instabile e irascibile. Per non parlare degli stupri, delle indagini per possesso di droghe, della vita promiscua neanche troppo celata, dell’amicizia con un omosessuale: tutti fattori che, in quella particolare giuntura storico-politica, non potevano che remare contro l’accettazione della donna come un’artista. Il fatto di essere anche nera si configurava come un ulteriore incentivo, per le forze della legge, a non chiudere mai un occhio sulle sue malefatte, se non addirittura ad addossargliene altre completamente fittizie. La ricchezza non bastava, anzi, li faceva arrabbiare ancora di più; il talento, la magia delle sue corde, a nulla servivano quando la picchiavano brutalmente solo per il fatto di essere quello che era. A nulla valse il suo nome quando il suo caro amico Prez (Lester Young) venne a mancare e lei non poté cantare al suo funerale.
Un accanimento, nei confronti di Billie Holiday – al secolo Eleanora Fagan – che si rivelò fatale sul suo letto d’ospedale, quando la donna, bollata come tossicomane irrecuperabile, fu lasciata morire. Il suo nome era stato occultato: solo dopo il decesso si seppe che la cartella clinica a nome di Eleanora Tartempion era in realtà quella della vessata Lady Day.
Era dunque difficile scindere la vita professionale da quella privata, apprezzando o biasimando solo una delle due. L’aspetto corale dell’opinione pubblica è reso dai fumettisti con espedienti grafici capaci di sottolineare l’offuscamento operato da questa nei confronti della voce della vera protagonista.
Billie Holiday ha vera voce in capitolo solo quando canta: come se tutti avessero da dire qualcosa su di lei, come se tutti avanzassero pretese sulla completa conoscenza della sua controversa personalità – in particolar modo dopo la morte – senza che lei possa mai esprimere una reale opinione riguardo a sé stessa. Gli unici momenti in cui può davvero parlare di sé, senza interferenze, hanno forma di cupi filatteri dal ritmo blues.

 

 

 

 

 

José Muñoz, Carlos Sampayo
Billie Holiday
Milano, Edizioni BD, 2014
pp. 72

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