“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 23 May 2015 00:00

L'infinito e il nulla: Amore, Altrove...

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Sento spesso dire che il periodo in cui viviamo è caratterizzato dalla morte dei valori, dell'arte, della letteratura. Che lo spirito giovanile rifiorito con il Romanticismo sia svanito. Ebbene, la penso diversamente, perché se la storia ci insegna qualcosa, è la ciclicità. Questi momenti di magra servono ad intramezzare nuove ere artistiche, con nuove sensibilità, nuovi geni, nuove correnti, nuove filosofie. Siamo le generazione di quelli, che uscendo fra amici, sentono frasi di disgusto verso ogni rinvigorente forma di pensiero, in favore di un messianico progresso tecnologico. Cari signori, sono il pensiero e la sua ricerca costante nei meandri dell'ignoto a dare la spinta e la curiosità di avanzare e progredire nella tecnica e nei tecnicismi che tanto si vuole porre al di sopra di tutto. Al di sopra di questi anni di lutto.

Benediciamo questi giorni bui, perché senza di essi non potremmo vedere la luce. Che nel suo cambiamento, nel "suo" progresso, ha accecato coloro i quali erano abituati ad osservarla nell’ormai vecchio abito. Incapaci di riconoscerne i contorni, la bellezza, la poesia e le intenzioni. Lo spirito indomabile della passione umana, non è legato alla fine di una corrente letteraria cui dà un nome, anzi...
Quella ne è solo un aspetto, una forma legata ad un particolare contesto sociale e storico. Tale eccellenza di spirito si è evoluta con l'umanità stessa, fino ad esplodere ciclicamente in parentesi molto più brevi ed intense e ravvicinate tra loro. Parentesi immote di quella che rappresenta una svolta nella nascita e formazione del concetto di modernità, intesa come rapporto dell’uomo con l’idea della sua prossima evoluzione. Non più, animale di compagnia per il suo simile privilegiato, o burattino di un sistema di classi in sovrappeso, che ne decidano cosa mangiare, cosa comprare, cosa pensare, in cosa credere, cosa o chi ritenere oggetto di fede religiosa. Un cittadino tra i cittadini, nel rispetto di un’autorità maggiormente sensibile alle sue esigenze.
Ma soprattutto, uomo che si riscopra lume fra i lumi. Per assistersi a vicenda, in quello scambio fecondo di opportunità personali, che contagiandosi a vicenda, intrecciandosi nella miriade di interscambi relazionali dettati dalla passione e non dalla convenienza, danno luogo all’astrazione suprema. Alla strabiliante ed imprevedibile ascesa di strane piccole anomalie. Anomalie, che si ripresentano senza sosta.
E per fortuna, altrimenti per l’umanità sarebbe una sciagura senza fine.
Per citare alcune parole del poeta P. B. Shelley  nel suo In difesa della poesia:

"[…] Quello che ci manca è la facoltà creativa di immaginare quello che conosciamo; ci manca l’impulso generoso che attualizza ciò che immaginiamo; quello che ci manca è la poesia della vita. I nostri calcoli sono sfuggiti al nostro stesso pensiero: abbiamo mangiato più di quanto siamo in grado di digerire.
L’ assenza della facoltà poetica ha fatto sì che il culto di quelle scienze che hanno allargato i confini del dominio dell’uomo sulla realtà esterna, abbia man mano circoscritto quelli del mondo interiore, e l’uomo, pur soggiogando gli elementi, è rimasto schiavo. A cosa si deve imputare la profluvie di misure intese a parcellizzare e ad organizzare la forza lavoro, al punto di inasprire le disuguaglianze tra gli uomini, se non al culto delle arti meccaniche in una misura sproporzionata rispetto alla facoltà creatrice che è alla base di ogni conoscenza? Quale altra causa ha fatto sì che le scoperte che avrebbero dovuto alleggerire il fardello della maledizione di Adamo, abbiano finito per renderlo più oneroso?
La poesia, e il principio dell’Io, di cui il denaro è l’incarnazione visibile, sono il Dio e la Mammona del mondo. […]".

Ammetto che sia complicato rendersi conto delle opportunità rivelatrici di tali nuovi inizi. È l’eterna lotta tra la scoperta e la tradizione. Intesa, quest’ultima, non come raccolta affettiva e rispettosa del passato culturale collettivo, bensì come attaccamento ossessivo e claustrofobico di una serie di leggi non scritte, che in quanto abitudinarie, portano in sé lo spauracchio di una sicurezza antica, genitrice, apparentemente saggia. Ma la saggezza è davvero rinunciare alla crescita personale come individui  e come società? O invece, è l’intelligenza della comparazione della possibile novità con ciò che di buono sia riciclabile dal passato, che in quanto tale si risolve nella sua automatica insofferenza ed impermanenza nell’attualità presente?
La differenza sostanziale tra chi segue le tradizioni e chi le insegue, è semplicemente quella che c'è tra il cane che segue il gregge per abitudine, e quello che insegue il bastone che gli è stato lanciato, per il puro piacere personale di chi vuole godersi la scena. In entrambi i casi c'è sempre una volontà altra all'infuori dei due cani, che li spinge a seguire i desideri di altri più in alto, o che si sentono al di sopra. Ogni riferimento al brutto vizio dell'umanità di farsi oggetto di prostituzione etica, morale ed intellettiva, da parte di società, istituzioni, sistemi di fede, teologie, dottrine filosofiche è (dandomi un po’ di fiducia) puramente casuale. Quando si avverte il desiderio di scoprire il mondo che si ha dentro e quello all'infuori di noi, o quando ci si sente spinti dalla vita a fare i conti con sé stessi e la realtà, nascono disegni, si leggono libri e poesie, se ne scrivono di proprie, senza preoccuparsi del risultato mirabolante o mediocre. Si ascolta musica, componendone anche di nuova (possedendone il talento e il cuore di farlo ovviamente), si parla con degli sconosciuti in un bar, in una piazza, annientando il precedente “Io” inutile  ed il mondo che lo ingabbia, ricostruendo tutto insieme, legando in uno strano mosaico uomo e umanità, persona e mondo.
Perché è lì che si annida la poesia, la melodia nascosta e sopita che è in se nuvola e pioggia, causa ed effetto. Trovandomi pienamente d’accordo con il sopracitato Poeta Romantico, definisco poesia come unione filosofica dell’impulso creativo e divino che porta alla scoperta del “bello” insito in ogni cosa ed essenza. Poesia è l’insieme di tutto lo scibile in attesa di essere scoperto in forme  ed espressioni sempre nuove. Forme ed espressioni, a loro volta legate al periodo temporale e socio-culturale cui fanno riferimento.
Che come una maestosa pianta, cresce e si ramifica in tutti i suoi talenti, in tutte le sue arti. Divenendo un albero di una potenza immaginifica senza paragoni, se non con le altre manifestazioni di quel divino principio che, con altri “alberi”, pian piano dà vita a quel magnifico eden di fantasie ininterrotte. I messaggeri di tale radioso messaggio di speranza sono i poeti, appunto, nelle vesti multicolori di scultori, musicisti, pittori, scrittori di versi e prosa. E di tutto ciò che è impressione interiore del sé e sua espressione estetica nel mondo, ora rinnovato da tale scoperta.
Ma in che modo trarre l’essenza di tutto ciò? Possibilmente lo stratagemma più palese è quello del simbolismo, dell’emancipazione di un’idea dal mondo metafisico. Mistificandolo, camuffandolo in sembianze legate al mondo del reale. Come a teatro, si inscena una storia, una circostanza in cui questa idea diventa uomo, ed attraverso essa, l’uomo diventa Dio ed archetipo. Si inscena il dramma dell’umana sorte, ed attraverso essa, gli stessi uomini ritrovano in catarsi le potenzialità illimitate dei propri vizi e delle proprie virtù.
E questo dramma, nella ricerca sempre simbolica dei vari aspetti della sofferenza, porta automaticamente ad una maggiore comprensione di quello cui possiamo protendere con le nostre reali azioni, nel bene e nel male. Direi quindi che la forza motrice della poesia non è proprio il dolore, ma la comprensione di tale dolore e la sua accettazione. Il dolore è la paura di non poter uscire dal dolore stesso. È un cerchio infinito, ma siccome è paura, altro non è che un'illusione ed accettare questa verità significa già superare tale sofferenza.
E difatti, se nel dolore lancinante si ha voglia di scrivere ben venga, è nell’apice di tale negatività che se ne analizza la natura maligna, superandola. Quello che si avverte durante la catarsi è solo l'inutile strascico di un illusione che non sa di essere già stata sconfitta. Ed è allora che si inizia a vedere qualcosa di nuovo.
La vita, come non l’abbiamo mai considerata. Una finestra d’ignoto, un albero intrecciato a cui dare uno sguardo distratto, annoiato. Lanciato così, fuori dalla finestra, senza dargli importanza. Senza curarsi del valore intrinseco, che un semplice osservare la realtà può dare a noi piccole tribù di scimmie addomesticate dalla società.
Il mondo in cui viviamo, pari ad una coloratissima arena circense, è la solita vecchia gabbia. Il solito vecchio inganno, il triste conosciuto giogo di un “burattinaio” troppo intriso di “solitudine poderosa”. Fame di attenzione, schiavitù al quadrato in cui marionettista e pupazzi sono al medesimo tempo eruzioni ed esempio di potenza individuale e collettiva, eppure ridotti a semplici feticci d’apparenza vestiti.  Diamo la caccia ai prodotti “in”, mangiamo il petrolio delle multinazionali, felici di abbeverarci con piccole gocce di minerali pregiati e metalli preziosi.
Siamo figli dell’idrogeno e del benzene, abbiamo lasciato le palafitte in riva al fiume per caverne condominiali. Abbiamo calpestato il sapore dei fiori per odorare di ambra grigia – cimitero della personalità, profumo decomposto dei ghiacci del nord. Siamo i nuovi signori della morte e del consumo, consumati noi stessi, senza chiederci mai se pesa di più il grammo d’oro che abbiamo al dito, o il collare di solitudine con cui senza coscienza ci siamo lasciati adornare le spalle da un amante vorace, più solo ed insicuro di noi. Vestiamo un una realtà di abiti usati, e le stesse scarpe che indossiamo conoscono passi che non sono i nostri.
Le strade che percorriamo di corsa non sono quelle dei sogni e del sudore artigianale di chi dovrebbe voler costruirsi il proprio segmento di infinito. Ma l’infinito non è dei segmenti o della geometria, non è materia della logica o il fatturabile di un’azienda. Questa vita pagana che abbiamo disertato insieme agli dèi del passato, per riempirla di demoni senza carta d’identità, non ha strade, né campagne, né città. Non abbiamo il dispersivo avventurarci nei vicoli del cuore, abbiamo spento i lampioni dell’amicizia, slegandola dalla civilizzazione di impulsi animaleschi.
Adoravamo il sole e le stagioni. Stanno disertando anche queste ultime. Il nuovo monoteismo umano ha promesso un paradiso fiscale, e siamo tutti pronti a fare delle persone bombe ad orologeria, scagliandole negli uffici e nelle trincee dell’anima. Lieti di vederle scompattarsi, come applausi in nome della pace. Ma la guerra dov’è ? Non nei deserti assetati di amore del Medio Oriente o nei villaggi affamati di pietà (o dalla pietà che è peggio) in Africa. Non è la guerra dell’economia o la crisi monetaria europea, né la penuria di valori nei giovanissimi. Abbiamo sacrificato i nostri ricordi e le nostre speranze, all’altare cinereo di nuove città-stato.
Giudici senza giudizi hanno dettato all’ignorante massa trame di leggi come fossero versi di un poemetto epico, dove gli eroi combattono i nemici della Costituzione. Ma se questa è epica e non legge degli uomini, allora la poesia (violentata!), diventa prosa di ideali. E le chimere diventano progenitrici di mostri.
La madre dei nostri nemici è nell’ignoranza delle nostre paure, nell’abisso dell’insicurezza che chiamiamo, con ingenuità “moderno” e con stupido egoismo “futuro”. Ma non ci sono nemici veri tranne quelli che portiamo con noi, accompagnandoli mano nella mano dalle carceri del cuore, pronti a sfogarsi alla prima mancata possibilità di riprendersi in mano la vita che non gli è stato concesso sperimentare. E allora, demoni diventano coloro che nella propria disperazione cercano stratagemmi da prestigiatore per sopravvivere. Spesso senza quella autentica malignità che i “civili“ cuciono loro addosso come fossero personaggi di un grottesco spettacolo teatrale.
Ma i mostri non sono loro, i senza casa, i senza nazione, i senza identità. Noi abbiamo distrutto la loro casa, li abbiamo cacciati dalle loro valli e montagne, spazzato via greggi e colture, rifiutato le loro culture per avere l’alibi di non dover imparare i loro nomi. L’identità non è il dono di un certificato. Il nostro nome come la nostra vita, è un dono. Lo sono ogni emozione ed esperienza che tutte queste piccole gocce di miracolo portano con loro, come memorie d’acqua nell’oceano molecolare. Le tinte, i tramonti, le albe dei paesi poveri e gli accampamenti nomadi sono focolai di risorse umane. E denigrarli vuol dire sputare nel piatto in cui tutti mangiamo.
Dopotutto, siamo tutti  gitani di tribù nomadi chiamate nazioni. La sedentarietà e la “casa” le costruiamo nel cuore, un “mattone“ vissuto alla volta, con la scienza dell’anima.
La guerra, quella vera, è nelle scuole. Quando si parla di responsabilità ed educazione, spesso la miglior scuola è nel desiderio di ascendere dalla realtà al mondo delle idee. Cercare qualcosa di etereo ed illuminato cui attingere per assaporare quel picco di umanità nascosta e sopita.
Fin dai tempi della saggia antichità, erano le stravaganze dell’immaginazione a dare una spolveratina alle masse.
Erano le labbra degli anziani a raccontare le storie della creazione, battaglie di uomini e di bestie, di passioni e delusioni, di morte e vita, compassione e crudeltà, sofferenza e gioia, condivisione e sfruttamento. Tutto questo ed anche di più, sotto le mentite spoglie della favola, del mito, dell’epica.
Non è la scuola ad aver civilizzato l’uomo, ma l’uomo ad aver istruito la scuola. Scomponendo poi la storia in piccoli tasselli di un meraviglioso mosaico di fraintendimenti, trasformandola da un certo punto in avanti, in un maestoso sollievo di proporzioni architettoniche. Un’istruzione legata a rigidi schemi pieni di logica, senza chiedersi se sarebbe stato saggio sostituire la curiosità con lo stereotipo.
Come stare a galla in un barile e pretendere di riuscire a comprendere la vastità del mare. Abbiamo raccolto il sapere in una mano, quando bastava abbeverarsi sfiorandolo con le dita. Sfogliando la pagina di un libro ricordando la goccia che era, senza limitarla in una bottiglia.
La curiosità non è una vigna d’annata. Né una biblioteca stantia, ripiena di targhette al valore, dove le lettere in ordine alfabetico ricordano i defunti pensieri in solenne e funereo anniversario, giorno dopo giorno, generazione dopo generazione. Le trincee odorano di banchi di compensato e ferro, dove dietro le cattedre i dittatori del sapere urlano per soffocare l’ammutinamento dei liberi pensieri.
La ricerca della conoscenza, la dinamica e spermatica inseminazione di curiosità va fatta a tutti i nostri figli, di qualunque colore e di qualunque “tribù-nazione”.
Siamo tutti figli delle stelle, ma abbiamo un solo pianeta per poter cercare la felicità insieme.
Per una volta, senza chiedersi dove eravamo quando potevamo essere.
Dopotutto, molte volte nella vita si ha il dono irresistibile di riconoscere il sublime, riflesso nello sguardo e nella vibrante personalità e forza di chi abbiamo in sorte di conoscere.
Tendiamo tutti  al sublime, ma nella meraviglia che siamo in grado di ricevere ed estendere ad altri, pochissime ancora sono le occasioni in cui davvero riconosciamo questa miracolosa somma di luminose intensità. Tali, da lasciare un segno indelebile e al tempo stesso dai contorni indefiniti. Simile ad un profumo, che ci accompagna nei momenti più inaspettati, nei giorni più confusi. Uno scrigno che aprendosi di sua volontà ci riporta ad un punto, una chiarezza che l’ombra dissolve ed il dubbio risolve.
Un’emozione di tale fattura lascia un segno ancora più indelebile di quanto si possa o voglia sperare. Si traccia una linea, si disegna un confine. Possederne il talento, nella misura del suo affetto è un miracolo. Perderne il viso, nelle nebbie del tempo, è pura maledizione. Una crudeltà che mai si potrà dire: “Così era scritto...”.
Che senso ha portare l’amore nel cuore, se chi ne è schiavo non ne è degno al suo padrone? È come specchiarsi nell’onda più calma e non trovarvi alcun riflesso. Persino il proprio. Si regala una parte dell’anima, che volata altrove in spontaneo regalo, mai ritroverà la via del ritorno. Felice d’essersi persa nella consapevolezza d’esser giunta in paradiso, nel cuore e con l’anima.
Quel paradiso invero è senza fine e non nell’idilliaco ed illusorio mondo delle idee. Ma nel reale fervore di un eterno presente.
Pochi attimi, descritti a fatica. Lezioni stanche, ore distaccate, come sempre l’ispirazione ci perseguita a battito d’uomo, rinchiusi in un giorno fra i giorni, in un anno tra gli anni. Il tempo spiega che l’orologio ha finito i minuti. E ancora si rincorrono i secondi. Perché addormentarsi, ritornando al domani come si è partiti da ieri? All’alba di un tempo nuovo, ancora uguale?
Seguire un pensiero che non era un pensiero. Un’idea veloce come le parole sulla carta quando Amore scrive. Le strofe del cuore seguono uno spartito proprio. Il pennello dell’anima segue una luce di un giorno senza sole. L’Altrove, oggi, è stato messo in discussione da occhi nuovi. Sguardi che la bellezza riflette come un’idea nuova. Eppure antica, come l’istinto che aspetta di ritrovarsi al buio della notte una risposta invisibile di lanterne lontane.
È un bisbiglio che a fatica ancora ci strega. La lotta con un destino che non c’è. In cui non ci si crede, che non doveva esistere. Eppure insegna che la vita è libera dalla libertà stessa. Forse è questa la libertà, la scelta che non c’è stata, la vita che è perduta, il rimpianto che non angoscia. La poesia non scritta, l’amore saputo nascondere troppo a lungo. Similitudini e riflessi di un  “io”,  disperso tra il “me” ed  il “noi”.
Il Romanticismo è morto, dicono, ma che ne sanno i furbi e gli illusi di un corpo vuoto e freddo, se non quello che solitario li ospita, arido e freddo come la morte? Un deserto di vento e sabbia, che nessuno ha attraversato? Bisogna scavare un sentiero di passi da poter seguire. Ma se questi passi sono muti, chi ci sentirà arrivare? Il silenzio ha spesso il sapore di un‘illusione, mentre la sincerità è una sete che inaridisce voce e parole. La verità è una prostituta con le gambe larghe, la raggiungi solo per scoprire che altri l’hanno posseduta prima di te. Distorcendola, stuprandola, contaminandola, beffeggiandola. E si capisce che la verità è una sola, che la libertà non è assenza di confini.
La libertà è una stanza senza porte, che possiamo abbandonare sapendo di poter riprendere quel posto al centro ogni volta lo si desideri. Un posto che è fatto su misura per noi, che ci aspetta ad ogni dubbio.
Perché a nulla serve un punto di non ritorno. Quella è schiavitù, violenza della ragione, volgare saccheggio dell’anima.
La fine della parodia umana è nel dramma del risveglio. Superato il violento risveglio il viaggio è tutto un assolato pomeriggio.
Uno spazio tranquillo tra l’Infinito e il Nulla.

L’Amore, Altrove...

“Amore  è un porto dipinto.
Non possiamo  salpare e partire.
Possiamo solo scegliere il colore
ed aspettare che qualcuno ci dipinga sulla riva”.
“Amore è un porto dipinto“.

(Simone Gravina)

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