“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 25 January 2013 07:20

Il Pirata e la (ver)gogna

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Immagini sbiadite di un ragazzo che corre in bici si ripropongono in loop nell’attesa che la scena si animi; e s’anima quasi cogliendo di sorpresa: una donna appassionata, come il rosso dell’abito che la fascia, dà voce senza consolazione a Tonina, la mamma di Marco Pantani: “Avevo un figlio, forse ne avete sentito parlare…”.

Sì, Tonina, di quel figlio a cui non è naturale che un genitore sopravviva avevamo sentito parlare. Ne avevano sentito parlare tutti coloro che erano presenti al Teatro Nuovo e che sono stati toccati da una messinscena vibrante e appassionata che ha inteso restituire la memoria di Marco Pantani ad una verità meno aspra di quella che era stata raccontata a suo tempo, quando, in un Paese che non ha pietà dei propri miti allorquando li percepisce caduchi, del corpo e della vita d’un ragazzo s’era fatto strame. Al mito non si perdona la caduta, gliela si imputa, così come gi si rinfaccia come una colpa il successo che l’aveva preceduta.
Marco Pantani aveva riconsegnato al ciclismo un’aura eroica che quello sport, robotizzato dalla modernità, inquinato dalla chimica e dal business, aveva smarrito da tempi epici e remoti. Marco Pantani ha riscritto il mito del grimpeur, dello scalatore puro che abbatte le montagne a colpi di pedale, le divora con l’agilità di un grillo laddove tutti gli altri arrancano e boccheggiano. Atleta minuto, mingherlino, in un’epoca di macchine possenti troppo spesso azionate da carburante ignoto e sospetto, Pantani ha scalato l’Olimpo del mito con la classe del campione, per poi conoscere la vergogna degli Inferi con la fragilità dell’uomo.
Pantani di Marco Martinelli è una ricostruzione minuziosa in cui pulsa l’afflato che è proprio d’una passione civile. Non sappiamo se Marco Pantani fosse un santo immacolato, ci viene difficile pensarlo per quello scetticismo innato che colora il nostro sguardo sul mondo. Sappiamo però – e la pièce di Martinelli è in scena a ricordarcelo – che mai risultò positivo ad un test antidoping (fu fermato per il tasso di ematocrito appena più alto del valore consentito, non per doping). Sappiamo che in salita riscrisse la leggenda delle due ruote. Sappiamo anche che quegli stessi spietati estensori del crucifige per Pantani esaltavano al contempo Lance Armstrong e l’immagine buonista del campione più forte del cancro… per poi accorgersi, solo ad un decennio di distanza – e con ciò facciamo i conti con l’attualità – che quella vittoria s’edificava su un altro cancro, quello che mina ed ha minato (ormai irrimediabilmente, ci permettiamo di aggiungere) la credibilità di uno sport con troppi aghi confitti nei tubolari.
In scena va la riabilitazione di un uomo, mediaticamente massacrato al di là delle sue colpe, quali che fossero; in scena va, con la compostezza e il fervore di gente schietta come il Sangiovese, la dignità di una famiglia, parte in causa emotivamente, a cui s’affianca, sulla stessa scena, la coscienza critica ed inquieta d’un giornalista, che conduce la ricostruzione della vicenda di Marco Pantani con tassonomica, rigorosa precisione. In scena vengono chiamati a raccontare, testimoni della storia, compagni ed amici fedeli, accusatori confusionari e travisatori di realtà. Sulla scena prende corpo e sostanza una tesi complottista, che accampa le sue buone ragioni, che mostra le contraddizioni dell’impianto accusatorio messo su da una macchina ipocrita e perversa che, giocando subdolamente di sponda con la grancassa televisiva, aveva finalmente trovato il capro espiatorio da maciullare nel frullatore mediatico.
Sulla scena, a far da contraltare alla tragedia che prende corpo e si racconta, c’è un coro che, come nel teatro greco, contrappunta la narrazione, perché il mito ha bisogno di cantori, oltre che di narratori.
Dalla scena promana rabbia; rabbia per una vita “aiutata” a finire, per un mito “aiutato” a cadere, per un’immagine “aiutata” ad offuscare. La scena è partigiana, dalla parte di Pantani. E coinvolge, vibra, fa pulsare e rivivere dentro ciascuno quel sentimento di probabile ingiustizia subita, di sicura disumanità consumata. Si rischia l’apologia agiografica, forse, ma è un rischio calcolato, che ha il proprio antidoto nella consapevolezza del torbido in cui si va a rimestare, un torbido che non risiede nella vicenda sportiva e umana di Marco Pantani, quanto piuttosto in un sistema arroccato a difesa di se stesso e delle proprie incongruenze. Sulla difesa ad oltranza di quel sistema è stato immolato Marco Pantani, è stato sacrificato il mito. Non ci si è resi conto che, morto Pantani moriva il ciclismo. Le immagini che passano sullo schermo sono lì a ricordarlo, mostrando quell’omino più forte degli incidenti e delle ielle, a cui s’inchinavano il Pordoi e il Tourmalet, il Gavia e il Galibier, mentre avversari esterrefatti non potevano far altro che allargar le braccia in segno di resa impotente, vedendosi superati a velocità doppia lungo i ripidi pendii dei tapponi di montagna.
Molti dubbi permangono su una vicenda piena di anfratti senza luce, di contorni nebulosi, culminati in una morte che ancora reclama giustizia e che frettolosamente è stata archiviata e consegnata al lapidario giudizio mediatico: da uomo solo al comando ad uomo solo all’inferno.
Sullo schermo passa l’ultima sua immagine, sullo sfondo d’un cielo plumbeo e lattiginoso, l'immagine di un Pantani già spento.
Ma negli occhi di chi assiste rimangono le immagini delle sue gesta, mentre nella testa ci pare ancora rimbombi il dolore di Tonina e Paolo Pantani, inconsolabili per la perdita di un figlio, incrollabili nell’opporsi alla gogna e alla vergogna che l’han portato via.
Pantani, ovvero la malinconia di un mito tragico.

 

 

Pantani

di Marco Martinelli

ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari

regia Marco Martinelli

con Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Ermanna Montanari, Francesco Mormino, Laura Redaelli, Francesco Catacchio, Fagio

in video Pino Roncucci

fisarmonica e composizione musicale Simone Zanchini

produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, le manège.mons. – Scène Transfrontalière de création et de diffusion asbl

scene Alessandro Panzavolta, Fabio Ceroni, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Ermanna Montanari

costumi Teatro delle Albe, Laura Graziani Alta Moda, A.N.G.E.L.O., Les Jolies Sposi

luci Francesco Catacchio

suono Fagio

lingua italiano (con parti in dialetto romagnolo)

durata 3h 10’

Napoli, Teatro Nuovo, 22 gennaio 2013

in scena dal 22 al 27 gennaio 2013

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