“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 05 August 2014 00:31

L'importante è non cadere dal... barcone

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Certo, il teatro avviene, ed avviene ovunque qualcuno lo faccia avvenire, esso è epifania legata irreversibilmente al qui ed ora; ma certo teatro è ancor più teatro se avviene in un qui determinato, studiato, opportuno. Assistere ad una straordinaria messinscena dell'Edipo Re che adopera solo ed esclusivamente un cerchio di pietre in un semibuio residuo industriale, è cosa che allieta lo spirito; lo è altrettanto prendere parte ad un XXIV° canto dell'Inferno tra bidoni e fuochi nel retro dell'Albergo dei Poveri (Palazzo Fuga, Napoli) “anterestauro”; lo è ancor di più abbandonarsi alla psichedelia che procurano sincopatie ritmiche e luci stroboscopiche nella classicità di un teatrino del Settecento; ma difficile immaginare le Nozze di Figaro in un Irish pub, tra una pinta ed una cameriera distratta; ovvio, siamo sempre in attesa che qualcuno ci stupisca.

Ciò che vogliamo dire è che, sperimentare, attraverso la decontestualizzazione, non è sempre di sicura riuscita. Il Paolo Rossi a cui abbiamo assistito al Teatro Romano di Gubbio, ad esempio, lo avremmo goduto molto di più se il contatto con il pubblico fosse stato, semplicemente, possibile; certo, sono le atmosfere a creare le sintonie, ma anche la location gioca il suo ruolo perché un'atmosfera si crei. Eppure gli elementi c'erano tutti: un posto molto suggestivo, un Teatro Romano del I secolo avanti Cristo, en plen air dunque, la penombra di una calda sera d'agosto, la presenza sul palco solo di qualche sedia ed un leggio, gli strumenti utilizzati per gli intermezzi musicali: un contrabbasso ed una chitarra; tutto lasciava presagire la ricerca di una certa intimità con i presenti. Ed invece abbiamo dovuto subire la castrazione della distanza, non solo metaforica (sette/otto metri circa tra il palco e la prima gradinata della cavea), di una lezione per e con il pubblico pensata, ma da un pubblico muto seguita. Ovvio, c'era da sbellicarsi dalle risate, Paolo Rossi, si sa, fa quest'effetto, ma erano risate da tv più che da teatro; la risata a teatro è partecipata, è corrisposta, è più o meno immediata, non attende per farsi sentire ed è rilanciata al volo come un boomerang. Le pochissime “battute” arrivate sul palco sono state subito raccolte e servite, ma il pubblico non era, suo malgrado, parlante, poteva essere al massimo urlante e l'effetto, ovviamente, da stadio; è mancata la vicinanza, non s'è potuto rispondere; le parole sono restate in bocca a gonfiare le guance, solo sfiatate per chi sedeva accanto; ogni volta la sensazione, frustrante, dell'occasione persa, della palla che rimbalza sul campo da tennis.
Sarebbe bastato creare un continuum tra il palco e gli spalti, sarebbe bastato occupare il prato con dei posti a sedere, oppure, logica conseguenza dell'intenzione dello spettacolo, non ci sarebbe dovuto essere un palco, l'attore avrebbe dovuto occupare lo spazio un tempo destinato al coro, perché non si avvertisse quella cesura. Ci rammarica che sia stata commessa questa leggerezza.
La struttura dello spettacolo dimostra come l'atmosfera creata dovesse veicolare taluni messaggi: a partire dalla scelta di Personal Jesus dei Depeche Mode che sembra un brano perfetto per l'inizio di un viaggio; attraverso aneddotici ricordi intrisi di sentita riconoscenza a Gaber, Jannacci e Fo (anche cantata: Faceva il palo e Ho visto un re); per poi culminare, con una inedita sua canzone, su un Cristo primo degli immigrati.
Rossi, secondo noi, ha inteso, tra gag e Čechov, tra cabaret e Shakespeare, portare, nella sua personalissima maniera, all'attenzione del pubblico una questione delicatissima, come quella dell'arrivo sulle coste meridionale d'Italia di migliaia di anime disperate in fuga dalla guerra e dalla fame; fatti su cui troppo spesso s'è strumentalizzato, e proprio per non cadere in quest'inganno, l'attore ha scelto la strada della comicità e della, ci piace pensarla così, delicatezza. Se è vero che in scena c'era “il mestiere del comico visto dalla quinta” ed uno “spettacolo in prova”, ci piace pensare che il mestiere del comico sia quello di stimolare ad una riflessione/presa di coscienza, attraverso un linguaggio semplice e comprensibile, universale, o per meglio dire nazionalpopolare, che ha come strumenti primi, la risata ed il suo contagio; è una strada tante volte da lui battuta in passato; una strada che accorcia le distanze e che riesce ad essere percorsa da chiunque, senza settarismi o snobismi intellettuali; una strada con un traguardo sicuro: il dubbio. Perché non c'era giudizio espresso chiaramente, non c'era morale dispersa, non c'erano ammonimenti né compiacimenti, c'erano riferimenti, fatti e nulla più.
E se è vero che la sensazione diffusa alla fine dello spettacolo sia stata lo smarrimento, la destabilizzazione, l'incomprensione di cosa sia, di concreto, successo e cosa dovesse ancora accadere – anche la durata breve (cinquanta minuti appena) in soccorso, lanciare una bomba e poi andar via, insinuare il sospetto: è la satira politica, di cui lui è maestro – per ciò che concerne il messaggio, stavolta però, non ci sembra sia passato con chiarezza, colpa della distanza, colpa di una progettazione scenica che ha fatto cilecca, colpa dell'errata delimitazione dello spazio scenico e, quello a cui s'è assistito, sono parse davvero quasi lezioni che, crediamo, fossero solo la finta intenzione dell'autore, un pretesto per parlare di altro. Fa pensare come, tra i tanti episodi autobiografici narrati, non sia mai stato dato spazio ai successi, ai riconoscimenti che invece conosciamo numerosi; ci ha voluto “insegnare” quello che un bravo attore deve fare, attraverso gli errori commessi; ha indicato i metodi per rimediare alle défaillances, le possibilità infinite di “riprendersi”, sulla scena – come nella vita – con l'improvvisazione, che quindi è anche capacità di stare a galla. A tutto si trova soluzione tranne che alla caduta, rovinosa, dal palco. Tutto è affidato alle capacità dell'attore di restare sul palco, alle sue possibilità interpretative. Come a dire: se resti su, qualche cosa ti inventi, qualche strada percorri, qualche possibilità di dare una svolta la trovi, se cadi è la fine; se cadi tutto ciò che hai fatto fino ad ora è perduto, se cadi il tuo viaggio è concluso.
E allora, poiché l'interpretazione è assolutamente personale, la nostra vuole addirittura stravolgere il titolo dell'opera pensandolo più probabile così: "L'importante è non cadere dal... barcone". Tutto sommato è un grande messaggio di speranza, di apertura, ci fa scordare per un attimo che la verità è un'altra, che il viaggio è ancora lungo e senza sosta; passa attraverso l'abolizione dei CIE, attraverso un principio di accoglienza e condivisione che ancora non possediamo, a dispetto, soprattutto, delle possibilità negate e del rifiuto a prescindere; passa attraverso la comprensione ed il rispetto, il riconoscimento della dignità altrui e l'accettazione della propria finitudine; il viaggio è ancora lungo ma, l'importante è non cadere dal barcone.

 

 

 

L'importante è non cadere dal palco – Lezioni di teatro
di e con Paolo Rossi
con Emanuele Dell'Aquila,Alex Orciani
produzione La Corte Ospitale
lingua
italiano
foto di scena Michele Pastorelli
durata 1h
Gubbio (PG), Teatro Romano, 2 agosto 2014
in scena 2 agosto 2014 (data unica)

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