“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Rita Pagnozzi

I pugni serrati di Samisà

Samuele, quattro anni a settembre, è mio figlio, il mio secondo figlio. Sin dalla nascita ci piace chiamarlo Samisà, per vezzo, per carezzare con la lingua la sua scontrosità: è una delle nostre strategie per ammorbidire la sua diffidenza; è nato suscettibile infatti, s’è affacciato alla vita con sospetto, non lasciava avvicinarsi nessuno, non permetteva lo si prendesse in braccio, non amava gli sguardi degli altri su di sé. Per me, che ho fatto dell’incontro con l’altro lo stile del mio fare, è stato un duro colpo; c’ho lavorato su parecchio e oggi Samisà, così come sua sorella Gaia, “fa parlare anche i muri” (questa espressione la usò una volta Lucia Calamaro per descrivere me e dunque mi compiaccio di scriverla qui): è diventato tanto socievole e vivace, talmente vivace da costringermi a rimandare il suo incontro con il teatro, nel rispetto di chi suda dietro e sulla scena e del pubblico pagante, e un po’ anche nel rispetto mio, che non amo essere disturbata e non avrei gradito trovarmi in situazioni imbarazzanti.

Filippo Dini e la divisibilità dell’uno

Ci sono introduzioni sonore all’opera che realmente introducono, nel senso che conducono dentro, dentro alla situazione, dentro all’atmosfera, dentro alla scena. Arturo Annecchino ci conduce dentro, sdraiati a terra, sull’arida terra estiva di campagna, al chiar di luna, ad ascoltare le cicale cantare, con il latrare dei cani che, in lontananza, avvisano di arrivi inaspettati; quando il sipario si apre la scena pensata da Laura Benzi ci rivela subito la cogenza dell’introduzione, siamo proprio in campagna, davanti ad una villa della campagna emiliana (nome d’invenzione Fasolara), a far ombra, nel buio pesto della notte, ci pensa la luna.

Bambole di porcellana gonfie di morte

“Capisci che devo stare da solo? Io con gli altri mi perdo, non mi concludo, non mi agglomero, non quaglio, resto a metà, o all’inizio... non arrivo al quid, resto appeso all’incipit di un’idea, un’idea qualsiasi poi, neanche un’idea geniale. Se non fossi medico penserei di essere vittima di una di quelle cose senza vaccino e senza speranza, una patologia rarissima che ha fatto sì che tutti i finali dei miei pensieri siano finiti in un posto che non trovo, nella mia memoria, che non so dov’è né dove sia né dove inizi e che non finisce, e sono tutti belli e morti, duri, duri, freddi. Pensieri come bambole di porcellana gonfie di morte”.

Vuoto cieco

Le luci si spengono, si accende il buio, un buio chiaro, nitido, dai confini incerti ma dalle intenzioni palesi. C'è un'anima persa, talmente persa da aver smarrito la sua unità, talmente in bilico da aver dato vita al suo doppio, e c'è una coscienza critica, illuminante, che urla la sua epifania, che rivendica la luce, che denuncia il buio, il vuoto cieco.

Oltre Strehler con Zanza

Quando Goldoni scrisse, nel 1745, la commedia Il servitore di due padroni, non ne rese subito un copione definitivo, propose piuttosto un canovaccio ad Antonio Sacchi, che si sarebbe arricchito, ed avrebbe quindi preso compiutamente forma, grazie all'improvvisazione di quest'ultimo. Le edizioni successive si devono quasi tutte a Strehler, che a partire dal 1947 ne modificò anche il titolo, e l'opera divenne Arlecchino servitore di due padroni; l'aggiunta della maschera bergamasca fu quasi un'operazione commerciale ma diede all'opera una dimensione più moderna, più vicina cioè al teatro maderno, ma con uno sguardo di ammirazione e quasi nostalgia alla tradizione della commedia dell'arte che di quella modernità era stata fondatrice.

Lo zio Vania di Rubiera

“Io due cose volevo fare nella vita: giocare a pallone e andare a vivere al mare. Non ho fatto nessuna delle due!”.
È qui, in questa pungente considerazione a metà messinscena, che si condensa la stagnazione esistenziale di cui si fa narrazione in Vania, progetto vincitore del Premio Nazionale “Giovani realtà del teatro 2015”.
Difficile immaginare un Čechov che regionalizza, espatriandoli, i suoi personaggi; ancora più difficile prevedere una messa in scena che, pur tenendo fede alle atmosfere originarie, le contemporaneizza fino a renderne lontana la matrice.

Cucinelli-Latella: co-regia di stile

La location
Solomeo è una frazione del comune di Corciano, in provincia di Perugia; è una bomboniera trecentesca adagiata su una delle colline umbre, la sua fama e parte dei restauri che ne determinano la suggestione si devono all'imprenditore Brunello Cucinelli.
Nel percorrere la salita d'accesso al borgo non si può restare indifferenti di fronte alla raffinatezza che quelle pietre sembrano ostentare, soprattutto, ovviamente, se lo si fa di sera; lampioncini a luce calda iniziano a segnare un percorso, tra vialetti e portici, che introduce al piazzale antistante il Teatro Cucinelli. Il Foro delle Arti, di cui il teatro rappresenta il centro, è un'idea dello stilista che nel 2000 ha dato avvio ai lavori di costruzione e restauro di un complesso che si completa di un Ginnasio, un Ippodromo, un Giardino dei Filosofi ed una Accademia.

Il tramonto di un uomo

“Animula vagula, blandula, Hospes comesque corporis, Quae nunc abibis in loca Pallidula, rigida, nudula, Nec, ut soles, dabis iocos”.
(trad.: "Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti").
Adriano

Questa poesia scritta da Adriano nei suoi ultimi giorni di vita fa da fil rouge allo spettacolo a cui assistiamo ai piedi della fortificazione bassomedievale di Gualdo Tadino, la Rocca Flea.
A portarlo in scena un lento novantaduenne canuto, volto greve, che copre i suoi abiti con una tunica ecrù, che cerca e ottiene sostegno per salire le scale di accesso al palco e che si muove sullo stesso con a supporto un bastone. La sequenza potrebbe suscitare tenerezza se subito non si mostrasse il vigore e l'autorevolezza che quest'uomo, ancora possente, esercita sul pubblico. Lui è Giorgio Albertazzi e con un saluto al pubblico chiama l'applauso; lui è Giorgio Albertazzi e può persino permettersi di “cominciare daccapo” dopo aver pronunciato le sue prime battute senza amplificazione o ripetere frasi già enunciate quando risultassero non scandite.

Quotidiana 'infamità'

Il fondale del Teatro Comunale di Gubbio è grandissimo, i pannelli presenti non bastano a nasconderlo, e sicuramente non ne avevano intenzione; la scena si mostra in tutta la sua verità, non c'è inutile orpello ad arricchirla, solo ciò che serve a mostrare il come è.
Un uomo guadagna la scena, al guinzaglio un grosso cane marrone, è un uomo normale con abiti normali, quotidiani; il cane, normalmente il suo cane, quotidiano. Alla sua postazione l'uomo, l'attore, il regista, c.l. Grugher (le minuscole sono sue), si fa sovrappositore di musiche, suoni ed immagini, quotidiani; il suo cane, Ettore, gli si accuccia accanto, quotidiano.

To the end of... violence

Posto che non ci attarderemo, ora, a rispondere a domande su cosa sia il cinema dal punto di vista tecnico, o industriale, o ancora, sociale, politico e culturale, vogliamo provare a scrivere, questa volta, della funzione comunicativa del cinema; che poi, in realtà, non prescinde dagli aggettivi elencati sopra.
Ma in fondo, che significa comunicazione cinematografica? Quando si può dire che un film ha assolto al suo ruolo comunicativo? Qualcuno potrebbe dire che una comunicazione avviene sempre, a prescindere da cosa viene proiettato sullo schermo; e questo tecnicamente sarebbe corretto, ma noi ci vogliamo divertire, per un attimo, a giocare e scartare teorie altre, per proporne una, forse un po' snob e settaria, sicuramente già enunciata da illustri pensatori, di cui però sentiamo fortemente il bisogno. Vogliamo porre un principio a priori per poter poi scrivere, con lucidità e convinzione di Miss Violence di Alexandros Avranas.

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il Pickwick

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