“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Serena Martucci

11° comandamento: non dimenticare

Vento. Il sipario si apre e prima di tutto, prima di vedere, sentiremo il soffio del vento. Deve essere la Bora. Poi viene l'immagine. Accompagnata dal fischio del vento. Rosee facciate di pietra, sarà il calcare di Aurisina? Pietra che sa di freddo. Colore che sa di freddo, di lontano, di antico. Sembrano quei colori un po' smorti dei filmi degli anni '70, delle fotografie di qualche decennio fa. Compare una scritta: "MAGAZZINO 18". Sempre solo silenzio. O meglio, l'immagine del silenzio, dell'abbandono, è il vento.

Due spettacoli in uno

Un quadrato di tela bianca fa da sfondo. Unico elemento scenico, a parte quello di servizio, sedie e leggii. Non è necessario. La voce, le voci, reggono da sole la scena, evocano, narrano, graffiano, accarezzano. La voce di Myriam Lattanzio, autrice del testo, musica senza musica, calda, vibrante, potente, commovente, evocatrice di calda malinconia latinoamericana. La voce degli strumenti, chitarra e basso, delicato accompagnamento di quella voce così sicura da reggersi da sola. La voce dai mille registri di Nunzia Schiano, forte e sommessa, graffiante e delicata, una voce narrante che sa costruire la scena attorno a sé, sa materializzare oggetti e persone. Ti fa vedere l'alba, ti fa sentire il freddo e il buio della prima mattina.

Chiamiamo le cose con il loro nome

Lucrino (Napoli), Stufe di Nerone. Un paradiso diurno prometteva deliziose derive notturne, musica e parole al largo di una zattera, al centro del laghetto termale. Complici gli eventi atmosferici, tuttavia, ci si è dovuti accontentare di un salone. Un po’ di delusione, ma meglio di uno spettacolo annullato. Sedie da aspetto, una tela bianca fa da sfondo. Ospiterà immagini e filmati e le ombre dei musicisti, dell’attore e del conferenziere. Già. Il conferenziere. Cominciamo col chiarire che la performance cui abbiamo assistito non è uno spettacolo teatrale, come è stato subito chiarito da Giovanni Meola, direttore artistico del festival, nella presentazione.

Signori della corte

Fa caldo sulle gradinate del teatro di Pausilypon. La sensazione forse è amplificata dal confronto con l’umida frescura di cui si gode percorrendo la Grotta di Seiano, che funge qui da tunnel iniziatico attraverso il quale si lascia il nostro convulso mondo contemporaneo, fatto di traffico, crolli e strade interrotte e si approda al mondo del mito, terribile ed eterno.

Edutainment

Si attende fuori l'inizio dello spettacolo, godendosi il lento calare della sera in piazza San Gaetano. Godere in realtà è parola grossa, visto che si tratta piuttosto di evitare le pallonate dei ragazzini che giocano a sette si schiaccia (e non a palla avvelenata come ci tengono a precisare...). Sulla testa della statua di San Lorenzo, sul campanile, è cresciuta una chioma di vegetazione spontanea che gli da un curioso aspetto da parruccone settecentesco.

Arte e Vita

Il pubblico del festival gremisce la sala del Teatro Nuovo. Dovere sociale. Amici e parenti. Invitati di lusso. Qualcuno sillaba a fatica il titolo dello spettacolo. Fa caldo fuori, si agitano ventagli di ogni foggia e colore. Finalmente si apre il sipario e parte l’incanto. Peggy Guggenheim (Fiorella Rubino) arriva in scena dal fondo della platea. È Venezia, a casa sua, palazzo Venier dei Leoni, attende una troupe televisiva italiana per un’intervista. Veste un lungo camicione plissettato rosa champagne, con le maniche strette ai polsi e una macchia dietro. In braccio reca una serie di vestiti, di vari colori. Li racconta uno per uno. Balenciaga, Chanel, Vionnet. Ogni abito ha una storia, la sera in cui fu indossato, la persona con cui si trovava. “Io e Duchamp abbiamo ballato tutta la notte con questo vestito”. O la gonna lunga con cui era stata nello studio di un pittore, macchiandola del colore ancora fresco di una tela. “Mi offrii di andare a letto con il pittore se gli andava”. Si trattava di Pollock. Non aveva mai più lavato quella gonna.

Fino all'ultimo mattone

Napoli. San Giovanni a Teduccio. Pietrarsa. Museo Nazionale Ferroviario. Sala Cinema. L’impatto con Pietrarsa è sempre suggestivo. Si arriva dalla città, attraversando quel nastro di sampietrini, asfalto, binari del tram che comincia col nome di via Nuova Marina e finisce, senza soluzione di continuità, come corso San Giovanni. Palazzi diroccati dalla guerra, casermoni di cemento tirati su dopo la guerra. Il bus navetta ci deposita all’angolo di via Pietrarsa, la traversa cieca che conduce alla stazione/museo. È ancora giorno. Lo sguardo si apre su una sciabolata di luce e mare. Si entra nell’antica stazione, si percorre il sottopassaggio dalle pareti rosso carminio, un po’ cupo e vagamente inquietante, poi si ritorna alla luce, nell’ampio cortile di ingresso.

Piccolo mondo stretto

Potevo fermarmi allo spettacolo. Alla suggestione di luce, parole, gesti messa in opera da Eric Bergeonneaud e Marie-Hélène Garnier di cui ho raccontato qualche tempo fa (http://www.ilpickwick.it/index.php/teatro/item/1095-crescere-prendere-forma). E invece quel folletto curioso e anarchico che tanto spesso guida le mie scelte mi ha spinta a chiedere del testo da cui erano partiti, il romanzo di Marie-Sabine Roger et tu te soumettras à la loi de ton père. Sono contenta di averlo fatto.

Sogni Carte Numeri

San Giorgio a Cremano (NA). Villa Bruno. Fonderia Righetti. Uno spazio austero in blocchetti di tufo. La copertura è sostenuta da archi e putrelle d’acciaio. Stratificazioni di senso in uno spazio antico. Luce calda, che si sposa bene col giallo del tufo. Antico e moderno dialogano e convivono. La pesantezza della muratura e la leggerezza dell’acciaio. La leggerezza della vita in villa nel ‘700 e il calore greve della fonderia del secolo successivo. Una statua di Massimo Troisi, nei panni del Postino, con l’immancabile bicicletta, decora il fondo della sala, con lo stile greve di tanta produzione bronzistica contemporanea.

Complessità

Valentina Picello pende al centro della scena, legata al soffitto da tre sottili e robusti fili, come una bambola, come una marionetta. Oro ramato i capelli, inanellati in boccoli quasi vezzosi. Spalancati e spiritati gli occhi chiari, che guardano senza guardare. L’abito è come una struttura, un involucro, una torre. Sotto il lino leggero, di un bianco caldo, si intravede la crinolina, che genera il volume, e sotto la stoffa si allarga, a invadere il pavimento, come spuma del mare. Muove il braccio sinistro, con lenti scatti meccanici, da marionetta, si dondola appesa ai fili. “Alice non dormire. Per sognare basta sognare. Basta tenere gli occhi a bada. Se tieni gli occhi a bada tutto il mondo entra dentro di te”.
Una donna, un corpo, tante voci.

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