“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Antonio Cataldo

Tra donne sole

Una scrivania con libri sulla sinistra, davanti a un letto con baldacchino di assi di ferro e teli di plastica. Al centro un tavolino a fungere da desco improvvisato. A destra un letto a castello assemblato alla meno peggio, e dietro un lavabo e un attaccapanni. Sullo sfondo fogli di plastica trasparente a separare il luogo da un “fuori” in cui si riverberano, ogni tanto, i riflessi dei fari di chi sosta all’imbocco del tunnel senza però addentrarvisi. La scena è completata da cavi di acciaio a forma di arco che suggeriscono una realistica costruzione dell’ambiente. Irrompono tre figure e si è subito introdotti nel “dramma” che nasce dalle loro storie.

Di prigione si muore

Dieci anni fa si uccideva Armida Miserere, direttrice del penitenziario di Sulmona. Era la sera del venerdì santo, e dopo aver vergato su un foglio di carta le sue ultime volontà (tra cui quella di venir cremata e di far spargere le sue ceneri al vento) si sparava un colpo alla tempia con la sua pistola d’ordinanza. Era aprile anche nel 1990, quando altri colpi di pistola freddavano il suo compagno Umberto Mormile, educatore nel carcere di San Vittore – mentre lei era la direttrice di quello di Lodi – sparati da un killer su una moto, ad un semaforo, in pieno giorno. Omicidio che resterà un mistero per ben undici anni per la giustizia italiana, risolto grazie alle rivelazioni di alcuni pentiti coinvolti in altri processi, ma che per Armida si palesa fin da subito come una punizione per qualche “sgarro” che il suo uomo, semplicemente rimanendo fedele alla sua deontologia professionale, aveva fatto al crimine organizzato.

Calcio, canzoni e Zamberletti

Trentatré anni fa. Una vita. Il terremoto segnerà per sempre un momento di rottura, sarà la cesura tra il prima e il dopo nelle narrazioni delle storie personali e delle comunità che lo hanno vissuto, per chissà quanto tempo ancora. Come commemorare un evento di tale portata? Come tradurre la forza terribile dell’evento, i cambiamenti che ne sono scaturiti sul piano letterario e teatrale?

L'occhio della madre

Come può un testo scritto nel 1930 – rappresentato l’anno dopo – risultare sorprendentemente attuale ancora al giorno d’oggi, beninteso non nella narrazione di atteggiamenti e valori imprescindibilmente umani, non nella descrizione di eterne dinamiche sentimentali valide in ogni tempo e ad ogni latitudine, ma nella disamina dei meccanismi economici e delle pratiche (basse) che sono alla base delle strategie di arricchimento di una classe e di sfruttamento dell’altra?

Sottosuolo mancuniano

Craig Dyer, nativo di Blackpool (a suo dire un posto terribile in cui vivere) non si sente parte di una nuova scena di Manchester – anzi, a leggere i riscontri alla loro musica sui blog dei loro fan inglesi, questi ultimi lamentano la poca riconoscenza che l’ambiente indie-rock dell’antica colonia romana riserva ai loro beniamini. È indubbio però che qualcosa nell’atmosfera di quella città abbia influenzato le scelte musicali del Nostro. Del resto è un’impressione che Craig ammette candidamente, quella cioè di sentirsi pienamente debitore nei confronti dei Joy Division.

Giusta al centro

Quinto lungometraggio di Abdellatif Kechiche, La vita di Adèle ha vinto la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes e si è aggiudicato anche la palma per la migliore interpretazione femminile, premio condiviso dalle sue interpreti principali Adèle Exatchopoulos e Léa Seydoux. Il film prende spunto da un graphic novel di Julie Maroh – giovane fumettista francese – che viene pubblicato nel 2010 per i tipi della Glénat con il titolo di Le bleu est une couleur chaude (in questi giorni stampato in Italia per Rizzoli come Il blu è un colore caldo).

C'è di mezzo il mare

Vecchie sedie impagliate, valigie di cartone, lampade fatte con asticelle di legno, e sul proscenio lunghe assi di legno le cui estremità sono collegate al soffitto da corde. Dal buio emergono cinque donne in camicia da notte che ripetono ossessivamente gesti meccanici. Si teme quasi che ciò precluda ad una performance dai significati reconditi ed arcani: nulla di tutto ciò, è solo il segno mimico di esistenze non più sopportabili, alienate – anche se non condotte in fabbrica ma tra campi e vicoli di miseria.

Falchi e fantasmi

Settimana americana quella appena trascorsa per il Godot Art Bistrot di Avellino. Dopo Ryland Bouchard dei The Robot Ate Me un’altra band da Portland, Oregon: i Ghost to Falco. Anch’essi, come i primi, sono in realtà un progetto che gravita intorno ad un solo autore, nello specifico Eric Crespo, che negli anni si è circondato di vari collaboratori per registrare i suoi lavori.

L'angelo del varietà

Serata interamente brit(ish) domenica sera al Godot Art Bistrot di Avellino (non me ne vogliano i nazionalisti scozzesi, ma british va inteso in senso lato): è di scena Nick Currie, in arte Momus, il folletto indie che è stato tra i primi a recuperare al rock la melodia della canzone d’autore (e non) degli anni ’60, attingendo a piene mani anche alla tradizione francese (Brel e Gainsbourg come numi tutelari per sua ammissione). Tutto questo ha inizio quando in Scozia nuovi gruppi come Aztec Camera, Joseph K e Orange Juice esordivano con dischi in cui voce e chitarre imbastivano umbratili canzoni lontane dalle angosce del dark.

A scuola a teatro

L’8 settembre 1613 moriva Carlo Gesualdo da Venosa nel castello dell’omonimo paese in provincia di Avellino. Figura fondamentale per la musica rinascimentale e per l’evoluzione che seppe imprimere al madrigale, ma in generale alla polifonia e al contrappunto, valente strumentista egli stesso di clavicembalo e liuto, tanto da venir appellato principe dei musici, Gesualdo legò indissolubilmente la sua fama al duplice omicidio di cui fu responsabile, quello della moglie Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa – avvenuto nel palazzo di Sansevero (residenza cittadina della famiglia di Venosa) – nell’ottobre del 1590. Questo evento ne segnò l’esistenza, costellata di molti lutti e di poche gioie, come la nascita del primogenito Emanuele e le seconde nozze in quel di Ferrara con Eleonora d’Este, cugina del duca Alfonso II d’Este (dopo quattro anni di ritiro nella rocca ben difesa del comune ufitano per sfuggire alla possibile vendetta delle famiglie delle vittime).

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il Pickwick

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