“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Delio Salottolo

Il quadernaccio di Sam Weller (n. 1): tutto-in-uno/all-in-one di Thomas Bayrle

Con questo pezzo inizia la pubblicazione di una serie di recensioni di mostre ed esposizioni che noi, travestiti dal buon Sam Weller (cercando di nasconderci e di non farci sempre riconoscere!), tenteremo di raccontare, mostrando (ma senza pretese, eh!) come l’arte contemporanea sia vissuta e idealizzata dai rappresentanti umani del nostro inizio secolo (Sam Weller compreso), come nella produzione, esposizione e ricezione del prodotto artistico vi sia sempre qualcosa di gustoso dal punto di vista socio-antropologico. Niente a che vedere dunque con la critica d’arte, troppo accidentato terreno per il quale Sam Weller non vuole arrischiarsi (e qualora accada – e temiamo proprio che possa accadere e forse è già sempre accaduto – chiediamo in anticipo scusa al lettore), ma soltanto uno sguardo sempre esterno e sempre un po’ di sbieco.

Uno dei miei più grandi trionfi

Ancora una volta (e non riesco neanche più a contarle) quel mio caro amico (l’amicizia – e non posso farci nulla ma mi scappa sempre un sorriso quando penso a quel sentimento) di cui forse non ho intenzione di parlarvi troppo a lungo, perché non è poi una persona tanto interessante da necessitare una trattazione specifica, uomo che potrà forse incuriosire qualche nostro studioso della psiche (all’erta psicologi, psichiatri, psicanalisti, pedagoghi, educatori, sociologi e antropologi!) ma che per quanto mi riguarda in un mondo benfunzionante non sarebbe capace di suscitare una qualche emozione in nessuno, mi disse che si sarebbe sparato un colpo di pistola in faccia, perché la sua vita faceva schifo (come dargli torto?) e anche la sua morte non doveva essere da meno, sangue e pezzetti di cranio e poi materia grigia e occhi schizzati chissà dove, grida di persone disgustate e infine qualche incubo durante le notti di chi per sua disgrazia lo avrebbe trovato spappolato nel suo studio. Come un immenso affresco del dolore contemporaneo, proprio così mi disse e io quasi quasi gli ridevo in faccia (ma, come sempre, seppi controllarmi).

Eternamente Altro lo sguardo sull'Altro. La fotografia di Di Martino

Si tratta oramai di una sorta di destino all’interno del quale si compie il senso profondo dell’Occidente, o almeno dell’Occidente degli ultimi (a occhio e croce) cinque secoli e rotti. Si tratta allo stesso tempo di ciò che possiamo chiamare l’orrore per il diverso e di ciò che amiamo definire il fascino per l’Altro. Anzi si potrebbe dire che si tratta di una forma speculare (insensata). Lo sguardo dell’Altro ci mette in crisi, ci spacca in due e orrore e fascino sono due re-azioni, cioè: non ancora azioni. C’è una sorta di filo rosso che lega l’elezione della Kyenge al Ministero per l’Integrazione, dunque: il nuovo governo di unità nazionale che ha trovato lo sponsor migliore per presentarsi al suo elettorato benpensante e sinceramente “progressista” e le reazioni balorde e sgraziate dell’Italia produttiva, quella del Nord-Est, che si muove lungo le rive del Po e che gioca con riti celtici sognando libertà comunali ma trovando soltanto il ridicolo mito del sangue puro.
Poi ci capita questa mostra.

The revolution will not be televised (la conclusione)

VI

   buongiorno, signor D.

 

   (la sua voce è ancora più dura, sembra una strana mescolanza tra un’eco di vallata e il gorgogliare delle tortore, devo stare calmo e rispondere, e soprattutto non devo piangere, perché la morfina mi fa diventare così debole spiritualmente?)

   b-buongiorno

   (la mia voce trema, penserà che io abbia paura, devo fissare l’attenzione e parlare bene, in maniera sicura, addirittura spavalda, almeno questo, almeno questo)

The revolution will not be televised (parte quinta)

V

   dove getteranno il mio cadavere?, dove sono finiti i cadaveri di tutti quelli come me?, ci manca soltanto che mi metto a pensare alle sepolture dei morti, i morti sono morti, basta! è finito tutto con la morte, che senso ha pensare alla sepoltura?, eppure vorrei immaginare il tragitto del mio cadavere, seguirlo passo passo, essere presente quando infermieri lindi e profumati lo trascineranno fuori da questa cella, stare in piedi accanto a loro quando poi lo chiuderanno in una sacca di plastica, vedere il loro sguardo mentre lo faranno, studiare se un qualche moto d’animo di qualsiasi tipo sarà visibile sui loro volti,

 

The revolution will not be televised (parte quarta)

IV

  

   sono di nuovo nella mia cella, la testa mi gira ancora e non ricordo più bene in quale momento la mia mente si è spenta, ricordo soltanto nugoli di lucciole impazzite dinanzi agli occhi, il cuore che pompava sangue freddo e le fitte allo stomaco, poi qualche suono che mi usciva dalla bocca incontrollato come se stesse parlando qualcun altro e infine una colata di nero improvvisa, la fine della coscienza, il nero della morte, e così morire è brutto soltanto quando poi ci si risveglia, forse morire non è poi mica male, ma non è quella la liberazione che cerco,

 

Un delirio e alcuni mostriciattoli rossi. L'arte di Elio Varuna

In effetti l’Ilva chiude, 5 mila a casa e certo non ti aspetteresti che quel mostriciattolo rosso che zampetta di qua e di là, dall’apparenza innocua (apparenza ho detto, eh!), si occupi di questioni tanto dolorose e irrisolvibili perché poi i dividendi, perché poi la salute, perché poi senza lavoro che dobbiamo fare?, ma poi grida di panico e occhiate atterrite perché scippi e aggressioni nei decumani al buio dove l’uomo nero scugnizzo napoletano IGT di un tempo ora veste Prada e impugna fiero feroci smartphone e questo è niente! e questo è niente! quando poi capita anche che le nozze gay suicidio dell’Europa e tu sei già lì a brindare con gli amici alla fine di questa oscenità mediatica da frustini tedeschi marca Merkel (era solo per il gioco di parole e le assonanze assonanti!) o da calze autoreggenti stile Standard&Poor’s o da produzione di violenza preconfezionata verso negri, marocchini, albanesi di post-achea memoria e dorata alba di (neo)repressione che prima Hitler (evidentemente al mostriciattolo rosso interessa ancora! il nostro caro e colto amico, mostriciattolo rosso) e poi obiettivo Teheran (qualcuno in fondo, mentre sgranocchia un grosso gatto nero grida: “non ci crede nessuno!”) e infine la scelta del Papa che poi è stata quella di godersi la vecchiaia, scelta mirabilissima in un Paese in cui la vecchiaia è sacra almeno quanto una ricevuta vincente del Super Enalotto.

The revolution will not be televised (parte terza)

III

   “ahahah” e poi “eheheh”, ridono ancora di gusto i miei aguzzini, forse hanno sentito questo mio pensiero, avranno inventato qualcosa per sentire i pensieri dei reclusi, ma hanno ragione forse, la rivoluzione fa proprio ridere, vecchio mito della nostra epoca, verrà il tempo della rivoluzione! e tutte queste ridicole figure verranno spazzate via, sì! sembra proprio un pensiero religioso, sembra proprio un’idea apocalittica, la fine dei tempi con la rivoluzione e un mondo nuovo dove tutti saranno giusti e sederanno l’uno accanto all’altro in perfetta armonia, ma non è così! il mondo è uno sforzo e noi siamo piccoli uomini, la rivoluzione va pensata già accompagnata con il mondo nuovo, senza orizzonte non c’è figura, ecco cosa manca alle idee rivoluzionarie della mia epoca, comunque a me la rivoluzione piace sempre pensarla, ma il tempo della rivoluzione dove si posiziona? è una frattura? si porrebbe in continuità? o cambierebbe la nostra percezione del tempo?, ancora la necessità di fissare l’attenzione,

The revolution will not be televised (parte seconda)

II

   qualche giorno fa (almeno penso che fosse così) ho sentito alcune persone ridere, uno diceva: “ahahah”, l’altro invece rispondeva: “eheheh”, le loro voci mi arrivavano ovattate e le mie orecchie indolenzite e gonfie di pus formavano come un tappo, la notte immagino (o sogno?) spesso una sorta di cavatappi da infilarmi nelle orecchie, sogno chiaramente che con la mano destra faccio ruotare il perno e con la mano sinistra tengo fermo l’arnese, e poi sento pienamente lo sforzo che ci vuole per tirare fuori quel tappo, come quando la bottiglia di vino è stata messa in frigorifero e si fatica a stapparla,

Sull'ibridità di cose e idee. L'arte di Max Frisinger e Shana Moulton

Che l’arte contemporanea possa fare tutto quello che le passa per la testa già lo si è detto e noi stessi ci abbiamo ragionato a lungo, e la stessa libertà per certi versi assoluta – all’artista si concede tutto, ma proprio tutto – unita al fatto che si tratta proprio di arte, di “prodotto” artistico, di merce nel senso più classico del termine, dove è determinante la relazione tra valore d’uso e valore di scambio, già di per sé immunizza il potenziale eversivo che forme d’espressione anche estreme potrebbero eventualmente portare con sé. Si tratta ovviamente di una forma tutta particolare di cul de sac, all’interno del quale si determina l’aspetto fenomenologico del fare artistico e della ricezione artistica. A noi dà l’idea spesso di uno strano gioco, forse perverso, in cui microcomunità di pensiero e emozione costruiscono una gigantesca macchina, all’interno della quale trovano posto tutti coloro che per scelta interessata o per vocazione – nella contemporaneità (attenzione!) indistinguibili – “giocano” il grande festival della rappresentazione artistica.

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il Pickwick

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