“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

La memoria dei giusti

Ottaviano, Castello Mediceo; altrimenti detto “Palazzo del Principe”, ma noto ai più con la denominazione di “Castello di Cutolo”, per via del fatto che Raffaele Cutolo, il boss della Nuova Camorra Organizzata, egemone fino ai primi anni Ottanta, l'aveva acquistato e aveva ivi fissato la propria dimora, simbolo appariscente di una forza e di un potere che nell’ideologia camorristica protende (e pretende) ad una riconoscibilità esteriore che ne sancisca preminenza visibile, dominio esibito.

Ridendo d'improvviso

La verzura rasserenante dell’Orto Botanico accoglie, mentre il giorno digrada verso la penombra dell’imbrunire, avvolgendo d’un senso di quiete; si attraversa il giardino sconfinato e ci si arresta dinanzi ad un portone in attesa di schiudersi sul cortile che alloggia il palco. Prima d’accedervi, ad ogni spettatore è chiesto di far la propria parte e di vergar di proprio pugno una parola, una frase, un’idea che possa fungere da spunto a chi di lì a poco salirà in ribalta; quando ci si accomoda in platea, in un angolo del palco giace una boccia di vetro gonfia di foglietti piegati, che recano impressi soggetti per microdrammaturgie potenziali, frutto dell'inventiva del pubblico; ma, come nella corsa degli spermatozoi alla fecondazione dell’ovulo, solo pochi giungeranno a destinazione, vedendo prender forma e fattezze compiute al proprio gene.

Africa stereotipa

L'ultimo spettacolo dell'ultimo giorno di Festival è un focus sull'Africa, sugli ultimi del mondo, su quella fetta di mondo vessata dagli interessi egemoni dei potenti, che schiacciano in una morsa di sorda sopraffazione le istanze di crescita di quei popoli che hanno dovuto patire l'ingiuria del colonialismo e delle sue derive parossistiche.

In processione lungo il Tunnel

La suggestione illustre di una messinscena favolistica che già nel titolo evoca una gatta, facilmente fa ripensare a La Gatta Cenerentola, la favola in musica di Roberto De Simone, che riaffiora assistendo a La Iatta Mammona del Collettivo Internoenki.

In missione per conto di Mister Samuel

Allorquando si programmano eventi capaci di suscitare la curiosità pickwickiana, i membri del Circolo, armati di taccuino e facondia, si dirigono alla volta dell’evento per darne regesto ed assolvere alla missione statutaria del loro benemerito sodalizio. La curiosità connaturata all’animo pickwickiano risulta vieppiù titillata quando ad emettere richiamo sono faccende eminentemente correlate a quel tale scrittore che nelle sinuose, pingui membra di Mister Samuel Pickwick seppe insufflare inchiostro vitale, consegnando sé e quel bonario signore ad imperitura esistenza: Charles Dickens.

La crisi all'angolo destro

Quando ci accostiamo al teatro cosiddetto civile – o per meglio dire d’impegno civile – siamo per solito colti da repentino timore d’incorrere nella riproposizione d’un refrain proprio dei drammi a tesi, poggiati sovente sull’unico solido e conveniente impiantito dell’ideologismo apologetico. Chiariamolo subito: Krisiskin sfugge a questo peccato (non) originale. Lo fa svolgendo una vicenda semplice di ordinario degrado sociale inventandosi un modo di svolgerla che le dona una freschezza inversamente proporzionale all’afa canicolare che all’interno della Sala Polifunzionale del Museo MADRE rende i corpi degli attori madide figure di scena come fossero statue di cera in progressiva liquefazione; ma a liquefarsi non sono gli attori – solidi interpreti della messinscena – bensì l’universo dei personaggi a cui danno corpo.

L’interminabile centrifuga di un tritarifiuti teatrale

Mentre s’aspetta l’inizio dello spettacolo, la lettura delle note di regia riempie l’indugiare dell’attesa; le aspettative, da quel che si può leggere, sono alte. La nostra attenzione è però distolta da un episodio estemporaneo ed all’apparenza marginale, che ci induce a sollevare lo sguardo dalle parole impresse sul cartoncino: un ragazzino grassoccio e dall’eloquio non propriamente urbano e civile ci passa da presso e con noncuranza getta davanti ai nostri piedi un bicchiere di plastica appena usato: l’occhio ritorna alle nostre note, che parlano di Spam e lo spam non è altro che immondizia virtuale, con cui fa pendant l’atto reale a cui abbiamo appena assistito.

L'insidia truffaldina della Parola

In un tempo in cui “crisi” è parola che entra nelle case dalla televisione per non più uscirne, è plausibile che essa entri anche in teatro (in cui forse era presente già da prima di estendersi in modo generalizzato e profondo agli altri comparti della società) per farsi oggetto di scena, e che lo faccia proprio insieme alla televisione medesima. Di più: la parola crisi si fa oggetto di lavoro teatrale. TRICHER 4_selodicelaTValloraèvero è un lavoro sulla crisi. È un mea culpa recitato per interposta persona da un segmento sociale – quello del nostro tempo – che è formalmente inconsapevole (ma fino a che punto?) della ciarla menzognera a cui è sottoposto.

PompeiLab, racconto di un'atmosfera

In un versante di Pompei discosto ed eccentrico rispetto alle mete consuete del turismo archeologico e del devozionismo mariano, l’aria della domenica a mezza sera è pregna degli odori acri che pungono l’olfatto esalando dal Sarno; lì, nei pressi del fiume, insiste lo spazio del PompeiLab, varcato il cui cancello d’ingresso s’avverte la gradevole sensazione che le narici di colpo non siano più punzecchiate dal lezzo che suppura l’aria; eppure siamo all’aperto, eppure il Sarno è ancora li accanto; eppure, il luogo che ci accoglie reca impressa sul cancello una dicitura che lo qualifica come sede dell’apparato fognario… Avvertiamo netta la percezione di un contrasto.

La magica semplicità del talento

Mentre da un’oscurità che s’immagina lontana sciabordar d’acque annuncia equorea visione proiettata sul fondale, lentamente il buio degrada e lascia veder sorgere dai docili flutti, come ninfa dei mari, figura di donna avvolta in un manto. Scarna la scena, accessorio inessenziale al compiersi di un racconto per voce sola e polimorfa: Lucia Zotti “veste” la scena della sua presenza, dopo averla spogliata del velo bianco, unico drappeggio in ribalta che avvolge una sedia; tirato via il velo della realtà, comincia l’incanto della favola.

il Pickwick

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