Extra La locanda delle chiacchiere
«Il viaggio s’arresta in una locanda: scoppietta la fiamma, una musica dice il suo tono, il bisbiglio di voci vi domina legando i tavoli ai tavoli, gli uomini agli uomini. È qui che i racconti s’incontrano».
Arriva all’improvviso
Tra la paura di chi la teme
E la gioia di chi l’attende
A schiacciare il superfluo
Per cui tanto e da tanto
Ci affanniamo
Si congedò gentilmente affermando che doveva tornare alla sua scrivania e scomparve dietro le grandi ante di una doppia porta a vetri opachi, oltre la quale intravidi, solo per un istante, l’inizio di quello che poi scoprii essere un largo e lungo corridoio, corredato da diverse applique uguali a quelle della stanza dov’eravamo noi e, a differenza di quest’ultima, letteralmente illuminato a giorno. Fu in quell’istante che la mia attenzione si spostò completamente sulle altre persone presenti in sala. Nessuno di loro sembrava spazientito, nessuno sembrava aver fretta. Se ne stavano lì in perfetto silenzio ed era come se quella stasi aleggiasse nell’aria.
(Liberamente ispirato allo spettacolo Caino del Teatro Valdoca − Arena del Sole, Bologna, marzo 2012)
Nello spazio l’eco lontana
Di un’offerta rifiutata.
Resta una fronda spezzata
Una vita innocente violata
Nel vento da mano intenta
A smuovere membra
Agitare battaglie
Bagnare il tempo
Del suo stesso sangue.
“Se marzeggia, aprileggia,
son cose che svaniranno”
Carlo Betocchi, Realtà vince il sogno
I
La magia di un mattino
a gennaio, quando il gelo
immobilizza il fiato
e ghiacciano i vetri delle auto
in sosta. Dal cielo scolorito
di acciaio scende acqua
e nevischio; impigrito un uccello
o affamato
si apposta nell'erba
di un finto giardino,
imbiancato da un velo di brina.
Capitolo 2
A Bruno erano sempre piaciute quelle riunioni. Ne era diventato l’animatore. E tutti gli riconoscevano la capacità di tenere unite in perfetta armonia personalità così diverse tra loro.
A tavola si discuteva di tutto, senza alcuna regola prestabilita. Dalla prima volta a Amica Pizza eravamo passati altrove per le nostre vivaci serate attorno a una tavola. Ristoranti, pizzerie, resort, in varie parti della città, possibilmente in una saletta o un séparé per garantirci una tranquilla riservatezza rispetto agli altri avventori.
a F. G.
Avevamo gli occhi neri
Pance in fuori e visi tondi
Nelle strade corte di paese
E inciampavamo nei sogni
Dove non c’era connessione
Ma un singhiozzo di visione
Nei miei lunghi passi mi voltavo lentamente, di tanto in tanto, per ammirare quello scorcio di città per me così strano, dal momento che nella mia lunga vita non avevo mai goduto dello scenario che si svelava da quel particolare punto di vista rialzato. Ne rimasi affascinato. In lontananza alcune cupole familiari ed il monte su cui si estendeva il bosco. In realtà però, ciò che più d’ogni altra cosa mi incuriosiva, era osservare il formicolio della vita di un angolo di città così gremito ed affaccendato, anche o forse ancor di più, nelle fresche, umide ma terse sere d’inverno. Pur non offrendo la stessa vertiginosa visuale di un’alta vetta, le assicuro che è un punto di osservazione molto intrigante, quello. Anche se mi sembra di capire che lei sappia bene ciò di cui sto parlando.
Margherita, o donna Margherita, era veramente una bella signora. Lo dicevano tutti giù al porto, ne parlavano pure i pesci che a detta dei più son muti. Margherita non l'ha dimenticata nessuno, neanche ora che è sotto terra; proprio lei che voleva solo essere giù, più giù, nel profondo mare. Se ci fosse un fantasma a Procida sicuramente non sarebbe quello di Margherita. Lei non voleva disturbare nessuno, non chiedeva niente, aveva vissuto una vita zitta e muta e con un solo desiderio, che per scoprire quale fosse dovremmo scomodare lo Spirito Santo. Non domandava niente, non bussava mai alle vicine, se le mancava lo zucchero nella dispensa e l'ora era tarda per andare a comprarlo, non chiedeva mica alla signora Rosalba lì a fianco, e neppure a Lina che tanto alla fine avrebbe storto il muso e avrebbe detto di non averne.
Capitolo 1
È l’imbrunire di un venerdì qualsiasi. Sotto l’ombra cangiante del grattacielo che si erge di fronte allo stabile di quattro piani dove abito sfilano le auto, a velocità diverse ma controllate, quasi a volersi annunciare ciascuna a modo suo ai rispettivi abitanti di quella parte del quartiere che le stanno aspettando. Per lo più si tratta del rientro dal lavoro.
Monluè è l’angolo più attraente del Municipio milanese avvolto nel verde. Il parco nel quale col passare dei secoli si è sviluppato è di origini antichissime. Si vive bene qui, c’è tranquillità come in poche altre zone cittadine, sebbene quando avverti il desiderio di immergerti nel fermento di umana vitalità all’aria aperta devi portarti verso percorsi diversi.
Lei lo ha capito da tempo: l’anello debole della catena sono io. Stiamo passeggiando in quartiere in attesa di non si sa cosa.
Nel luogo in cui la salita raggiungeva la sua massima ripidità il traffico si era disperso e la folla di gente che si muoveva, forsennata, in tutte le direzioni, scendendo verso la piazza, o salendo alla volta del quartiere residenziale, si diradava fino a ridursi a pochissimi esemplari di persone, tutte assai diverse fra loro. Sulla mia destra una strada curvava sino a scomparire, su di un lato, dietro una possente ed alta parete di arginamento, costruita in pietra vulcanica. Duecentonovantanove, quella era ancora la mia destinazione e non avevo nessuna intenzione di farmene distogliere. È successo qualche anno fa, quando i cellulari non erano ancora abbastanza “intelligenti” da invadere il campo dei navigatori satellitari. Ero solo con i miei dubbi e cominciai a pensare di essermi perso nei meandri contorti di quelle strade e stradine, in una zona della città che non mi era affatto familiare. Mi ero riavvicinato a quel punto per la terza volta. Fu quello il momento in cui cominciai a spazientirmi. Ripetei i gesti che si erano già avvicendati in quel pomeriggio che era di certo freddo, ma comunque non tanto da risparmiarmi di sudare leggermente, mentre avvertivo sulla superficie della pelle, specie nei punti in cui il cappotto stringeva di più, una fastidiosa sensazione di calore.
Ines si sveglia, il soffitto che sta guardando con occhi impastati di sonno è cosparso di stelle fosforescenti. Una volta, quando era molto più piccola, credeva davvero che quella potesse eguagliare la volta celeste, un piccolo sistema solare tutto suo, con tutte le leggi dell’universo e le sue bellezze, le ristrettezze dell’infinito, le promesse che le stelle potrebbero nascondere. Era tutto vero, le pareti della sua stanza nella sua fantasia somigliavano a cascate attraverso le quali il mondo veniva filtrato e nessun tempo o spazio potevano svilire e sminuire il suo mondo pulito, incorporeo, coraggioso in modo sconveniente per un adulto che conosce le insidie della realtà.
per C. M., nato a Favara,
deceduto ad Agrigento, presso i portici di piazzale Rosselli
nel dicembre del 2017, a 71 anni
Un duplice studio, effettuato da alcuni scienziati, evidenziò un curioso paradosso. Nella prima analisi sottoposero lo stesso test di intelligenza a due individui di pari capacità intellettive, i quali vivevano in ambienti differenti, e i risultati furono altrettanto differenti.
Un percorso precluso alla conoscenza altrui nell’impenetrabile mistero della felicità. Un viaggio nel tempo. Tutto mio. Da quando ho varcato la soglia della maggiore età. Ciò che fino a oggi, trentenne di successo, mi ha permesso di non cadere nella palude di un’esistenza in qualche modo assimilabile − per dirla con la più spoglia semplicità − a un luogo comune.
A tutti quanti può capitare. Se cresci in una famiglia numerosa, intendo. Ho tre fratelli e una sorella, Norina, la più giovane di tutti con i suoi fantasiosi vent’anni. Noi maschi, oltre a me, Roberto, Adelio e Giovanni dai trenta ai quaranta.
− Così, Enrico, hai deciso di metterti a scrivere − mi dice Adelio, mentre siamo tutti a tavola. Una cena che nostra madre ha voluto organizzare in gran fretta pregandoci di lasciare a casa le rispettive mogli. Norina convive con un fotogiornalista che sta realizzando un servizio in America.
A capotavola papà, il capo chino sul piatto quasi a sfiorarlo. I nostri occhi vagolano un po’ qui un po’ là di sguincio con aria che diresti distratta, ma non è così. La tensione è palpabile.
− Non sta bene − mi soffia in un orecchio Roberto, seduto al mio fianco.