“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 10 January 2014 00:00

“L’eroe discreto” di Vargas Llosa

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Se prima del Nobel Varguito avesse scritto solo romanzi come Elogio della matrigna (1988), Avventure della ragazza cattiva (2006) o L’eroe discreto (2013), l’Accademia Svedese avrebbe dovuto modificare di sana pianta le motivazioni, che “la sua cartografia delle strutture del potere e la sua tagliente immagine della rivolta, della resistenza e della sconfitta dell'individuo” (“La guerra della fine del mondo” da solo vale tutta la motivazione), ci appizzano come cavoli a merenda, in libri di siffatta stoffa.

Una buona stoffa, naturalmente, perché Mario Vargas Llosa è un narratore accattivante, e L’eroe discreto − composto di due romanzi in uno, due storie che si alternano in modo indipendente e poi voilà, secondo i più puri canoni del romanzesco, si intersecano nel finale − è un libro tutto sommato godibile.
È la questione delle strutture del potere ad essere totalmente assente.
Sempre di sconfitte e di rivolte si narra, ma queste sono confinate nella dimensione intima, privata, sul piano che definirei “sicumera  degli affetti”.
Dunque il vero nodo del romanzo è nelle dinamiche familiari o meglio ancora generazionali e affettive (o anaffettive, che si può scegliere una vita a patella accanto ad un uomo per “espiare” le colpe, anche), ma il modo in cui vengono “risolte” o “esplicitate” resta confinato in una dimensione patinata, e fatti i debiti distinguo in ordine alla qualità, si potrebbe dire da telenovelas, con le iterazioni e ripetizioni tipiche della sceneggiatura del genere (mi ami pablo? dimmi che mi ami pablo! mi hai detto che mi ami pablo? allora mi ami pablo!).
L’eroe discreto è Felicito, proprietario di una ditta di trasporti, un uomo comune, insignificante anche nell’aspetto, minutino minutino, che fa ferro e fuoco pur di non pagare il pizzo che gli viene richiesto attraverso delle lettere firmate con il disegnino di un ragnetto.
La mafia? Un’entità mostruosa e sfuggevole, che si infiltra in tutti gli strati della società corrodendola, piagandola, oppure qualcosa di molto meno distante, che distrugge le sicurezze di una vita intera (o dà forza ai moti oscuri del cuore), e che per questo ferisce ancora di più?
Felicito viene definito nel romanzo un uomo “etico”.
Difficile dire quanto possa essere “etico” o “eroico”, seppure discreto, un uomo come Felicito.
Una brava persona, ma di quelle che non sono esenti da ottusità e meschinità – vivere anni e anni con il dubbio che…, senza mai parola proferire, tollerare una “buona moglie” che è poco più di un’ombra solo perché spende e consuma poco ed è tutta casa e chiesa, “socialmente irreprensibile”, insomma.
Alla fine, nonostante il moto di rivolta, Felicito resta quello che è sempre stato: un uomo piccolo piccolo, soprattutto nel considerare le ragioni del “sangue del proprio sangue” prevalenti su qualunque altra considerazione.
Nell’altra storia, il protagonista è Rigoberto, osservatore e testimone di un’ulteriore vicenda che determinerà lo snodo in cui convergeranno le narrazioni alternate.
È piuttosto  impressionante  ritrovare  il terzetto dell’Elogio della matrigna − Don Rigoberto, la sua consorte Lucrecia e il figliolino Fonchito − rappresentati come una famigliola mulino bianco, turbata giammai da pruriginosità ma dall’oscura figura di Edilberto Torres, che stalkerizza e inquieta il fanciullino, gettando in ambasce l’intera famiglia.
Tuttavia ogni tanto guizzano nel testo frasi che riportano alla memoria tutt’altre vicende:
− Ecco che spunta fuori il prete, Pepìn, − si indignò Rigoberto. – Vuoi dire che mio figlio potrebbe essere un angelo?
− Un angelo senza ali, però, − rideva Lucrecia, con autentica allegria e gli occhi accesi di malizia.
Non sono solo don Rigoberto & family a fare revival, ma anche Lituma, il Lituma de La Casa Verde (1966), ha una  parte nel romanzo: una funzione attiva in quanto appartenente alle forze di polizia incaricate di svolgere le indagini nel caso di Felicito, e una funzione in nostalgic mode, nella  rievocazione delle “scapestraggini” degli Invincibili.
Viene da chiedersi il perché di tante “resuscitazioni” ne L’eroe discreto, e sperando che non siano dovute ad un’impasse creativa (urca, lo scribacchino!), si attende il prossimo lavoro di Llosa, augurandosi (ma anche no) un sequel, dato che le premesse per ulteriori sviluppi ci sono tutte.


 

Mario Vargas Llosa
L'eroe discreto
traduzione di Federica Niola
Einaudi, Torino, 2013
pp. 382

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