“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 06 January 2014 00:00

“L’impero familiare delle tenebre future”: intervista con Andrea Gentile

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L’impero familiare delle tenebre future (il Saggiatore, 2012) è un’opera prima in cui un papa muore in diretta TV e una ragazza intraprende una disperata/disperante ricerca della madre e nel mezzo non accadono tante cose. È un viaggio infernale in cui corpo e mente vengono portati ai limiti.

All’autore Andrea Gentile il compito di introdurci in essa.

Dal principio è esplicitato che tutto quanto è narrato è parto di una mente, e così si impone immediatamente uno iato rispetto alla realtà. L’io narrante è una ragazza che dice di cercare la madre che a suo dire sarebbe morta. Il ‘vero’ è subissato dalla prorompente potenza visionaria di questa mente. Che rapporto ha con questo personaggio e perché lo ha scelto?
Si esercita qui l’ostinata ricerca dell’assenza, che non può che essere presenza dell’assenza, ma che in realtà è presenza della presenza dell’assenza; questo stridio doloroso, questo rimbombio stonato che pervade la vita umana, anche da fermi, anche da immobili. Qui non vi è disapprovazione del proprio agire, e non per impossibilità cognitiva, perché è lì, nel buio, nella madre, che un suono, il suono di cui sopra, quello stridio, quel rimbombio, precede la nascita dell’uomo o dell’animale, la sua venuta, per l’appunto, al buio.
La ragazza era, per il suo autore, una sorta di daga fatta di interiora, una daga utile per tentare di lambire, naturalmente e per natura endemica dell’atto della creazione, quel momento, quello stare al buio, nel momento in cui la madre, che gli uomini mette al buio, sta per tornare nel buio; quell’interstizio dietro le porte in cui collidono organico e inorganico, terra e cielo, umano e inumano, e le interiora, esserini che hanno vita e che dunque aspirano a dissiparla questa vita che vagisce.

Leggendo veniamo coinvolti in questo viaggio-ricerca definito da molti “lisergico”. Cosa rappresenta il tema del viaggio? Di solito il viaggio apporta una mutazione del personaggio che viaggia, qui invece cosa avviene?
Negli studi di G.V. Ksenofontov presso gli sciamani yakuti si esplorano le dinamiche che portano il novizio e la sua anima al lungo viaggio estatico. Subito, scalano una montagna. Appena giunti, il maestro mostra al novizio le biforcazioni del cammino dove altri sentieri salgono verso i crinali: è là che risiedono le malattie che debilitano gli uomini. Subito dopo il maestro conduce il discepolo in una casa e gli rivela come si guariscono le malattie. Inizia a nominare parti del corpo e a ogni parte del corpo citata il maestro sputa nella bocca del discepolo, il quale deve inghiottire lo sputo affinché possa riconoscere "i cammini dei malanni dell’Inferno". Finalmente, lo sciamano conduce il suo discepolo nel mondo degli spiriti celesti. Finalmente lo sciamano dispone ormai di un "corpo consacrato".
Il viaggio della protagonista dell’Impero familiare mi pare, in qualche modo, esattamente il contrario di quello compiuto dal novizio sciamano yakuti. No salita, no discesa, corpo sì, ma arrotato su se stesso. No maestro, no casa, no costume; no sogno del senso né senso del sogno; appare, al massimo, un materico ma etereo senso del senso (mi riferisco alla “Sala dei relitti fonico-visivi”). La lingua è morta. Tantomeno c’è l’innalzamento nel mondo degli spiriti, ma il cielo, i cosmi, risiedono nell’abisso profondissimo, dove vige la dittatura del ronzio di piccoli bimbi non nati, il ronzio universale del creato.

Perché la morte del papa?
Il papa è protagonista di una fine che non finisce, parlano per lui i damaschi in pura seta necessari a confezionare i paramenti sacri e parlano per lui, per esempio, le sue orecchie, cartilagine discrepata, o le sue parole, chiunque vive e crede in me non morirà in eterno.

Mi piace la formula utilizzata da Giorgio Vasta per il suo libro (e, nello stesso articolo, per quello di altri: http://www.minimaetmoralia.it/wp/le-scritture-che-traboccano/): “le scritture che traboccano”. Quale scelta di linguaggio ha fatto? Quali scrittori della tradizione letteraria sente a lei vicino? A me, ad esempio, è sovvenuto Guido Morselli.
Il libro, nella sua natura e nelle sue intenzioni, andava a collocarsi in una sorta di asse ideale, intriso di humani generis, costituito da La passione secondo G.H. di Clarice Lispector e, per l’appunto, Dissipatio H.G. di Guido Morselli.
Per quanto riguarda la scelta di linguaggio, non posso che richiamare a ciò che ha scritto il poeta Andrea Ponso (http://www.giugenna.com/2012/10/22/ponso-su-limpero-familiare-di-gentile/), in particolare, in riferimento alla lingua, quando egli parla di “una sorta di alfabeto morse, un continuo sussulto come di chi procede a tentoni come la registrazione del respiro sempre più flebile e intralciato di papa R”.

Crede che la letteratura possa oggi rappresentare la Realtà? Mi perdoni la banalità: cosa significa per lei scrivere oggi? Perché farlo?
Per dirla in breve, credo la letteratura debba ingenerare cortocircuiti, addensare significati, esondare, anche dire “dire” quando non si dice, scavare dentro l’autentico umano, inumano, de-rappresentare, apparire alla Madonna.


 

 

 

 

 

 

Andrea Gentile
L’impero familiare delle tenebre future
il Saggiatore, Milano, 2012
pp. 168


N.B.: la foto di copertina è di Rita Gianquinto

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