“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 29 December 2013 00:00

Uomini vs. animali: “La terra del sacerdote” di Piccirillo

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Incipit:
“A farle la guardia ci sono due oche selvatiche. Hanno gli occhi rossi.
Quando il sole se ne va la vecchia le libera, e loro sanno che devono sorvegliare il pollaio. A ogni movimento sospetto devono gridare e poi attaccare. Allungano il collo − hanno il collo muscoloso −, e quando mordono il loro becco taglia”.
Paolo Piccirillo, a tre anni dall’esordio (Zoo col semaforo, Nutrimenti, 2010), riparte dagli animali. Se allora essi assurgevano a protagonisti interrompendo il filo della narrazione con le loro storie un po’ tristi e un po’ surreali, qui invece si palesano di meno seppur, come vedremo, portatori di senso.

Si comincia con una donna che uccide le due oche che la sorvegliano e scappa dalla terra di due vecchi contadini che la tenevano prigioniera.
Questa donna si chiama Flori, è una ucraina sfruttata per produrre bambini, infatti è incinta e in seguito partorisce un bambino morto nella terra del sacerdote.
Il sacerdote si chiama Agapito, la sua terra è nel molisano, ha una moglie malata di cancro con la quale non ha potuto avere figli. Agapito ha lavorato in Germania ed è stato sacerdote, poi è tornato spretato e con un segreto di violenze che gli ha fruttato quella terra.
Il sacerdote accoglie Flori e da quel momento la sua terra diventa florida.
Poi si presentano i criminali e la terra cambia nuovamente volto, perdendo il suo rigoglio.
In parallelo a questa storia l’autore racconta le vicende che hanno costretto Agapito ad abbandonare la Germania per tornare in Molise.
Le due storie, infine, si intrecciano.
Lo stile della narrazione è a tratti crudo a tratti poetico, con dialoghi in dialetto molisano e in tedesco. C’è una violenza mal repressa che impregna la terra molisana e chi la calca: i personaggi sono rudi e asprigni, si sanno odiare e trattare con freddezza, non si sanno amare, e il gelo resiste sempre, elemento incontrovertibile, anche lì dove i piedi di due vecchi si toccano, con sentimento:
“Gigino e sua moglie hanno anche loro un gesto d’affetto. Ma non lo sanno perché non possono sentirlo.
Perché ha a che fare con i calli sotto ai talloni. Hanno entrambi i piedi pieni di calli, calli così duri che sembrano marmo. E a volte, prima di chiudere gli occhi nel letto, la moglie col suo tallone calloso sfiora quello altrettanto duro del marito.
Altre invece è Gigino a farlo, dipende da chi quella notte ha il petto vuoto.
Si amano così, ma non sentono nulla. Solo l’intenzione del gesto”.
(p. 189)
I confini tra bene e male sono labili e il protagonista, Agapito, è l’emblema dell’inutilità di definire dei limiti morali. Il sacerdote ha fatto quanto di più condannabile eppure, ciò nonostante, si parteggia per lui, accompagnandolo nella sua fuga da chi vuole ucciderlo, lasciandosi toccare dal saluto alla moglie malata. Non ci sono né buoni né cattivi, ma un’umanità gretta, legata ai bisogni primari, imbestialita.
E qui ritorna il segno “animale” che sembra essere una peculiarità della poetica di Piccirillo.
Agapito fugge con Flori e con la moglie, lungo il fiume, e il paesaggio è costeggiato da cadaveri di animali di specie diversa, uomo incluso. In questo scenario di desolazione e morte la donna partorisce, e dopo il parto sanguinolento, l’autore indugia sulla descrizione di un airone che cerca da mangiare per i figli.
Uomini ed animali sono distanti: il rapporto di alterità sembra qui raggiungere il parossismo. C’è una difficoltà, da parte dell’uomo, a riconoscere gli animali; questi rendono il luogo una bolgia infernale, cupa, tremenda, contorcendosi quando non sono morti. È qui che assistiamo alla nascita, una scena edenica in cui il sangue della donna assume una valenza biblica, quasi a voler suggellare un nuovo patto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e il creatore, e non a caso dopo la nascita l’autore ci descrive un airone che accudisce la sua famiglia (proprio un airone cenerino come nel racconto di Bassani, e anche lì il protagonista intraprendeva un viaggio negli inferi, anche lì c’era il delirio): l’airone, come dice Cristina Ubaldini in riferimento all’opera di Bassani (La misura e la Trasformazione nell’Airone di Giorgio Bassani, ovvero la morte contro la Morte, in Sincronie. Rivista di Letterature, Teatro e sistemi di pensiero, Vecchiarelli Editore, anno XIII, fascicoli 25-26, gennaio-dicembre 2009, p. 229), ha una sua valenza simbolica, esso rappresenta l’eterna Trasformazione e la ciclica alternanza di nascita e morte. E tuttavia il patto non viene suggellato, perché l’airone non riconosce l’essere umano; torna a frapporsi una distanza abissale tra l’uomo e la bestia, una distanza oramai incolmabile, e qui la visione del mondo di Piccirillo, in consonanza con in tempi attuali, si rivela apocalittica, e la chiosa del capitolo ne è l’emblema:
“L’airone arriva a un centimetro, sfiora l’essere umano col becco, cattura tutti i vermi che può catturare, anche quelli che si stanno per infilare tra i capelli biondi. L’airone cammina addirittura sopra l’essere umano. È rigido come una pietra.
Porta tutti i vermi che può ai suoi figli. I piccoli mangiano e crescono, e l’airone è contento, perché almeno per ora è l’unico a conoscere questo cadavere di essere umano.
È contento per i suoi figli, mentre il cielo si accoltella di lampi profondi e tuoni come di fucili. La pioggia inizia a cadere. Sangue di un’aria finalmente morta, di una ferita enorme. Come se cavassero gli occhi al padre eterno.”
(pp. 207-8)
Per una tale rappresentazione del segno “animale” ricordiamo il passo di un testo di Luciano Parinetto (Saggio introduttivo a Massimo Centini, Le bestie del diavolo. Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, 1998, pp. 33-4):
“Il progresso è il progresso della ratio capitalistica, che adesso si trova di fronte al ritorno del rimosso: se prima l’animale era l’altro dall’uomo e l’uomo imbestiato era il non-uomo, il pazzo, adesso, mentre il mondo e la natura sono sempre più appendici della ratio, ecco che l’animalità riemerge come Eden perduto, cui si deve tornare, se non si vuole impazzire. Troppo tardi ormai: il mercato mondiale, unigenito della ratio, ha ingoiato animali e natura e, quando non li ha distrutti, li ha ridotti a propria immagine e somiglianza, a oggetti vendibili, ad aborto, come aborto è il suo uomo; la follia, quella che fa, alle soglie del disfacimento anche del mercato mondiale (che per essere tale non può più espandersi ed ha la propria morte dentro), dell’animale e dell’intera natura un non-uomo, dilaga. Quando tutto diventa multinazionali, borsa, banche, oligopoli, e si presenta col pesante marchio di un ineluttabile destino, che senso ha più parlare di una felicità ‘naturale’, di una tranquillità ‘animale’? Il capitale e la sua ratio sono ormai saliti sul Narrenschyff e vanno alla deriva: soli”.


 

 

 

Paolo Piccirillo
La terra del sacerdote
Neri Pozza, Vicenza, 2013
pp. 232

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