“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 27 December 2013 00:00

Verso l’inferno a piccoli “Passi”

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Leggere Passi è un’esperienza che sotto certi aspetti può ricordare ‘mosca cieca’, quel gioco creato al solo scopo di disorientare e terrorizzare: bendati in una stanza in cui venivano, per un eccesso di perizia, oscurate finestre e luci, ti facevano girare su te stesso, le mani più che guidare spingevano in un vortice e quando tutto per te si faceva incerto venivi lasciato, nel terrore.

In questa lettura ci si muove con i passettini incerti di un bambino che impara a camminare senza che nessuno gli abbia spiegato come fare e nel momento in cui, sopraffatti, ci si arrende rinunciando a carpirne il senso, perché non c’è nessun filo logico in tuo soccorso, ecco che l’incantesimo di questi racconti si sprigiona e l’inconscio intuisce là dove la ragione si è fermata. D’altra parte è noto che gli schemi del disordine sono molto più accattivanti e stimolanti di quelli dell’ordine e vanno a stimolare parti del cervello che non hanno niente a che fare con i percorsi della ragione ma che si rivelano l’unica bussola quando si tratta di affrontare i mari neri e sconfinati dell’animo umano.
Pubblicata nel 1968, Passi è una raccolta di racconti legati da un filo anomico. Frattali di storie al limite del lisergico, tanto simili agli inconsistenti pensieri di un dormiveglia febbrile: un baluginare di riflessioni, ricordi, confessioni inconfessabili apparentemente disconnessi tra loro perché viaggiano su binari paralleli, il tutto probabilmente riconducibile a personaggi diversi dato che un simile miasmatico tugurio è assolutamente inadatto ad ospitare lo spirito di un solo uomo che, difficilmente, può aver vissuto la dominazione e il controllo di un regime totalitario socialista, gli orrori dei campi di concentramento e, allo stesso tempo, essere intrappolato tra le più infime pieghe dei regimi capitalisti.
In questo libro ci sono cose tipo queste:
− maestri di sci che si nutrono degli ultimi afflati di vita ancora presenti nei corpi di donne morenti e come vampiri suggono le ultime gocce di linfa;
− uomini impotenti che riescono a trovare un riscatto virile solo con le prostitute;
− contorsioniste circensi che soddisfano oniriche fantasie erotiche, praticamente irrealizzabili, vincendo tutte le leggi della fisica;
− giochi tra uomini sotto le armi che saldano amicizie, odi e vendette;
− storie di diserzioni e anomali saluti alla bandiera;
− fotografi che cercano disperatamente di raggiungere la serenità e la pace in vecchiaia;
− ambienti rurali in cui oltre ai campi si insegna a coltivare l’odio col concime della vendetta e infine, a raccolto maturo, a calare la falce della morte senza pietà alcuna, e in cui per anni un intero villaggio di contadini buoni cristiani e buoni padri di famiglia tortura, stupra e riduce in schiavitù una donna pazza e malata, con la benedizione di un pastore in pace con il suo spirito e la sua coscienza;
− un custode del cimitero con un trascorso da pugile che, grazie alla sua abilità nel combattere, ha potuto sopravvivere al campo di concentramento trascinandosi appresso il fardello di non aver potuto salvare nessuno;
− il sogno di un uomo che vorrebbe la pelle di un nero per abbandonare il giorno, fratello dei suoi nemici, e dare il benvenuto alla notte “sorella della mia pelle e cugina della mia ombra”. Vuole scacciare da sé l’immagine di ciò che è stato, rinunciando a tutto per inseguire una libertà che si ottiene solo quando non c’è più nulla da rimpiangere e nulla da sperare, bandendo ogni sogno di accumulo di cose da possedere, usare e consumare, cancellando così ogni idea di fallimento grazie alla mancanza di ogni misura del successo.
Forse i protagonisti di queste storie sono tanti uomini diversi, forse lo stesso Uomo, forse l’autore stesso (Kosinski è stato prima un ebreo polacco sotto il regime sovietico, poi ha avuto un’infanzia segnata dalla persecuzione nazista nella Polonia occupata e, infine, è diventato un immigrato americano; oltre a coltivare la scrittura è stato un appassionato di fotografia, un giocatore di polo e un provetto sciatore): difficile stabilirlo, ma se questa terza ipotesi fosse esatta, il libro potrebbe essere letto come un biglietto con su scritto ‘Aiuto’ inserito in una bottiglia fluttuante.
Questi racconti dal contenuto particolarmente crudo e scabro si fregiano di una forma sorprendentemente elegante e essenziale, di una purezza adamantina: Kosinski usa una sintassi schietta e fluida a cui evita volutamente di aggiungere sovraccarichi letterari e di infierire con un uso del gergo di stampo drammaturgico, ottenendo in tal modo di arricchire per difetto e di irradiare di solennità l’intera opera. Come nei documentari sugli orrori di qualche genocidio e nelle peggiori diagnosi mediche, il nitore della forma contrasta e dà maggior risalto all’orrore della sostanza, dato che il tono asettico di certi linguaggi nati per tranquillizzare riesce sempre ad annullare l’intento primario.
In questo caso, il risultato è del tutto intenzionale: Kosinski non aveva nessuna intenzione di tranquillizzarci.


 

 

Jerzy Kosinski
Passi
(1968)
traduzione di Vincenzo Mantovani
Roma, Elliot, 2013
pp. 160

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