“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 November 2013 01:00

Bouvardò e Pécuchettò. Flaubert ti voglio bene però ora no

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Il romanzo incompiuto di Gustave Flaubert racconta di due tizi di mezza età, Bouvard e Pécuchet, che s’incontrano casualmente in un parco e, seduti alla stessa panchina, si accorgono che entrambi hanno scritto il proprio nome nel cappello.
Quale affinità di pensiero! (anche dove lavoro io, data l’abbondanza di ombrelli Ikea tutti uguali, si è ricorso alla penna per segnare il nome del proprietario sulla fettuccia).

Nasce un feeling, si frequentano, si scambiano visite di cortesia e, complice una cospicua eredità caduta sul groppone di uno dei due, decidono di comprare un podere e di ritirarsi in campagna, che la vita parigina li ha un tantinello stufati.
E qui comincia la loro avventura: di palo in frasca si improvvisano (che non basta mica leggere anche una decina di manuali disciplinari, a cui diligentemente fanno ricorso) agronomi, massai, chimici, astronomi, geologi, archeologi, collezionisti di cianfrusaglie, linguisti, grammatici, storici, politici, rabdomanti, filosofi, oratori, amatori, ginnasti e salutisti, educatori e pedagoghi. S’appassionano ad un campo di ricerca o del sapere, ad una disciplina, tentano di applicarla, di farla propria, di eviscerarla, di scandagliarla nei minimi anfratti, ma falliscono miserevolmente. Senza perdersi d’animo riprovano con altro, in un moto che non finisce manco con il libro, essendo esso stesso incompiuto (e la fine sarebbe stata un moto incessante di scopiazzature).
“Qual è il fine di tutto ciò?”
“E se non ci fosse alcun fine?”
“Eppure!” e Pécuchet ripeté due o tre volte 'eppure' senza trovare nulla da aggiungere.
Un’estenuante, ma proprio estenuante ricerca di senso e di verità che li conduce persino sull’orlo del suicidio (ma l’afflato religioso dello spirito del Natale li distoglie, facendoli per breve tratto dedicare alla religione, e però pure questa, al pari di tutte le altre scienze e filosofie, al banco di prova dell’indagine ossessiva e compulsiva, si rivela incapace di soddisfare la sete di verità assoluta e inoppugnabile di Totò e Peppino, no, pardon, di Bouvard e Pécuchet).
Il manoscritto di Flaubert si interrompe allorquando i due protagonisti, falliti i tentativi di educare i due orfanelli avuti in custodia (che lombrosianamente conservano in modo irreversibile le tracce delle loro radici, figli di delinquenti e come tali destinati a perseverare nel male), decidono di educare gli adulti.
La nipote dello scrittore ha aggiunto degli appunti che “rivelano” il piano dell’opera, le cui righe finali così recitano:
“Che dobbiamo farne?” – “Niente riflessioni! Niente riflessioni! Copiamo! Bisogna che la pagina si riempia. Che il ‘monumento’ si compia… uguaglianza di tutto, del bene e del male, del bello e del brutto, dell’insignificante e del caratteristico. C’è verità solo nei fenomeni”.
Finire con la visione dei due buonomini chini sul loro scrittorio, e che copiano”.
Su questo finale appena accennato, i critici si sono arricreati proprio, come ha fatto Franco Rella nell’introduzione e come riporta la quarta di copertina:
"Destrutturano il sapere del secolo, e forse, nella decisione finale di copiare qualsiasi cosa, svelano l’insignificanza anche dell’ultima illusione flaubertiana, la scrittura quale mezzo per dare un senso alle cose.”
(la copia è la risorsa unica di chi non ha pensiero proprio)
È un libro che avrei trovato interessantissimo se l’avessi letto una vita fa, quando ancora era vivo e vegeto un certo scrupolo accademico (una proposta di tesi di laurea su B e P, uammamà!, e quanta trippa!). 
Ma ne è passata di acqua sotto i ponti, e dopo le prime ottanta pagine l’estenuanza (lo so, non esiste 'sta parola, embè?) ha avuto il sopravvento, e poco divertenti mi sono sembrate le goffaggini, le ingenuità, le incornature, gli sfottò e l’enorme ammasso di riferimenti a filosofi, scrittori e compagnia cantando.
Tutto per niente.
Le appendici, Dizionario dei luoghi comuni, Catalogo delle idee chic (della misura di pagina una), e Sciocchezzaio, dopo aver dato una breve occhiata(ccia), almeno quelle, le ho bellamente trascurate.
Ecco le voci su cui è caduto in modo del tutto casuale lo sguardo:

63.(1542, Perle)
Perle della natura.
Si sono visti feti perfettamente acefali che hanno vissuto parecchie ore, e che sollecitati dall'introduzione tra le loro labbra del capezzolo di una nutrice hanno esercitato i movimenti della suzione e della deglutizione!
(Buchez, Introduction à l'étude des Sciences médicales, p.121) 63.
(dallo Sciocchezzaio)

Acqua.
L’acqua di Parigi fa venire le coliche.
L’acqua di mare sostiene meglio quando si nuota.
L’acqua di Colonia è profumata, quella di Parigi puzza.
(Da Dizionario dei luoghi comuni)


 

Gustave Flaubert
Bouvard e Pécuchet
(1881)
a cura di Franco Rella
Feltrinelli, Milano, 1998
pp. 376

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