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Saturday, 23 November 2013 01:00

Robert Walser. Il paziente confessa di sentire voci

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“Il singhiozzo è la melodia del bisbiglio walseriano. Ci rivela la provenienza dei suoi soggetti preferiti. La follia e nessun altro luogo. Sono personaggi che hanno attraversato la follia e per questo rimangono di una superficialità straziante, completamente disumana, imperturbabile. Se volessimo definire in una parola quello che hanno di divertente e terribile, potremmo dire: sono tutti guariti. Chiaramente non sapremo mai quale sia stato il procedimento della cura, a meno che ci si avventuri nella sua Biancaneve”.
(Walter Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929)

 

“Oh notte, coperta dal tuo manto di luna : neve, ancora neve?”
http://www.youtube.com/watch?v=83s-OcwMSoc

Un film senza immagini. Qualche nuvola qua e là a interrompere la lunga sequenza di uno schermo nero. Voci narranti. Non importa neppure quello che dicono: come nella vita i personaggi ripresi da Walser là dove finisce la favola dei fratelli Grimm si prendono gioco anche della leggenda. Biancaneve non ha chiesto di essere svegliata. Il bacio del principe è una violenza. Esattamente come nessuno di noi ha chiesto di vivere, così Biancaneve si ritrova in balia di una sorte che non ha deciso. Il principe, la matrigna, il cacciatore, i nani, tutti comparse di un fato non voluto né cercato in cui tutti si arrogano il diritto di essere i padroni del suo destino. Per Biancaneve c’è una sola possibilità di scelta, quella che le impongono: essere felice. Ma a quale prezzo? Quel poco che rimane quando si matura la coscienza di non poter costruire.
Robert Walser ci dice che la vita va letta dalla fine come in un libro a ritroso di cui è impossibile altrimenti trovare un filo narrativo. Ed è seguendo la sua logica che João César Monteiro, il regista di questo splendido Branca de Neve, ce lo mostra all’inizio proprio nell’istante della morte. È il pomeriggio del 25 dicembre 1956 quando, durante una delle sue abituali e solitarie passeggiate attorno alla cittadina di Harisau, nel cantone svizzero di Appenzell in cui era nato nel 1878,  Robert Walser si accascia sulla neve per non rialzarsi mai più. Sul viso rivolto al cielo una specie di sorriso. Il corpo scuro adagiato in quel biancore simile a un esile segno di matita, quegli stessi segni che hanno composto la scrittura dei suoi fantastici “microgrammi”, fogli e fogli fittamente scritti dopo una crisi e una totale “avversione per la penna” in uno scrivere a matita “in modo più sognante, più calmo, più lento, più contemplativo”. La sua morte perfettamente intonata alla sua vita. Neppure narrandone Walser avrebbe saputo fare di meglio.

“Se io andrò in pezzi e in malora, che cosa si romperà , che cosa si perderà  ? Uno zero. Io, come singolo individuo, sono uno zero”.
(Robert Walser, Jacob von Gunten. Un diario)

Robert Walser è tutto nella sua scrittura. Frammentaria, sparsa in innumerevoli pezzetti di carta, minuta e quasi inintelligibile ad occhio estraneo. Raccogliere e mettere insieme queste parole scritte a matita, forse già con la speranza di vederle scomparire come avrebbe voluto il suo autore, non è semplice per nessuno. Bernhard Echte e Walter Morlang hanno dedicato venti anni della loro vita a decifrarle: il risultato è in quattro tomi di 4.000 pagine. C’è un’intimità che spranga le porte alla curiosità di chi legge. C’è una sofferenza muta che non chiede ascolto e neppure esistenza. Per chi scriveva Robert Walser, quest’uomo che non voleva esistere ma non sapeva ancora morire, forse non lo sapremo mai.
Enigma minimalista come tutta la sua vita trascorsa in stanze ammobiliate da poco e di niente, tutto così piccolo, tutto così sempre in procinto di annullarsi in un soffio, una esistenza fatta di giorni che se ne vanno l’uno dopo l’altro senza lasciare traccia nella facciata dell’anonimato più assoluto mentre dentro, nell’intimo, è tutto un lungo discorso con se stesso, con il mondo, con la natura, che mai per un istante è venuto meno. Raccontarsi nel raccontare. Qual è l’universo segreto di Robert Walser?
“Percorro un cammino / che conduce vicino. / Mi riporta a me stesso, e / senza parole o emozioni / mi ritrovo finito” scrisse a vent’anni. E ancora leggiamo, in un racconto postumo, “So di essere un romanziere artigiano. Quando ho la vena giusta, taglio, cucio, plasmo, limo, picchio, martello, inchiodo e raccolgo frasi che si capiscono subito… A mio avviso le mie prose non sono altro che pezzetti di una lunga storia, realista senza azione. Un romanzo che non smetto di scrivere, che resta sempre lo stesso e che dovrebbe poter essere definito una storia dell’io abbondantemente frammentata o lacerata”.
Ma chi è veramente Robert Walser? si può davvero considerarlo fra quelli che hanno condiviso il proprio destino con il nulla?
Tutta la vita di Robert Walser è stata una continua ricerca dell’essere niente e del non appartenere che al niente. Scrivere è, per lui, “un lavoro come un altro” che non lo mette al di sopra del resto del mondo né gli fa desiderare di apparire o di partecipare alle varie congreghe di intellettuali in cui unico scopo è mettersi al centro dell’attenzione e parlarsi addosso. Walser non vuole che gli sia riconosciuto nulla perché la scrittura è, per lui, una forma di vivere che unita al respirare e al passeggiare compongono il ritratto di quella che dovrebbe essere un’esistenza perfetta dove non si appare, non si è in vista, non esiste nessun obbligo di condivisione e di riconoscersi in qualcuno e qualcosa, dove ogni momento è il momento giusto per sparire, con grazia e leggerezza, ed essere nulla. Questo scrittore viandante ha trascorso la sua esistenza percorrendo a piedi da un capo all’altro il suo paese, spesso in lunghe marce notturne, con l’unica compagnia dei suoi pensieri e della sua Ombra. In lui l’errare senza scopo raggiunge vette di misticismo assoluto: una Wanderung, la sua, che ha la lunghezza della sua stessa vita e che si interromperà solo con la morte che verrà a coglierlo proprio durante una passeggiata suggellandone il destino.
“Ma io non ho nulla, non posso nulla, non possiedo disgraziatamente nulla, e nell’immensità del mondo non sono che un uomo povero, debole e impotente” scrive in una prosa breve. Eppure i suoi personaggi non risentono della pesantezza di un’esistenza che tarpa loro le ali, sono indolenti girovaghi, errabondi vagabondi perdigiorno, anime liete di muoversi nella natura di meravigliarsi della sua bellezza e sentirsi un tutt’uno con l’universo. Nessuno di loro porta addosso il peso della responsabilità di dover dimostrare di esistere attraverso grandi azioni, ognuno di loro ha, semmai, compreso l’arte di nascondere il proprio valore e il proprio intelletto. Timidi e gentili “idioti” il cui compito è quello di servire e mettere in opera un insegnamento fatto di pazienza e ubbidienza.

“Nell’idea di imbecillità  traspare in modo molto preciso un raggio di bellezza e bontà, un che di indicibilmente fine, qualcosa che soprattutto i più intelligenti hanno ardentemente ricercato e cercheranno sempre… Rendersi più stupidi e ignoranti di quanto non si sia è un’arte, una raffinatezza che riesce solo a pochi”.
(da una lettera a Max Rychner)

La teoria della servitù sarà una costante della sua esistenza e lo definirà in un ruolo, quello dell’inserviente, che per Walser rappresenta la realizzazione esistenziale migliore.
“Quelli che obbediscono sono per lo più la copia perfetta di quelli che comandano. Un servo non può far altro che appropriarsi delle espressioni e dei modi di fare del suo padrone, per tramandarli, diciamo, nella loro schiettezza”.
In Jacob von Gunten, romanzo di formazione scritto come un diario, si gettano le basi per il modus vivendi che ne racchiuderà la vita stessa: non porsi troppe domande, non assumersi la responsabilità di nessuna scelta, annullarsi in una disciplina, rappresentano per Walser la via migliore per essere liberi e non sentirsi gravati dal peso di nulla. È proprio la rinuncia ad essere qualsiasi cosa e l’ubbidienza alla legge imposta il primo stimolo verso la libertà: “Proprio per questo amo così profondamente ogni sorta di costrizione: perché dà modo di assaporare la gioia di violare la legge. Se al mondo non ci fosse nessun comandamento, nessun precetto, morirei, mi consumerei, diventerei storpio dalla noia. Io non posso che essere incitato, costretto, tenuto sotto tutela: è questo che mi piace” fa dire a Jacob. Chi serve accetta di non essere, la sua ambizione si rivolge al nulla e in questo, e solo in questo, è possibile il senso di una completa libertà.
Walser non si ferma alla semplice teoria ma vi conforma se stesso e la sua vita: cercherà sempre e solo ruoli subalterni e, seguendo anche un corso specializzato, riuscirà a realizzare pienamente il suo sogno facendosi assumere come domestico in un castello della Slesia. Remissivo, ubbidiente, passivo, viene da immaginarlo come un altro dei suoi personaggi, un commesso bancario, che Walser così descrive: “forse è troppo banale, troppo innocente, troppo poco pallido e deperito, troppo poco interessante”. Ma cosa c’è di più sconvolgente di un domestico che ha scelto di farlo e che è felice di farlo?
Eppure Walser non è stato, al di là delle apparenze, un isolato.
Nasce il 15 aprile 1978 a Biel, cantone di Berna, da un commerciante dell’Appenzell e da una casalinga dell’Emmental, penultimo di otto tra fratelli e sorelle. Problemi economici impediscono alla famiglia di fargli terminare gli studi, e su tutto pesa l’instabilità emotiva di una madre “assente” che muore nel 1894, dopo molti anni di cure, quando lui è ancora poco più di un’adolescente. I problemi psichici saranno una costante nella sua esistenza: un fratello, Ernst, morirà  dopo un periodo di malattia mentale nella casa di cura di Waldau, un altro, Hermann, morirà suicida, lui stesso, sofferente di crisi d’ansia e di allucinazioni, accetterà di farsi ricoverare nella clinica Waldau di Berna. Nelle cartelle mediche scriveranno: Il paziente confessa di sentire voci. “Dicono qualcosa tutto il tempo”, si legge pure in una sua cartella clinica, pubblicata dalla rivista “Marka”. In un’altra risponde a chi gli chiede se riesca a interessarsi di problemi: “Mi è del tutto impossibile, devo occuparmi principalmente delle mie voci”.
Le voci di Walser non sono però le voci di Pessoa. Non lo invitano a scrivere, non condividono con lui altre esistenze, non lo aiutano a sublimare il malessere psichico attraverso l’arte e la poesia, non gli regalano eteronimi attraverso i quali salvarsi dalla schizofrenia. Pur condividendo con il grande scrittore portoghese l’assoluta certezza di una vita priva di senso e di significato e una quotidianità fatta di piccole banalità senza spessore alcuno (lo stesso Walser fu anche lui, fra le altre occupazioni, impiegato in un ufficio commerciale e uno dei primi scrittori tedeschi a introdurre nella letteratura la vita dei lavoratori salariati) le similitudini fra Walser e Pessoa si fermano qui, e dove per Pessoa la scrittura e la poesia sono vitali fino all’ultimo giorno in Walser, al contrario, subiscono un vero e proprio tracollo al punto tale da scomparire del tutto nei suoi ultimi anni di vita. Walser smette di scrivere. Perché?
“A quel tempo ho fatto qualche malaccorto tentativo di suicidio. Ma non sono neppure riuscito ad annodare la corda in modo corretto. Alla fine mia sorella Lisa mi ha portato a Waldau alla casa di cura. Fin davanti al portale d’ingresso le ho chiesto: facciamo davvero ciò che conviene? Il suo silenzio fu molto esplicito.”
È il gennaio del 1929 quando Walser, ormai ossessionato dalle sue voci, si lascia convincere dalla sorella Lisa e volontariamente chiede di essere ricoverato nella clinica Waldau di Berna, in quel manicomio che una volta Elias Canetti definì “il convento dell’età moderna”, l’unico luogo in cui si è esentati dalla lotta per l’esistenza. Durante la permanenza nella casa di cura le sue condizioni sembrano migliorare tanto da permettergli di scrivere e pubblicare. Ma questo “stato di grazia” viene di colpo a mancare quando, nel 1933, è trasferito contro la sua volontà al sanatorio di Herisau nel suo cantone di origine dell’Appenzello Esterno, dove rimarrà per il resto della sua vita. Da quella data Robert Walser smette di scrivere. Qualcosa dentro di lui si è irrimediabilmente spezzato: nell’enigma che è stata la sua esistenza questo silenzio ne è certamente il più grande.


Faccio la mia passeggiata
essa mi porta un poco lontano
e a casa; poi, in silenzio e senza
parole, mi ritrovo in disparte
(Robert Walser, In disparte, in Poesie)

ed è proprio a Herisau che Carl Seelig, critico letterario suo ammiratore che, dopo la morte del fratello Karl, avvenuta nel 1943, e della sorella Lisa, nel 1944, ne sarà anche tutore, lo incontra per la prima volta. Insieme faranno lunghissime passeggiate nei luoghi intorno, insieme parleranno di vita e di scrittura. Quelle passeggiate saranno molto di più di semplici ore spese all’aria aperta, Seelig stesso riconoscerà che  “il destino di noi due è di andare a passeggio” e quando gli dirà che la sua opera sarebbe durata nel tempo Walser risponderà che è uno zero e tale vuole restare per sempre. Lui, uno fra i tanti, è riuscito nel compimento del suo destino: scomparire. Essere nulla. Forse è da questa consapevolezza che nasce il sorriso che segnerà la sua morte guardando il cielo.
Di quelle passeggiate Carl Seelig scriverà un libro, Passeggiate con Robert Walser, libro che ci restituisce un Walser in tutta la sua intensità emotiva, i suoi sbalzi di umore, le sue collere, il suo sguardo lucido sulla realtà del mondo. Se Il folle è un malato, “l’idiota” che Walser rappresenta è colui che è uscito dalla malattia e nella chiarezza interiore non può più tornare indietro. Tutti i ponti sono stati tagliati e lui cammina sull’abisso conoscendolo. Come i suoi personaggi, “con una qualche luce di gioia negli occhi” direbbe Walter Benjamin, Walser viene dalla notte: “Io sono uomo solo per strada, nel bosco e nei campi, nell’osteria e nella mia stanza”. Irrimediabilmente.
Solo come quel 25 dicembre 1956 quando, in un pomeriggio di neve e silenzio, esce come al solito per non tornare più.

 

“E così la florida vita, tutti i bei colori allegri, ogni gioia di vivere e umano significato, l’amicizia, la famiglia e la donna amata, l’aria dolce e piena di lieti, felici pensieri, le case paterne e materne, le care strade note, la luna e il sole alto e gli occhi e i cuori degli uomini, tutto un giorno dovrà scomparire e morire”.

“Siamo vissuti con l’opera di questo poeta e lo credevamo già scomparso da questo mondo”.
(dal “Neue Zürcher Zeitung” del 29 dicembre 1956)

e nell’ultima scena di Branca de neve sulle labbra di João César Monteiro che si muovono in perfetto silenzio leggiamo “È tutto finito”:
http://www.youtube.com/watch?v=JtinNPs_PSw&feature=youtu.be


 

 

Robert Walser
Jacob von Gunten.
Un diario
traduzione di E. Castellani
Adelphi, Milano, 1992
pp. 191

Robert Walser
Poesie
traduzione di Antonio Rossi
Casagrande, Bellinzona (Svizzera), 2000
pp. 105

Carl Seelig
Passeggiate con Robert Walser
a cura di E. Castellani
Adelphi, Milano, 1981
pp. 222

Walter Benjamin
Ombre corte. Scritti (1928-1929)
a cura di Giorgio Agamben
Einaudi, Torino, 1993
pp. 641

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