“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 11 October 2013 02:00

Moravia: occhio sul branco

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Alberto Moravia circoscrive il genere racconto con semplicità, ponendolo in contrapposizione al romanzo. A differenziarli sarebbero l’impianto o struttura della narrazione, ma soprattutto la presenza o meno di ideologia. Ne scrive nel 1958, quando è all’apice della sua carriera:
“Il racconto dunque si distingue di fronte al romanzo per le seguenti ragioni: personaggi non ideologici, visti di scorcio o di infilata secondo la necessità di un’azione limitata nel tempo e nel luogo; intreccio il più semplice possibile (fino a scomparire in certi racconti che poi sono dei poemi in prosa) e comunque sempre un intreccio che tragga la sua complessità dalla vita e non dall’orchestrazione di un’ideologia purchessia; psicologia in funzione dei fatti e non delle idee; procedimenti tecnici tutti intesi a dare in sintesi ciò che nel romanzo richiede lunghe e distese analisi” (L’uomo come fine, p. 165).
Delitto al circolo di tennis è uno dei primi racconti scritti. È datato 1927, Moravia ha appena vent’anni, due anni dopo si imporrà con uno dei romanzi più importanti del Novecento: Gli indifferenti.

È un racconto crudele. Un gruppo di giovani di “quella classe comunemente chiamata grossa borghesia” organizza una festa, prende di mira una donna brutta, vecchia e sola, la fa ubriacare, la costringe a spogliarsi e poi, allorquando lei − che sino ad allora s’era lasciata andare − ha un sussulto d’orgoglio, giunge all’assassinio. È il branco a uccidere, apparentemente.
Moravia descrive il tutto con la sua consueta asciuttezza, senza indugiare su inutili orpelli, senza sovraccaricare di pathos gli eventi; il suo è uno sguardo esterno, gelido quasi, di chi non si lascia impressionare facilmente. La distanza che tiene dagli eventi non fa che corroborare l’impressione di trovarsi dinanzi a uno schermo, dietro al quale avviene l’azione violenta, e si può provare solo fastidio, da quest’altra parte, perché Moravia, pare, non vuole coinvolgerci. Non ci rende partecipi, né tantomeno complici, ma solo passivi spettatori. Questa attenzione allo sguardo è acutamente sottolineata da Tommaso Pincio, che considera Moravia “il più romanziere fra gli scrittori italiani del XX secolo”:
“In buona sostanza Moravia sapeva una cosa. Sapeva che le pagine di un romanzo non sono scritte per le orecchie ma per gli occhi; sapeva che è con gli occhi che i romanzieri devono evocare modi di parlare; sapeva che la lingua di un romanzo non deve far da specchio alla realtà ma da sponda; sapeva infine che la frigida natura della vista richiede distanza. In altri termini, sapeva che, per essere viste, le parole devono asciugarsi la lingua. Sapeva che devono essere tradotte nella lingua del visibile, la lingua del romanzo” (http://tommasopincio.net/2012/12/02/moravia-asciugarsi-la-lingua/).
Sotto la lente critica di Moravia è il mondo borghese: volgare, privo di valori, egoistico. Delitto al circolo di tennis, così come Gli indifferenti, da questo punto di vista si presenta come un’impietosa denuncia. Eppure il racconto ci mostra una realtà che l’Italia riscoprirà solo diversi decenni dopo, e che nel 1994 sarà rappresentata con rara potenza da Andrea Carraro ne Il branco. Nessun presagio però, perché a ben vedere in Moravia non è il branco ad uccidere. Il branco scherza, il branco esagera, la situazione si fa incandescente, ma alla fine è solo uno, tra lo stupore generale, ad uccidere: Ripandelli. Egli è posseduto da un furore improvviso e inspiegabile, uccide quasi senza averne coscienza: “un istante di esitazione; poi con una mano che non gli sembrò la sua tanto gli parve indipendente dalla sua volontà, afferrò sulla tavola la bottiglia vuota e l’abbatté con forza sulla nuca della donna, una sola volta” (p. 25).
Dal momento dell’uccisione, il branco in quanto gruppo aggressivo che agisce non c’è più. Sono tutti individui che prendono atto del delitto, e provano per lo più imbarazzo, ma anche timore per le conseguenze. Ma poi la situazione cambia, perché il più grande del gruppo, Jancovich, unico a ragionare con lucidità, mette tutti dinanzi a una responsabilità, dal punto di vista giuridico, comune. Ripandelli non è più solo, viene reintegrato nel branco. E il branco pensa, e agisce. Il corpo, si decide, va fatto sparire. Tutti d’accordo, l’ordine è ristabilito, si ritorna alla festa.
Quanta crudeltà vi è in questo racconto, lì dove una tragedia è depotenziata al punto da non interrompere le danze. Neanche Carraro ha osato tanto.
“‘Allora mi raccomando’, disse un’ultima volta Jancovich, ‘animazione, ballate, divertitevi come se nulla fosse successo’. Poi Mastrogiovanni per primo, e gli altri dietro, entrarono tutti e cinque nella folla e vi si confusero, indistinguibili ormai dagli altri ballerini che come loro vestiti di nero, a passo di danza, abbracciati alle dame, sfilavano lentamente davanti al palco dei suonatori” (p. 29).

 

 

 

 

 

Alberto Moravia (1952)
Racconti
Garzanti, Milano, 1971
pp. 349

Alberto Moravia
L’uomo come fine
(1963)
Bompiani, Milano, 1980
pp. 218

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