“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 December 2012 12:15

The Body Snatcher o del sapere e della lotta

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Edimburgo, 1831. La scienza medica è nel bel mezzo di un’aspra lotta contro moralisti e religiosi. Motivo della contesa è la libertà di praticare o meno esperimenti e studi sui corpi dei defunti. Nasce la nera figura del ladro di cadaveri che permetterà agli scienziati di approfondire le loro ricerche in campo anatomico.

Acquistando infatti un corpo da uno di questi tombaroli che nel cuore della notte disseppellivano i cadaveri lo scienziato di turno poteva clandestinamente curare ogni minimo dettaglio della sua ricerca medica. Il problema successivo fu che i controlli dei cimiteri si intensificarono rendendo più difficile lo svolgimento di questa strana professione. Paradossalmente divenne più facile procurarsi dei corpi da vivisezionare ammazzando direttamente le persone (individui di bassissimo ceto, mendicanti, prostitute, ubriaconi, tutta gente che nei vicoli maleodoranti di quella Edimburgo prosperava) anziché disseppellire i morti dai cimiteri. Questo il canovaccio di The Body Snatcher, film del 1945 diretto da Robert Wise (già montatore nel 1941 di Citizen Kane di Orson Welles e futuro regista di grandi successi come West Side Story, Lassù qualcuno mi ama, Tutti insieme appassionatamente) e interpretato da Boris Karloff (l’indimenticabile mostro in Frankenstein di James Whale, 1931). L’opera è la rappresentazione cinematografica del racconto breve Il ladro di cadaveri di Robert Louis Stevenson del 1884 a sua volta ispiratosi a fatti avvenuti realmente ad Edimburgo alla fine degli anni ‘20 del XIX secolo noti come i “delitti di West Port”, dove due irlandesi, tali William Burke e William Hare, commisero una serie di omicidi al fine di vendere poi i corpi delle vittime alla ricerca scientifica. Nel film in questione Karloff interpreta l’umile vetturino John Gray, uomo forte e dalla parlantina efficace, certo non un fine dicitore, i suoi modi sono grezzi e volgari, ma il fascino e il carisma esercitato dal suo costante sarcasmo sono indubbi. L’intera vicenda si svolge però attorno alla figura del dottor MacFarlane (per i vecchi amici Toddy) interpretato dall’ottimo Henry Daniell (uno dei caratteristi migliori della sua epoca) finalmente in veste di coprotagonista dopo diversi ruoli secondari (celebre la sua interpretazione della parodia di Goebbels ne Il Grande Dittatore di Chaplin). MacFarlane si interessa al caso di una bambina finita sulla sedia a rotelle in seguito ad un incidente (la sua paralisi degli arti inferiori scopriremo poi essere in seguito più di origine psichica che fisica). Il nostro dottore ha  bisogno di approfondire gli studi sulla colonna vertebrale per curare la piccola, ma l’ostruzionismo delle leggi politiche riguardo alle autopsie non glielo permette. Più volte quindi il caro dottore si affida al vetturino Gray che come secondo lavoro, per arrotondare le entrate economiche della sua umile condizione sociale, fa il ladro di cadaveri. “L’indispensabile Gray”, come lo definisce MacFarlane all’inizio del film (e di questo appellativo il vecchio Gray se ne  compiace tanto da assumere atteggiamenti prepotenti verso il dottore che è a tutti gli effetti il suo datore di lavoro, o per meglio dire il suo padrone) per far fronte alla stretta vigilanza delle tombe di tanto in tanto si serve di qualche omicidio. Appare chiaro da queste iniziali battute già un primo abbozzo della dialettica servo-padrone che più avanti diventerà una delle essenze dell’opera. L’altro specifico filmico anch’esso già palesato, ma non ancora approfondito, è il rapporto tra scienza ed etica. Se la prima questione trae le sue mosse interamente all’interno di quelle che sono le due autocoscienze hegeliane, appunto signoria e servitù, la seconda invece allarga i suoi confini al di là dei rapporti etici appena accennati estendendosi fino alla ricerca del vero, passando per il concetto di “utile”. In un primo momento infatti lo spettatore si interroga sull’utilità del mezzo per ottenere un fine. Il dottor MacFarlane si sfoga con il suo assistente di fiducia rivendicando l’importanza della ricerca sul corpo umano ai fini di curare delle malattie all’epoca ancora mortali e inveendo verso le “ottuse” leggi che glielo vietano. Traiamo quindi le prime conclusioni asserendo che il servizio clandestino svolto dal ladro di cadaveri è in questo senso di un “utilitarismo” fondamentale, anche se eticamente discutibile (per carità, ci limitiamo al disseppellimento dei corpi, anche il film a ben vedere infatti condanna esplicitamente l’estrema soluzione dell’omicidio per una causa ipoteticamente più grande). Questo passaggio però ci porta ad una successiva riflessione: quali sono i limiti della scienza? Per scienza adesso possiamo intendere il campo più generico e quindi universale del sapere. Un esempio fondamentale del film è la bambina in carrozzella. Nonostante, dopo lo studio del dottore sul nuovo corpo procuratogli da Gray,  l’intervento chirurgico sia “scientificamente” riuscito, la fanciulla non riesce a camminare. Vane le incitazioni alla bambina e la collera di MacFarlane. Il dottore, amareggiato e sconfitto, va in una locanda ad ubriacarsi. Qui incontra nuovamente il vetturino Gray e, benché abbia sempre dimostrato un certo ribrezzo nel dialogare con lui conoscendo i suoi inaccettabili metodi, decide di invitarlo al suo tavolo per sfogarsi: Gray, che adesso potremmo definire con tutti i crismi il suo umile “servo”, si accomoda così contento che quasi non gli sembra vero di assistere a tanta cordialità da parte del suo “padrone”. Quest’ultimo gli spiega l’operazione non andata a buon fine sebbene siano stati rispettati tutti i passaggi che la stessa richiedeva. Al racconto del dottore il servo Gray risponde: “Non si fabbrica la vita come si mettono insieme i blocchetti”. Il dottore stigmatizza la frase farfugliando qualcosa e ricordando all’interlocutore  tutto il suo sapere e la sua abilità chirurgica, ma il vetturino incalza: “Me lo sapresti dire Toddy perchè scorre il sangue?”. “Lo pompa il cuore” risponde il medico, e Gray: “Allora saprai perché ci vengono i pensieri, perchè ci ricordiamo o dimentichiamo”. “Sono i centri nervosi” ribatte MacFarlane, ma Gray insiste: “come si comincia a pensare?”. Questa frase, che Karloff pronuncia col solito ghigno a mezzo sorriso sulle labbra, un ghigno che è rimasto intatto fin dall’inizio del film, rappresentazione di un sarcasmo maligno e sempre fiero, ci coglie di sorpresa. Capiamo ora che il semplice e modesto vetturino sta operando una distinzione ontologica che non ci saremmo mai aspettati da lui, distinguere il corpo dalla mente. L’eterno dualismo cartesiano è ora sulla bocca di questo brutto ceffo che si fa beffe del suo colto padrone. In questo momento appare più chiara la riflessione voluta dall’autore (o gli autori Stevenson/Wise): fin dove può estendersi il dominio del sapere? Quanto il corpo è interamente legato ai processi psichici e viceversa? Sono domande certo non nuove e le risposte si sono sprecate in diverse direzioni, ma rappresentano uno dei momenti più alti del film e vanno dunque  evidenziate con cura. Del resto la questione, anche se ampiamente trattata, è tutt’altro che risolta. Non abbiamo certo la pretesa di esplicarla adesso, ma rappresentarne un nuovo esempio può essere in qualche modo d’interesse. Prendiamo a paragone alcuni documentari di divulgazione scientifica. In uno di questi ci può capitare di assistere alla spiegazione di un astrofisico riguardo il moto del peregrinare delle stelle. Funziona un po’ come gli stormi d’uccelli, o se preferite come le auto nel traffico. Questo enorme numero di stelle, che si muovono tutte insieme nella loro galassia come sincronizzate, sono guidate dall’attrazione esercitata dalla forza di gravità. Nel momento in cui la prima del gruppo incontra una forza gravitazionale diversa cambia la sua velocità fino a potersi addirittura fermare e così tutte le altre dietro, per lo stesso principio fisico, si rallentano e si fermano. “Niente di diverso da come facciamo noi nel traffico”, concluderebbe l’astrofisico, “se vediamo fermarsi la macchina davanti ci fermiamo anche noi”. Ma quanto è veramente calzante questo esempio? Con che criterio razionale si può affermare che una macchina nel traffico rallenta semplicemente perché determinata dalla decelerazione di quella che la precede? La macchina, che innanzitutto presuppone un guidatore, sicuramente sarà determinata a fermarsi perché altrimenti finirebbe per schiantarsi su quella davanti. In questo senso quindi c’è indubbiamente un principio di determinazione causale logico/deduttivo, ma il guidatore che frena non pare certo mosso da leggi gravitazionali che lo determinino a tale azione, bensì da fattori psichici di percezione ed elaborazione dati. In parole povere frena perché percepisce l’auto ferma davanti e prevede uno schianto qualora non arrestasse la sua corsa. Prefigura quindi attraverso il ragionamento quel principio di determinazione causale logico/deduttivo poc’anzi menzionato. Un processo intellettivo dunque del tutto diverso dal moto degli oggetti inanimati. Per usare una definizione tanto cara ad Aristotele, l’uomo “muove per se stesso” o quantomeno “non è mosso necessariamente da altro” (parliamo qui, sempre d’accordo con Aristotele, di movimento prettamente fisico e non di “muovere” come sinonimo di “desiderare” dove il desiderio invece presuppone il movimento del desiderante ad opera dell’oggetto desiderato). Con tale analisi non vogliamo certo affermare (e non lo vuole neanche l’autore del film in questione) che ci sia un campo d’indagine che non rientri nell’ambito del sapere scientifico, o per meglio dire, del sapere razionale, si tratta però di dare la giusta collocazione ai vari aspetti che le leggi della natura mostrano, se ci è possibile comprenderle. La scena del film che avevamo lasciato in sospeso sembra indicarci proprio questo: l’impossibilità dell’uomo di elevarsi al sapere assoluto, o quanto meno lasciare al sapere il beneficio di dubitare di se stesso, abbandonare cioè ogni forma epistemologica di conoscenza (cosa che del resto la scienza moderna ha fatto). Infatti, alla terribile domanda di Gray  “come si incomincia a pensare?” il dottore risponde: “con il nostro cervello, lo sai”. Ma Gray in disaccordo ribatte: “No Toddy, non lo saprai e non lo capirai mai perchè queste cose non si imparano”. Poi il vetturino lo afferra al braccio, lo volta verso lo specchio alle sue spalle e dice: “Guardati, guardati là nello specchio. Come puoi essere un medico, uno che guarisce gli altri se il tuo sguardo è così freddo?! Nel tuo cervello c'è molta scienza, ma la scienza non basta”. La sua posizione adesso è chiarissima e più che una negazione della verità scientifica diventa una critica all’insensibile agire umano. Oltre quel castello di sapienza c’è tutta un’umanità da riscoprire. “Il tuo sguardo è così freddo” dice il vecchio Gray come a sostenere che l’azione di un uomo non può prescindere dai suoi sentimenti, nello specifico l’opera di guarigione del dottore sulla bambina non può attuarsi mettendo da parte quella bontà che deve essere alla base del rapporto tra medico e paziente. Un tentativo di guarigione del genere rimane solo una fredda dimostrazione accademica (il dottore aveva operato la bambina servendosene per una lezione ai suoi studenti). Se avesse operato invece nel senso inteso dal vetturino, cioè con empatia verso il paziente, forse il dottore si sarebbe accorto che la fanciulla aveva, come accennato all’inizio, un trauma psichico oltre che fisico e magari l’avrebbe indirizzata verso un altro tipo di cura, o meglio, si sarebbe approcciato a lei con più gentilezza. La bambina infatti riprenderà a camminare solo perché mossa dal desiderio di riuscire a vedere il cavallo del vetturino Gray che aveva conosciuto nelle prime sequenze del film e al quale si era affezionata. Ma torniamo ai fatti filmici, anche per dare un ordine cronologico agli eventi che fin qui, ad onor del vero, non sono stati del tutto rispettati, ma che, ne siamo sicuri, non hanno inficiato il senso dello scritto in questione. Avevamo lasciato padrone e servo confrontarsi sul dilemma del sapere in una locanda scozzese. Li ritroviamo ancora insieme tempo dopo a litigare per gli illeciti mezzi operati da Gray. È a questo punto che entra in scena un altro mostro sacro del cinema. In realtà aveva fatto la sua comparsa già in alcune brevi sequenze precedenti e avevamo capito che era lo sguattero del dottor MacFarlane. Si tratta di Bela Lugosi. Anche se ha un ruolo del tutto marginale (forse già con problemi di eroina tali da dover accettare una parte così piccola) ed assolutamente ininfluente ai fini della nostra trattazione, non possiamo non spendere due parole per questo enorme attore, divo prima del cinema degli anni 30 (al pari con Karloff che però lo è rimasto ancora per molto) poi icona di tutto un movimento underground in voga negli anni ‘80 in ambito musicale con l’immortale figura del conte Dracula. Ebbene, questo ennesimo servo del padrone lo vediamo origliare mentre i due protagonisti dialogano animatamente a proposito di alcuni omicidi. Quindi qualche scena dopo assistiamo finalmente all’atteso incontro. Lugosi infatti va a casa del vetturino Karloff minacciandolo di raccontare tutto alla polizia se non sarà messo a tacere con una lauta ricompensa. Karloff/Gray lo invita a bere e gli dona diverse monete d’oro. Lo accoglie insomma in casa come un buon amico, tanto che Lugosi se ne sorprende. Il ghigno (sarcastico/maligno) di Karloff è sempre protagonista, Lugosi invece recita per sottrazione, la sua mimica è incredibilmente monoespressiva (intanto l’alcool che Karloff continua ripetutamente a versargli comincia a fare effetto), solo gli occhi cambiano di intensità rendendo la sua maschera unica al pari del rivale (si dice che i due nella vita reale non potessero soffrirsi). L’attore inglese gesticola e recita da mattatore inscenando addirittura una canzoncina popolare su due tizi che uccidevano gentaglia varia per venderne poi i corpi (chiaro riferimento a Burke e Hare). L’ungherese invece rimane immobile sulla sedia (gli basta muovere gli occhi per recitare) come assopito. Poi molto lentamente Karloff gli cinge le mani intorno al collo, Lugosi sembra impassibile, completamente assuefatto dall’alcool. I due finiscono per terra, una serie di rantoli gutturali accompagna la scena, sono gli ultimi gemiti di vita del povero Lugosi che verrà riportato cadavere nelle stanze del “padrone”. La battaglia tra servi è stata vinta da Gray, ma adesso è inevitabile la lotta tanto annunciata sin dall’inizio. MacFarlane infatti, dopo questo ennesimo raccapricciante affronto, va su tutte le furie e decide di affrontare una volta per tutte il suo antagonista. Ma il padrone ha paura, sa che il lavoro del servo è qualcosa di insostituibile, i due inoltre sono legati da misfatti che se resi noti ne possono compromettere irreversibilmente la sua reputazione. Insomma MacFarlane decide di affrontarlo con le pinze. Gli offre soldi, lo supplica di andar via e di lasciarlo in pace, non può sopportare più la sua presenza, i suoi sporchi giochi, il suo sarcasmo beffardo. L’inevitabile ricordo dei delitti di Gray di cui lui è consapevole gli sobbalza dinanzi alla coscienza ogni qual volta il suo servo gli si para davanti, deve scomparire dalla sua vista. “Ormai sei come un tumore da estirpare” dice il dottore, e Gray, senza scomporsi e sempre con quel sorriso stampato sul volto: “e da quando sono diventato una malattia?!”. Insomma, il servo continua a farsi beffe del padrone e quest’ultimo non può più sopportarlo, ma agisce ancora con gentilezza e pregandolo in ginocchio gli chiede: “perché mi fai questo […] che gusto ne provi nel vedermi soffrire?” A questo punto assistiamo alla confessione di Gray, il suo volto cambia finalmente espressione e ci appare per la prima volta umano: “sono un poveretto e ho dovuto fare tante cose. Ho dovuto pregare, ho dovuto umiliarmi perchè ero povero, ma finché il gran dottor MacFarlane accorre quando fischio mi sembra d'essere un uomo, e sono soltanto un vetturino e un ladro di cadaveri”. È la rivolta del servo, la lotta di classe (e con essa lo stravolgimento dei ruoli) si compie. Il servo si palesa, ma non è più servo, o almeno non solo. Il ruolo iniziale non è soppiantato, ma gli si aggiunge un nuovo ruolo, quello del padrone. “Padrone” del suo padrone che con lo stesso processo è divenuto “servo” del suo servo. Questo fenomeno di autocoscienza delle due parti fa sì che ognuna sia dipendente dall’altra, formandone quindi una sola. A questo punto però lo scontro fisico è inevitabile, ma tale scontro è mosso all’interno di un rapporto fatto da due individui che formano un tutt’uno con la propria realtà. In questo senso il simbolismo offerto dal film nella scena della lotta tra i due protagonisti è limpidissimo e ne fa un assoluto capolavoro denso di significati ben precisi. L’epilogo dello scontro fisico infatti è raccontato dall’ombra dei due corpi proiettata sul muro, i due  sembrano fondersi diventando un unico individuo in lotta con la controparte di se stesso. Non ci è dato sapere nemmeno chi dei due abbia vinto, e ciò rende ancora più chiaro il concetto secondo il quale nel momento stesso dell’autocoscienza il destino di entrambi sia già deciso, superfluo quindi conoscerne il vincitore. Lo spettatore preso invece solo dai fini narrativi dell’intreccio rimane quindi per ora insoddisfatto. Vediamo infatti solo un’ ombra sollevarsi da terra, poi nella scena successiva quell’ombra  diventare un corpo indecifrabile che si muove nella notte e carica  sulla carrozza del vetturino il cadavere dell’ancora sconosciuto sconfitto. Solo successivamente l’ombra e il corpo che si muovevano nel buio mostrano il proprio volto. Si tratta del dottor MacFarlane. Nella carrozza ha caricato il defunto vetturino Gray. Accompagnato dal suo assistente intraprende quindi un viaggio per liberarsi del cadavere. Si ferma in un cimitero e coglie l’occasione per racimolare altro materiale per i suoi studi accademici (il vecchio vizio non lo ha perso il caro dottor MacFarlane). Adesso toccherà a lui fare il lavoro sporco. “L’indispensabile Gray non c’è più”, pensa. Si sbaglia. Il vecchio Gray è lì con lui, ancora vivo e temibile, nella sua coscienza. Ripartono verso casa, ma qualcosa non va, MacFarlane è stranito ed impaurito. Poi improvvisamente una strana voce, sinistra come fosse proveniente dall’oltretomba, pronuncia il suo nome: “Toddy … Toddy … Toddy”. Il suo assistente intanto cade dalla carrozza e il fantasma di Gray appare, come nel più terribile degli incubi, al fianco del dottore che cerca di tenere calmi gli imbizzarriti cavalli. La lotta non è ancora finita, non può finire, certamente non con la vittoria di uno sull’altro. Il film ci regala un’ultima splendida allegoria, Servo e Padrone in battaglia sulla stessa carrozza diretti verso il precipizio. Il padrone grida disperato in preda alla paura della fine, il servo cadaverico lo accompagna e ne impedisce il controllo delle redini. I due si schiantano insieme cadendo nel burrone. L’assistente accorre sul luogo del disastro e si accerta della morte del suo professore, poi addolorato si incammina nella notte e una lunga didascalia appare sullo schermo: “È attraverso l’errore che l’uomo cerca e va avanti. È attraverso le tragedie che impara. Tutte le strade dell’apprendimento iniziano nel buio e vanno verso la luce” (Ippocrate di Cos).

 


The Body Snatcher (La iena - L'uomo di mezzanotte)
regia
Robert Wise
con Boris Karloff, Henry Daniell, Edith Atwater, Russell Wade, Bela Lugosi, Rita Corday
produzione RKO
produttore Val Lewton
sceneggiatura Philip MacDonald, Val Lewton (con il nome Carlos Keith)
paese USA
lingua originale inglese
colore b/n
anno 1945
durata 77 min

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