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Thursday, 26 September 2013 02:00

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Non avrei mai pensato che un giorno avrei inserito nelle mie letture l'autobiografia di un tennista e ancora più impensabile è che da quella lettura sarei stata affrontata e battuta con un umiliante 6-0 6-0, un ko a tutti i miei preconcetti.
Le ragioni di tanto scetticismo avevano origini lontane e quasi talmudiche. Un certo scrittore, David Foster Wallace (prometto dura poco questa divagazione), era uno che amava il tennis come pochi, era anche uno che l’aveva praticato a livello agonistico e che infine ne ha scritto talmente tanto e talmente bene da spingermi ad iscrivermi ad un corso estivo di tennis. Sempre questo scrittore, però, aveva puntato un minaccioso dito verso le autobiografie degli sportivi con una sorta di anatema del tipo: "guardatevi dalle autobiografie, a me hanno spezzato il cuore non consentite loro di spezzarlo anche a voi”; questo anatema è stato lanciato in un racconto dal titolo Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, e non si tratta di una storia romantica strappalacrime ma dell’esperienza vissuta dallo scrittore durante la lettura della tanto attesa autobiografia della sua tennista preferita, Tracy Austin, appunto.

Dopo questa lettura Wallace dice di aver definitivamente estinto la sua passione per questo genere di libri e la tremenda delusione veniva dal fatto che conoscendo molto bene la vita ‘romanzesca’ della tennista proprio non poteva accettare che lei o chi per lei avesse potuto svilirla e banalizzarla in uno scritto che non si avvicina neanche lontanamente a onorare la promessa che deriva dalla trascendenza dei risultati sul campo di Tracy Austin: "altro che divinità, qui non c’è traccia nemmeno di un essere umano che si possa chiamare tale. Il libro è inanimato perché non comunica nessun vero sentimento, e di conseguenza non ci la misura di una persona senziente. Non c’è nessuno dall’altra parte del filo”. Insomma avrete capito che non esageravo quando parlavo di anatema. Poi Wallace ci ha lasciati e l’anno dopo ecco che è uscito OPEN che da subito si è piazzato nei primi posti delle classifiche. Nel 2011 è stato pubblicato in Italia per Einaudi e la critica lo ha accolto a braccia aperte. Un trionfo. Poi ci si è messo anche Baricco a complicare le cose, inserendolo tra le cinquanta migliori letture degli ultimi dieci anni nella sua rubrica Una certa idea di mondo su Repubblica. È così che, a due anni di distanza, anche io l’ho comprato.
Ora questo libro, secondo me, è straordinario ed è scritto in un modo straordinario, ma non starò tanto a speculare sul fatto “e grazie mica lo ha scritto Agassi, lui ha solo fornito la storia”, perché per me l’avere fornito ad un grande scrittore (J.R. Moehringer, vincitore del Pulitzer nel 2000 per il giornalismo di approfondimento e costume) una storia così vera e allo stesso tempo da film è un atto eccezionale quanto lo è stato lo scriverne; insomma, Agassi avrebbe potuto gestire la cosa steso su un lettino col suo psicologo di fiducia e invece ha scelto la via della terapia pubblica. E se lo scopo di un libro è quello di far entrare il lettore nella testa o nel cuore di uno scrittore, creando come un’intimità anomala e a senso unico, ecco questo libro è un portone aperto che consente l'accesso in modo semplice e diretto nella testa e nel cuore di Agassi, anche se di fatto non è stato lui a scrivere. Tutto questo vi accadrà praticamente da subito, non ci sono graduali ingressi in stanze di decantazione, è un ingresso in accelerata come in certi giochi strizza budella dei luna park. Stupisce che per ottenere questi effetti sul lettore non si ricorra a trucchetti, ironia insistita e forzata, fuochi d’artificio stilistici o fastidiosi atteggiamenti hipster (insomma, considerando che è Agassi a parlare, potrebbero anche starci).
Questo è un libro che si fa prendere da subito terribilmente sul serio, il lettore non si sente, in alcun modo, arruffianato, raggirato o manipolato, sente di trovarsi di fronte ad un essere umano che ha molta voglia di mettersi a nudo e che si serve della via diretta della verità per farlo, correndo tutti i rischi connessi. Insomma − lo sappiamo, no? − scegliere la via della semplicità e della verità, soprattutto in campo letterario, non tentando nemmeno di assumere atteggiamenti cinici, ironici, distaccati e indiretti, coi tempi che corrono, significa esporsi ad un pericolo piuttosto alto, quello di essere accusato di ingenuità. Agassi, decide di farlo e vince. Anche questa volta.
Tutta la prima parte del libro e quella centrale rappresentano perfettamente le tappe e le evoluzioni di Andre tanto nel tennis, quanto nella vita, il cui atteggiamento è riassumibile in questa massima, che ricordo di aver letto da qualche parte ma non ricordo dove: “la vita è come il tennis, vince chi serve meglio”.
Agassi odia il tennis, lo odia "con una passione oscura e segreta”, fa parte di quella categoria di sportivi condannati ad essere una contraddizione vivente: odiano uno sport ma non sono pronti a smettere, e forse questa condanna accomuna un po’ tutti quelli che fanno del proprio sport una questione di vita o di morte, di vincere (vivi) o perdere (muori), senza mezzi termini e per i quali dogmi come "l’importante non è vincere ma partecipare” oppure "è un gioco, bisogna divertirsi” rappresentano solo vuoti luoghi comuni privi di senso. Da quella frase posta proprio all’inizio del libro, "Ti prego, fa’ che finisca presto. Non voglio che finisca”, che è una straordinaria sintesi di dolore, il lettore riesce già a percepire tutto questo.
Agassi continua a ripeterci per tutto il libro che odia il tennis più di ogni altra cosa, eppure il lettore coglie la verità sostanziale che dissolve ogni contraddizione, ossia che non è del tutto vero quello che Agassi continua a ripeterci e non perché non sia sincero ma perché, offuscato da questo odio predominante, non sente che c’è dell’altro. Come quando si ha un dolore che tiene occupati tutti i nostri recettori e pensiamo di provare solo quel dolore, ma non è che non proviamo altro, il fatto è che quell’altro resta in secondo piano perché siamo troppo impegnati altrove.
Più volte, durante la lettura del libro, mentre tifavo per lui nelle partite come nelle vicende della sua vita, mi sono trovata a pensare che Agassi è quel tipo di persona che non vorrei mai avere contro, uno che non si limita a desiderare e a somministrare sonore sconfitte a chi lo ha ferito, lui odia con un odio inappagabile e, infatti, al ragazzino che ad otto anni gli fece assaggiare per la prima volta il sapore acre della sconfitta impartita barando in modo vile e sleale (quel ragazzino, Jeff Tarango, vinse chiamando fuori la palla determinante di un tie-break, palla che era inequivocabilmente dentro ma, trattandosi di una categoria juniores dove i giocatori fungono da giudici di linea, spettava agli atleti chiamare le palle out) ecco, a quel ragazzino, dedicò ogni colpo vincente, tutti i suoi vincenti erano a lui dedicati e accompagnati da un mentale “Vaffanculo, Jeff. Vai-a-fare-in-culo”. Andre ha avuto poi modo di consumare la sua vendetta con l’ormai adulto Jeff Tarango, affrontando, vincendo e umiliando sia l’uomo che si trovava di fronte che l’impunito bambino di molti anni prima, e quando non ha più avuto modo di praticargli l’eutanasia in campo ha pensato bene di continuare ad infliggergli colpi di inchiostro, colpi che troverete sferrati qui e là nel libro e che sferra anche a qualche altro personaggio noto e a molti esponenti della stampa che lo hanno torturato; insomma, da questo punto di vista questo libro potrebbe anche rientrare nella categoria “letteratura vendicativa”. Gran bella soddisfazione però; chi non ha almeno un paio di persone a cui desidererebbe dedicare, in un bestseller, significativi ed enfatici passaggi? C’è chi ingaggia sicari e chi i Pulitzer per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Qualche esempio? Su Connors: "il suo comportamento concorda con tutto quello che ho sentito dire di Connors da altri tennisti. Uno stronzo, dicono. Un testa di cazzo villano, borioso, enigmatico”. Chang lo indispettisce per una cattiva abitudine che ha sviluppato: "Quando sconfigge qualcuno indica il cielo” (in effetti mi sembra che il numero di sportivi che hanno sviluppato questa cattiva abitudine stia crescendo in misura esponenziale); “Ringrazia Dio, gli attribuisce il merito della vittoria. Il che mi offende. Che Dio debba schierarsi in una partita a tennis”; "Mi è antipatico. Continua a dire senza esitazione che Cristo è nella sua parte di campo”; "Batto Chang assaporando ogni colpo blasfemo”.
Altra cosa che mi ha fatto adorare questo libro è il ritmo: ha lo stesso identico ritmo di una finale di OPEN, puoi trattenere il respiro per periodi piuttosto lunghi e anche se magari ti ricordi benissimo come andò a finire un certo match, il modo in cui ti viene riproposto è tale che riesce a farti emettere guaiti e suoni gutturali che ne consigliano una lettura privata, lontano da occhi indiscreti.
C’è anche un finale con lieto fine e tanto di lezioncina morale, qualcuno potrebbe storcere il naso e alzare il sopracciglio, sempre per lo stesso discorso: ‘verità senza un briciolo di cinismo = peccato mortale di ingenuità’, ma a mio avviso Andre ha il potere di dirci queste cose senza indurre sorrisi beffardi, se l’è conquistato parola dopo parola questo diritto, ed ora, alla fine, dopo averci fatti soffrire, entusiasmare, alzare pugni al cielo in segno di vittoria, può legittimamente indicarci quella che per lui è stata la via per uscire dal solipsismo e raggiungere il sommo premio: la serenità, la redenzione, e ce lo dice in una lettera indirizzata al figlio: "Dà sempre importanza agli altri Jaden. C’è tanta pace nel prendersi cura della persone. Ti voglio bene e ti sono sempre vicino”.
Potrei finirla qui, ma c’è un’ultima cosa che vorrei condividere con voi, un passaggio che ho dovuto interrompere per andare alla ricerca di un fazzoletto, cosa che mi ha fatto sentire molto stupida e ridicola; è quando lui presenta la sua baby (Stefanie Graf, la moglie) con un discorso alla cerimonia dell’International Tennis Hall of Fame, e dopo aver decantato per cinque minuti la sua etica del lavoro, la sua dignità, il suo retaggio, la sua forza e la sua grazia, Agassi chiude dicendo la cosa più vera che abbia mai detto: "Signori e signore, vi presento la persona più straordinaria che abbia mai conosciuto”. Ecco, penso che anche i più cinici, disincantati e riservati, si scioglierebbero nel sentire uscire dalla bocca del proprio compagno/a qualcosa del genere. E così, tornando a quanto dicevo all’inizio a proposito delle autobiografie, io credo che qui ci siano ampie tracce di un essere umano che si possa chiamare tale; insomma qualcuno lo troverete dall’altra parte del filo, potete giurarci.

 

 

 

 

Andre Agassi
Open. La mia storia
traduzione di Giuliana Lupi
Einaudi, Torino, 2011
pp. 502

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