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Wednesday, 18 September 2013 02:00

Io so che questa tristezza infastidisce mio marito

Written by 

La convivenza con una donna che mi è spiritualmente
estranea,  cioè con lei, è terribilmente disgustosa.
(Lev Tolstoj, Diari)

 

Che cosa mi ha dato il matrimonio? Un bel niente. In
compenso ho avuto un’infinità di sofferenze.
(Lev Tolstoj, Quaderno di appunti n.5)

 

(Astapovo, 7 novembre 1910)
Si è dichiarato, parlando ai miei genitori apertamente. La voce, come un uccellino di bosco, pigolava le formule consuete d’amore, rispetto, di devozione. Seduto come uno scolaro, teneva le mani intrecciate alle gambe, come fosse in preghiera. Lo sguardo, imbarazzato, fissava stupidi dipinti senza valore. Ha bevuto attendendo che il fumo del samovar si diradasse, pizzicando con le labbra la tazza per poi accorgersi ch’era bollente e che avrebbe dovuto attendere ancora qualche secondo. Indosso aveva: pantaloni verde scuro di fustagno, stivali di pelle rigida, una grossa cintura nera, nero il gilet su di una camicia verde acqua, meglio: verde come certe foglioline primaverili. Un cappello, alla maniera cittadina. Un cappotto, alla maniera cittadina. Un sigaro, alla maniera cittadina. Io non ho preso parola, come se non mi riguardasse ma – sotto il vestito di lana sottile – sentivo il battito farsi un rimbombo.

Mi aveva conquistata con la sua prima frase diretta a me, pronunciata senza vergogna: “Come siete tutta aperta, limpida!”. Mi aveva insegnato ad andare a cavallo; a mangiare la carne quand’è poco cotta; avevamo riso d’un gioco bello e assai difficile: indovinare le parole dalla sola iniziale. “L.v.g.e.i.v.d.d.f.t.d.f.t.i.m.v.e.l.m.i.d.f.” scrisse. Non indovinai. Volete sapere cosa significava? “La vostra giovinezza ed il vostro desiderio di felicità troppo intensamente mi rammentano la mia vecchiaia e la mia impossibilità di felicità”. Piansi o forse sentii che stavo per mettermi a piangere ed allora voltai lo sguardo verso una finestra che dava su un esterno: covoni, recinti, una contadina. Il viso mi bruciava, le mani invece sembravano trasparenti, avevo perso la nozione del tempo: era tardo mattino? Era primo pomeriggio? Il sole stava sorgendo o calando? Forse era notte ma una notte tanto chiara da somigliare al giorno?
Una volta ebbi l’ardore di dargli un racconto che avevo scritto: poche pagine, assai misere e ingenue, che avevano al centro della storia amorosa un uomo bello e valoroso: il principe Dublickij. Gli diede una scorsa la sera stessa poi – a detta sua – anche al mattino. Mi disse: “Quale forza di verità e di semplicità!”. ‘L’avrà pensato davvero?’ mi chiedevo.
Adesso che rifletto, mentre tutto si calma, ricordo che tra noi non c’è stata davvero mai una scena romantica, romantica in maniera evidente: mai uno scambio di fiori, mai un ballo al centro di una sala, mai un bacio al chiaro di luna piena. Mai una parola che – in maniera forte ed inequivocabile – dicesse che aveva scelto me, me soltanto, volutamente me, proprio me, davvero me, me, me, me.
Cominciai, pur tuttavia, ad accorgermi che provavo un sentimento serio, diverso. Attendevo i suoi passi nascondendomi dietro una porta; cercavo di spiarlo quando era intento in qualche conversazione familiare; volevo piacergli e – per questo – trascorrevo più tempo nella scelta di abiti, scarpe, decori ai capelli. Un giorno mi rattristai: non avevo badato a una macchia di marmellata, scura nel pieno centro della mia gonna, accorgendomene soltanto quando lui era già andato via. Mi sentii una bambina sciocca.
Le sue visite quotidiane continuavano. Con gli uomini della casa giocava agli scacchi, dialogava sul foraggio da dare alle bestie, commentava i muscoli dei cavalli, rideva di qualche scena veduta per strada, forse sibilava di progetti futuri che riguardavano anche me. Talvolta, per non udirli, suonavo il pianoforte. La mia speranza – ingenua, me ne rendo conto – è che fossi bruscamente interrotta da un “Sofjia, io ed il signor Lev dobbiamo parlarti: riguarda il tuo futuro”. Non succedeva. Io suonavo, sperando di dover essere fermata mentre loro parlavano, lasciandomi suonare. Odiavo il piano. Lo odiavo.
“Sono innamorato, come non credevo si potesse esserlo. Sono pazzo, se vado avanti così sarò costretto a spararmi. Sono stato da loro questa sera: lei è incantevole sotto tutti gli aspetti”. Lo scrisse sul suo diario, in quei giorni. L’ho scoperto solo ora. Che peccato tutto questo ritardo.
Il 16 settembre del 1862 mi strinse nel corridoio, senza sfiorarmi. Il suo sguardo, allucinato, calcava i miei occhi quasi costringendomi a chiuderli. Temevo passasse mio padre o una delle sorelle, che passasse mia madre o una delle serve. Le mani stringevano l’orlo esterno della gonna, le gambe erano strette e diritte, il busto rigido, le spalle di marmo, la saliva assente alle labbra. Un terrore al centro della schiena. “Tenete, questa è per voi, Leggetela questa sera, leggetela quando sarete sola. Domani mi darete una risposta. Tenete, leggete”.
“Sofija Andreevna, non resisto più. Da tre settimane ogni giorno dico: oggi le dirò tutto e invece me ne vado con la stessa tristezza, pentimento, terrore e felicità nell’anima. E ogni notte, come questa, esamino il passato, soffro e mi domando perché non l’ho detto e come e che cosa avrei detto. Prenderò con me questa lettera per darvela nel caso che di nuovo mi sia impossibile o che non abbia il coraggio di dirvi tutto”. La vista divenne nebbia, strinsi con più forza quel foglio, lo respirai avvicinandolo alle narici, poi tornai a guardarlo saltando passaggi, arzigogoli, particolari messi giù come un racconto; volevo giungere in fretta, subito, adesso, alla parte che tanto speravo vi fosse: “Se con tutto il cuore, con sicurezza potete dire sì, ditemelo; ma se avete la più pallida ombra di dubbio dentro di voi, è meglio che diciate no. Vi prego, interrogate bene voi stessa. Sarebbe terribile un no, ma vi sono preparato e troverò in me le forze per sopportarlo. Sarebbe atroce, se non dovessi essere quel marito amato come vorrei!”. Spensi subito la luce, coricandomi di lato, portando le ginocchia sul ventre. Il letto mi parve freddissimo, il guanciale scomodo, la coperta un tormento pungente. Dalla finestra un raro chiarore m’illuminava le lacrime. Avevo paura. Ero felice ed avevo paura.
“Va e dagli la tua risposta, poi parleremo con lui” fu l’unica frase che mi sentii dire. Lev Nikolaevič stava in piedi, nell’angolo della grande stanza centrale, appoggiato alla parete. Ricordo di aver guardato una vecchia stampa contadina, contenuta in una cornice di legno chiaro mentre, con un gesto involontario, già dicevo “Sì”.
Fui fidanzata una settimana, una sola. Venni trascinata per negozi di vestiti, biancheria, acconciature. Mi furono fatti doni improvvisi e magnifici: delle tende di lino bianchissimo, un completo da viaggio, fazzoletti, grembiuli, un nuovo paio di scarpe, una camicia turchese, un berretto femminile da notte (buffissimo!), un diario da riempire con i miei pensieri matrimoniali, una vecchia gioia appartenuta alla mia bisnonna. 
L’abito di nozze era di tulle, alla moda, con il collo e le braccia molto scoperti. Mi sentivo, in quella stoffa purissima, come avvolta da una nuvola intera. E tuttavia, in alcuni momenti, pensavo alle mie mani, terribilmente sgraziate; alla mia schiena, contraddistinta da lentiggini; ai polsi, poco eleganti. Lev tardò di oltre un'ora, lasciandomi sola all’altare: era a pranzo con i suoi due testimoni.
Della cerimonia non ricordo nulla di mio, mentre tutto è stato descritto da Lev, in Anna Karenina, attraverso le nozze di Levin e Kitty: mi sono svaniti i sospiri degli invitati, l’ansia paterna, la superficialità di Lev; mi sono spariti i suoni delle campane, la sensazione gelida dell’anello, certe musiche che furono certamente suonate. Mi rimane soltanto l’insieme di addii, di singhiozzi, di auguri e la frase – la più cara – che la njanja suggerì al mio orecchio: “Come faremo adesso senza la nostra contessina?”. Avrei voluto risponderle – cara balia che non ho rivisto mai più – dicendole: “E io senza di te morirò di tristezza” ma Lev mi tirava già a sé, costringendomi a seguirlo per la partenza.
Una carrozza, sei cavalli che attendevano il cammino, i miei bauli: scuri, di pelle smaltata con borchie in metallo negli angoli, il nome della mia famiglia d’origine inciso col fuoco. Una sensazione acuta di dolore e paura mi contraeva la gola, soffocandomi quasi. I passi, incerti, seguirono i passi decisi di mio marito. Ero la signora Tolstoj, la moglie del grande scrittore. Tremavo. Non se ne accorse nessuno.
Perdonerete se, da questo punto, non continuo più a confessarmi. Ho da indossare l’abito nero. Tuttavia cercherò di rendervi i miei stati d’animo – se ne siete curiosi – offrendovi le pagine del mio diario. Al diario ho scritto ogni cosa; al diario debbo, forse, d’essere ancora in vita.
Scusatemi, se potete, ma fermo la voce. Voi invece leggete, leggete pure: l’età dell’imbarazzo oramai è passata.

 

 

“Signore, e se lui si allontanasse da me, ora? Tutto poggia su di lui, adesso”.

 
“Io ho sempre sognato l’uomo che avrei amato come una persona completamente integra, nuova. Mi immaginavo, ed erano sogni infantili, ai quali mi è tuttora difficile rinunciare, che quest’uomo sarebbe sempre stato sotto i miei occhi, che avrei conosciuto ogni suo più piccolo pensiero, sentimento, che egli avrebbe amato per tutta la vita me sola, che lui ed io non ci saremmo accapigliati, come fanno tutti, diventando poi persone mature. Mi erano così cari tutti questi sogni”.

 
“Cosa non darei per sbirciare nella sua anima”.

 
“Mi sento incapace di capirlo a fondo, ed è per questo che lo sorveglio così gelosamente”.

 
“Possibile che non gli interessi nulla a parte il denaro, la gestione della tenuta, la distilleria e la scrittura? Quando non è impegnato a mangiare, a dormire o a stare in silenzio a pensare a qualche opera, che poi non scrive, non fa altro che andarsene in giro per i suoi affari, sempre di corsa, sempre di corsa, e sempre solo. E io mi annoio, mi annoio, perché sono sola, completamente sola”.

 
“Mi irrita la sua fissazione per il popolo. Sento che ormai deve scegliere tra la famiglia, che io incarno, e il popolo che lui ama di un amore così ardente. Il suo è egoismo. E sia. Io vivo per lui, attraverso lui, e voglio che sia lo stesso da parte sua”.

 
“Lui legge Raguse, Trollope, Guizot, vuol leggere anche Dostoevskij ora. Sta sul divano, affondato tra i cuscini che ci separano, e mi annienta con questa attenzione al libro che ha davanti perché la vivo come una totale indifferenza nei miei confronti. Vorrei dirgli: sono qui, parliamo. Lui legge. Non mi guarda”.

 
“Adesso che sono sposata, dovrei riconoscere come stupidi tutti i miei sogni precedenti, staccarmi da loro e invece non ci riesco. Tutto il passato è talmente spaventoso per me che, credo, non riuscirò mai ad accettarlo. Salvo forse, quando avrò altre cose nella vita, dei figli, ad esempio, che desidero così tanto”.

 
“Mi ricordo sempre dei miei, come si viveva facilmente con loro e, adesso, mio Dio, ho tutta l’anima a pezzi. Nessuno mi ama: mio marito sta smettendo di amarmi del tutto. Fino a poco tempo fa avevo il presentimento che non fosse impossibile un giorno nel quale, finalmente, avrei appreso davvero del suo amore ma ora mi sembra che nutra, sempre più e così facilmente, una forma di tacito odio”.

 
“Lev, oggi, è insopportabile”.

 
“Questo mi pesa, il pensare con le sue idee, il vedere le cose attraverso i suoi occhi, fare degli sforzi e, senza diventare lui, perdere me stessa. Già non sono più la stessa e mi sento in grande difficoltà. Quando vado fuori, quando fuggo da queste pareti così larghe, eppure così strette, mi sento libera. Eppure penso continuamente a lui: è uscito, forse mi cerca, è inquieto, forse è infuriato. Non resisto e torno in casa. Lui è tetro ed io, per poco, non mi sono messa a piangere”.

 
“Speravo che il fiore che gli ho visto in mano fosse per me. Lo ha adagiato sulla scrivania e con un coltellino a cominciato a tagliarlo. Vuole analizzarne la fibra nascosta, forse gli serve per un racconto”.

 
“Tutte le manifestazioni fisiologiche sono così ripugnanti. Sentirlo addosso, che preme e che affonda, senza mai guardarmi negli occhi, mi fa ritegno. Sono come una cassa vuota in cui s’infila un segreto o qualche oggetto di poco conto. Ricevo, senza riuscire a dare”.

 
“Dopo, dopo che tutto è accaduto, mi sento sola. Mai come quando capita questo io mi sento sola. Vedo chiaramente, e sento in maniera acutissima, la mia solitudine e che Lev non mi vuole bene davvero”.

 
“Una contadina! Una contadina come tutte le altre: grassa, pallida, orrenda. Mi sono sorpresa – quando ne sono stata certa – a guardare con piacere un fucile, un pugnale, un coltello. Un colpo ma a chi? A me, che attendo un bambino? A lei, che abita qui vicino e che vedo ogni giorno? A lui, che è mio marito e dal quale dipendo? A chi?”.

 
“Sono incinta, il che per me è una tortura fisica e morale”.

 
“Certi giorni ho la tentazione di venire a rifugiarmi da voi, da mia madre, a Mosca, dovunque, pur di lasciare questa camera semibuia nella quale, con la schiena spezzata, china sul viso paonazzo del neonato, mi contraggo fra gli spasmi e le fitte di dolore ogniqualvolta do il seno, quattordici volte al giorno. Ho deciso di essere coerente e di allattare io stessa questo bambino e di tollerare i dolori, e devo dire che lo faccio con estrema pazienza”.

 
“Non faccio altro che svezzare e allattare, disinfettare e medicare; e non è finita: devo badare ai bambini, pensare alle confetture, alle conserve, ai dolci, al lavoro di copiatura per Lēva; a stento riesco a trovare un momento per disegnare, e per di più capita quando piove”.

 
“Al mio cattivo umore si aggiunge, come ogni mese, la solita paura di essere incinta”.

 
“Ho paura di rimanere ancora incinta; tutti vedrebbero la mia vergogna e non farebbero che ripetere con gioia sadica la battuta nata nei salotti del bel mondo di Mosca: ‘Eccola lì, in carne ed ossa, la Postfazione della Sonata a Kreutzer’. Terribile”.

 
“Tredici figli. Tredici. Di cui undici allattati da me. Solo un’altra donna potrebbe capire”.

 
“Ho la sensazione che la nostra esistenza abbia, sempre più, qualcosa di errato. Insegno qualcosa al piccolo Lev, a Maša e a Tanja, taglio e cucio, leggo, tengo la contabilità, suono un po’ il piano, mi occupo della casa. Lēvocka, invece, la mattina si sveglia, resta un po’ nel letto a leggere e, dopo il caffè, esce subito a caccia con i suoi levrieri: questo quasi ogni giorno. Rincasa per cena, poi si rimette a leggere, qualche volta accenna a voler suonare a quattro mani ma rinuncia subito. Tutto ciò mi risulta pesante, anche perché il domani è esattamente identico all’oggi”.

 
“Cucio, aggiusto biancheria, taglio degli abiti. Mi sono fatta una gonna di seta, ho cucito qualcosa per Saša, ho suonato molto. Oggi ho ricevuto i soldi dei figli, ho pagato il dentista di Andrjuša, ho comprato a Saša un mantello, ho comprato delle piante e ho trapiantato in vasi nuovi quelle che avevo”.

 
“Occuparsi delle faccende di ogni giorno è difficile e faticoso. Quant’è più comodo dire 'Sono cristiano e non posso occuparmi di alcunché'… Io, invece, non ho tempo per fare niente, né per leggere, né per lavorare. Domani dovrò correggere le bozze e tagliare la biancheria. Mi sento sola e svuotata”.

 
“Per il genio bisogna creare un ambiente tranquillo, allegro, comodo, accogliente; al genio bisogna dare da mangiare, bisogna lavarlo, vestirlo, bisogna trascrivere le sue opere un numero infinito di volte, bisogna amarlo, non fornire pretesti alla sua gelosia, perché sia tranquillo; bisogna nutrire ed educare gli innumerevoli figli che il genio procrea, con cui però si annoia e non trova il tempo di stare, perché deve comunicare coi vari Epitteti, Socrati e Budda e deve lui stesso tentare di diventare uno di loro. E quando i componenti della cerchia familiare hanno dato tutto – giovinezza, forze, bellezza – per servire questi geni, si sentono rimproverare di non averli capiti abbastanza”.

 
“Per lui l’universo si riduce a ciò che ruota attorno al suo genio e alla sua opera; da ciò che lo circonda prende unicamente quello che può servire al suo talento e al suo lavoro”

 
“Il mio destino è di essere soltanto la segretaria di un marito-scrittore”.

 
“Se solo potesi ucciderlo e creare al suo posto un altro uomo identico a lui, lo farei volentieri”.

 
“Mi avrebbe reso felice vederlo affettuoso, comprensivo, amichevole, e invece è rozzamente sensuale e, per il resto, indifferente a tutto. In definitiva siamo come due estranei che intrattengono rapporti talora cordiali, ma privi di vera sincerità”.

 
“Quando penso a te (cosa che faccio continuamente) sento una stretta al cuore perché in questo momento dai l’impressione di essere infelice. Provo per te una tale pena, e al tempo stesso sono come incredula: perché? Per quale ragione? Ti prego, cerca di essere felice e lieto: a tale scopo, puoi chiedermi di fare qualsiasi cosa io sia in grado di fare, e che non arrechi danno ad altri che a me”.

 
“Oggi, nel trascrivere il diario di Lēvočka, mi sono imbattuta nel seguente brano: ‘L’amore non esiste. Esiste solamente l’esigenza carnale della copula e quella razionale di avere una compagna di vita’. Ho smesso di copiare immediatamente ed ho pensato che, se avessi letto prima questa massima, non lo avrei mai sposato”.

 
“In lui si è risvegliata l’abituale concupiscenza. Mi si avvicina come un contadino si avvicina ad un albero di frutti maturi. Sembra pronto al saccheggio”.

 
“Ieri ho lasciato Levočka col cuore pieno di dolore: da molto tempo non provavo per lui un dispiacere simile. Solo, vecchio, ingobbito (diventa sempre più gobbo, certo a causa di tutto il tempo che passa seduto, scrivendo, curvo, quasi per giornate intere). Ho pulito il suo studio, ho messo in ordine tutte le sue cose e la biancheria; gli ho preparato tutto quello che serve per la vita di ogni giorno: la polenta d’avena, il caffè, pentole varie, stoviglie, miele, uva, mele, biscotti Albert: tutto quello che gli piace”.

 
“Ho una voglia tremenda di vedere Lev Nikolaevič ed è tutto il giorno che ho nostalgia di lui. Ho suonato il pianoforte per quattro ore, per distrarmi”.

 
“Sento che potrebbe tornare ad amarmi. Sento che i giorni felici, e se non felici almeno sereni, potrebbero tornare a breve. Immersa in questo pensiero gioioso mi sono persa a fissare la neve che, splendida, cade in giardino. Mi sono tornati in mente gli slanci giovanili e familiari della prima neve, di quando si vedevano i fiocchi cominciare la loro discesa”.

 
“Cosa è successo? Difficile dirlo. In sostanza, niente. Il risultato è stato che, di nuovo, ho sentito nel cuore di lui quel ghiaccio che tante volte nella mia vita mi ha fatta rabbrividire; ho sentito una completa indifferenza verso di me, i figli, la nostra vita. Alle mie domande non ha risposto e, quando lo ha fatto, è stato vago, evasivo, irritante. Al mio tentativo di essergli più vicina, più amica, di aiutarlo nella sua attività di scrittore, di seguirlo, preparandogli un sano cibo vegetariano e occupandomi di tutto, ha risposto bruscamente che non ha bisogno di niente, che gode a star solo, che non chiede niente, che non gli serve più che trascriva per lui”.

 
“So che nelle scene in cui L.N. descrive l’amore lascivo fra la cameriera e l’ufficiale, in Guerra e pace, scrive della sua relazione con una cameriera di sua sorella, a Pirogovo. Me lo ha raccontato lui stesso, questa sera”.

 
“Mi sono svegliata, piangendo amaramente”.

 
“Ho una nevralgia alla tempia destra, mi sento dolore tutto dentro, non ho dormito per tutta la notte, tutto in me si è come raggelato, impietrito. Né rancore, né felicità, né amore, né energia vitale: niente. Ho sempre voglia di piangere e provo perfino rimpianto per la mia libertà, la mia salute e i miei amici”.

 
“Forse potremmo ancora essere felici?”

 
“Lev è venuto a parlare con me, era nervoso, cupo fino all’inverosimile… Il suo volto faceva paura. Ieri neppure una parola sgradevole tra noi, niente, assolutamente niente. ‘Sono venuto a dirti che voglio separarmi da te, perché così non posso vivere. Partirò per Parigi o per l’America’. Se la casa mi fosse crollata addosso, la mia sorpresa sarebbe stata meno grande. Gli ho chiesto, esterrefatta: ‘Che succede?’. ‘Niente’ mi ha risposto, ‘solo che a forza di caricare il carro, finisce che il carro si ferma e il cavallo smette di tirarlo’. Ma cosa posso aver fatto per caricare il carro, questo lo ignoro. E poi sono venute le grida, le recriminazioni, ed è stato un crescendo. Ho cercato di lasciar passare la tempesta, quasi senza replicare. Mi rendevo conto chiaramente che avevo a che fare, oramai, con un pazzo. Ora mi chiedo in continuazione, fino a perderci la testa: dov’è che ho sbagliato? Non mi sono mai allontanata da casa, ho lavorato alla cura dell’edizione fino alle tre del mattino… Ero tranquilla. Li ho amati tutti, tanto, e mi occupavo di tutti. E a che è servito?”.

 
“È fuggito. Stanotte Lev è fuggito”.

 
Mi scrive, quasi non riesco a leggere… ecco, mi scrive: ‘Devo stare da solo, è indispensabile. Ti prego, cerca di capirmi e non cercare di raggiungermi, nel caso tu dovessi venire a conoscenza del mio nuovo indirizzo. Il tuo arrivo non farebbe altro che peggiorare la mia situazione, così come la tua, senza peraltro indurmi a ritornare sulla mia decisione. Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai condiviso con me’. Lascio cadere il foglio, che s’infila sotto il piede curvo di una sedia. Sono quel foglio. In terra, calpestabile, immobile. In abbandono”.

 

 

Un cappotto con pelliccia grigia, sfumature marroni e beige; un cappello di feltro pesante a coprire la nuca, la fronte e le orecchie; l’abito nero com'è di norma; le scarpe in tinta col lutto, ma scomode per andare nel fango. Il volto bianco d’un pallore ormai spento. Fisse, le mani stanno ora in grembo. Non una goccia in solchi già troppo scavati. Il capo, leggermente in reclino, a contemplare le zolle di terriccio piuttosto che questa bara che si muove, portata tra ali di folla che si scalda fiatando. Una luce fioca bagna Astapovo. La donna che ha appena parlato attraverso le sue personali scritture ora cammina, sorretta a destra da un amico di famiglia, a sinistra da un figlio. Sembra un neo, un piccolo neo zitto e deforme. No, non piange mentre è costretta a trascinarsi lenta perché la stampa, la polizia, i possidenti, la Chiesa, il popolo, gli amici, i membri della famiglia ne misurino il dolore, la sofferenza, lo strazio.
Al passaggio del grand’uomo capi scoperti e inchinati, frasi di cordoglio, qualche lacrima, una commozione di piccoli gesti, veloci segni della croce. Al passaggio della donna sguardi indagatori, leggermente corrucciati, morbosamente curiosi. Alle spalle la stazioncina rossa, davanti il treno che inghiotte la bara: in un solo boccone.
Sofija non ha più parole da dare né desidera ricevere altre parole.
Il silenzio. Desidera soltanto il silenzio e una giornata di pace.

 

 

 


Sofija Andreevna Tolstoj
I diari
traduzione a cura di Francesca Ruffini e Raffaella Setti Bevilacqua
Milano, La Tartaruga, 1980
pp. 293


Vladmir Pozner

Tolstoj è morto
trazuzione a cura di Giuseppe Girimonti Greco
con una nota di André Pozner
Milano, Adelphi, 2010
pp. 274

Grazia Livi
Lo sposo impaziente
Milano, Garzanti, 2010
pp. 165

Tatiana Tolstoj
Anni con mio padre
traduzione a cura di Roberto Rebora
Milano, Garzanti, 1976
pp. 294

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