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Saturday, 14 September 2013 02:00

Passaggi di Henri Michaux

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Henri Michaux (1899-1984) è uno scrittore e pittore francese noto ai più per aver sperimentato la mescalina e per averne scritto. Il saggista torinese Elémire Zolla lo cita nella sua antologia Il dio dell’ebbrezza come colui che “con un nuovo estro, esplorò vari tipi di intossicazione da droga” (p. CV), e riporta un brano, Miserabile miracolo (tratto da Brecce, Adelphi, 1984), in cui Michaux dice di aver preso, dell’allucinogeno, una dose sei volte maggiore di quella sufficiente e ne descrive gli effetti come un lungo supplizio:


“Perso in una profondità straordinaria, non mi muovevo più. Alcuni secondi trascorsero in quello stupore. E a un tratto, su di me irrompendo, le innumerevoli ondate dell’oceano mescalinico incominciarono a travolgermi. Mi travolgevano, mi travolgevano, mi travolgevano, mi travolgevano, mi travolgevano. Questo non sarebbe finito più, mai più. Ero solo nella vibrazione dello sterminio, solo senza periferia, senza annessi, uomo-bersaglio che non riesce più a rientrare nei suoi uffici.
Che avevo fatto? Sprofondando mi ero raggiunto, credo, nel mio stesso profondo, e ora coincidevo con me stesso, non più osservatore-spettatore, ma proprio io ritornato in me stesso, e là in pieno sopra di noi, il tifone”
. (pp. 147-8)

Michaux seppe sprofondare tenendosi sempre ad una certa distanza dall’abisso, cosa che non riuscì ad esempio ad Antonin Artaud le cui esperienze con il peyote (pianta da cui deriva la mescalina) − descritte nel 1936 in Viaggio al paese dei Tarahumara (“Il soggiogamento fisico era sempre presente. Quel cataclisma che era il mio corpo… Dopo ventotto giorni d’attesa, non ero ancora rientrato in me: uscito in me. In me, in quell’accozzaglia sconquassata, in quel pezzo di geologia avariata”, p. 74) − lo segnarono psichicamente. Emil Cioran, in Esercizi di ammirazione, si soffermò sulla capacità di distacco dell’amico Michaux rispetto alle ardite ricerche che portava avanti:

“Vero mistico e, tuttavia, mistico irrealizzato. Lo comprendiamo nella misura in cui ha usato ogni mezzo per non riuscire, per conservare l’ironia anche negli esiti estremi cui lo hanno condotto le sue ricerche. Quando è giunto a qualche esperienza-limite, a un ‘assoluto impuro’ in cui vacilla, in cui non sa più a che punto è, non manca mai di ricorrere a un’espressione familiare o buffa, per mostrare chiaramente che è ancora se stesso, che ricorda di stare sperimentando, che non si identificherà mai interamente con nessuno degli istanti della sua ricerca. In tanti eccessi simultanei convivono gli abbandoni estatici di un’Angela di Foligno e i sarcasmi di uno Swift”. (p. 158)

Passaggi, edito prima nel 1950 e poi nel 1963, raccoglie una serie di scritti che si presentano immediatamente sotto il segno dell’incompletezza (la citazione in esergo, tratta da Tsurezuregusa di Yoshida No Kaneyoshi, XIV secolo, reca le seguenti parole:"Kōyü, il religioso, dice: solo una persona di limitato intendimento desidera sistemare le cose in serie complete. Desiderabile è l’incompletezza. In ogni cosa l’uniformità è sconsigliabile. Un tempo era obbligatorio lasciare nei palazzi un’ala incompiuta. Senza eccezioni") ma che sono di una tale potenza e di una tale ricchezza di idee da doversi leggere in maniera centellinata, per timore di perdere qualcosa. L’incompiutezza torna più volte nel testo, e Michaux ne fa un indiretto elogio quando, in Bambini, descrive la crescita come una progressiva perdita, fino alla compiutezza dell’età adulta, e afferma: “cosa c’è di peggio dell’essere compiuti?” (p. 42).
Questo libro è composto di bagliori concettuali, contenuti in brani più o meno lunghi ma anche in aforismi, e leggerli è come percepire scosse continue, ci si accorge di quanto fascino possa assumere il pensiero se espresso con lucidità, con rigore ma anche con il gusto del paradosso e dell’eccesso. Lo sguardo di Michaux è anomalo, ci mostra cose che mai avremmo immaginato, mette in discussione la percezione consueta di spazio e tempo, ci urta fino a farci intuire l’esistenza di molteplici abissi in cui la caduta è possibile; i “passaggi” segnano una serie di traiettorie che la comune visione del mondo non può contemplare, tanto è alto il rischio di smarrirsi:

“Saldando insieme, con adeguato senso dell’opportunità e magnetismo, il più vicino e il più lontano, il sopra e il sotto, ciò che vediamo dall’alto e ciò che vediamo di fronte, ciò che vediamo di sbieco e ciò che abbiamo, per così dire, sotto gli occhi, giocando con i diversamente distanti come con il mantice di una fisarmonica, fonderemo le geometrie assassine, spezzeremo quel fragile e duro triangolo che si perde in lontananza insieme con le cose che desideravamo vedere, e lo spazio tornerà a essere ciò che era, un immenso ritrovo di cento spazi immersi gli uni negli altri, nel quale gli esseri e gli oggetti sono immersi insieme a noi.
No, lo spazio non è immutabile o inafferrabile o intoccabile, non più degli altri Dei. È una rana che aspetta i nostri terribili e affilati strumenti”.
(pp. 55-6)


 

 

 

 

 

 

Henri Michaux
Passaggi. 1937-1963
(1963)
a cura di Federica Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco e Valeria Perrucci
traduzione di Bona de Mandiargues e Ivos Margoni
Adelphi, Milano, 2012
pp. 194

E. M. Cioran
Michaux. La passione dell’esaustivo
in Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti (1986)
traduzione di Mario Andrea Rigoni e Luigia Zilli
Adelphi, Milano, 1988
pp. 226  (pp. 151-160)

Antonin Artaud
Viaggio al paese dei Tarahumara
in Al paese dei Tarahumara e altri scritti (1956)
a cura di H. J. Maxwell e C. Rugafiori
Adelphi, Milano, 1966
pp. 245  (pp. 67-97)

Elémire Zolla
Il dio dell’ebbrezza. Antologia dei moderni Dionisiaci
(1971)
Einaudi, Torino, 1998
pp. 426

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