“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 08 September 2013 02:00

"Sotto il vulcano" di Lowry

Written by 

Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, il classico titolo che dà subito una coordinata geografica alla lettura. C’è un cratere e qualcuno vi abita sotto. In realtà i vulcani sono due, e non è affatto casuale come vedremo. E se vogliamo fare i sofisticati, addirittura tre: il terzo è il protagonista, Geoffey Firmin, o meglio il suo animo. Che è un ribollire lavico, profondo, primordiale come il senso di colpa che lo accompagna. Forse è proprio l’incapacità a eruttare che congestiona Firmin in uno stato di perenne patologia emotiva. Cerveza e mezcal fanno il resto.
Dedichiamoci a ciascuno di questi tre coni nervosissimi che spostano gli equilibri terrestri e annichiliscono ogni tentativo di riscatto.

Il primo vulcano è il Popocatépetl, fondamentalmente è a esso che Lowry si riferisce. El Popo, come lo chiamano i messicani, sovrasta la città teatro delle vicende, Quauhnahuac, cioè Cuernavaca, attuale capitale dello stato di Morelos, dove Lowry visse qualche anno. Questo gigante regalatoci dalla crosta terrestre non è tanto un pericolo concreto che fa piovere lapilli e incenerisce pueblos polverosi, è piuttosto un ossessivo incombere su un uomo, un console inglese alla vigilia della seconda guerra mondiale, e sul suo lucido delirio, trattato dall’autore con una tecnica molto elaborata, giocata su dilatazione e contrazione temporale, forti simbolismi e incedere kafkiane che non porta a nulla.
Andavo a Taxco, nello stato di Guerrero, città bellissima a quattro ore dalla capitale Città del Messico, famosa per la zona mineraria che la circonda. Il pullman straziava i freni a ogni curva dell’altopiano e non è che fosse un bel sentire. A un certo punto lambì proprio Cuervanaca e l’autista, ogni autista in certi paesi specialmente latinoamericani s’improvvisa guida se si alza di buon umore, annunciò che la giornata era di sole splendìdo e che se poteva mirar el Popo. Vedi la vita come è strana? Avessi letto all’epoca Sotto il vulcano, mi sarebbe apparso un profilo diverso, il Popocatépetl del libro: una sorta d’incantatore di serpenti, un fachiro dell’universo, ieratico come un sacerdote assiro nelle mura di Ninive, che viene sommerso da altri simboli e dopo poche pagine riemerge dai gorghi di un inferno. Sulle note di una melodia che scuote apparenti lentezze.
Il secondo vulcano ha un nome ancor più impronunciabile: Iztaccíhuatl. Nella mitologia azteca era una donna il cui padre mandò in guerra un grande combattente. Di nome… non è difficile e magari ci siete già arrivati: Popocatépetl. Pensate ai miti fondativi dell’universo, a questi padri maligni che si trovano a ogni latitudine, da Urano alle tragedie attiche, dall’Egitto ai celti. Un padre che prima promette in sposa la figlia a un uomo che poi però manda in battaglia nella speranza che muoia. Così a Iztaccíhuatl venne detto che Popocatépetl è stato ucciso ma ovviamente era una bugia! E via a morir di dolore, prima lei poi lui, nel frattempo tornato vincitore. Gli dei non seppellirono gli amanti ma li trasformarono in vulcani che ancora oggi stanno lì, a debita distanza, vicini ma sufficientemente lontani per soffrire in eterno.
Non è una storiella da prendere come un inciso qualsiasi, perché il protagonista Geoffey Firmin ha una sua Iztaccíhuatl che di nome fa Yvonne. È lei, in fondo, la miccia che accende il terzo vulcano, lo spirito e la mente del console. È dentro questo magma che siamo invitati a spingerci, superando la superficie del cratere e concedendosi al senso fortissimo dell’ambiguità, della tenebra, della notte interiore. Cito due termini come “tenebra” e “notte” perché a me questo romanzo dalla lettura difficile ha come assestato le vicende telluriche che ancora mi trascinavo dietro dopo il cuore di Conrad e il viaggio di Céline.
Due accenni all’architettura del racconto: il console britannico Geoffry Firmin, eccitato e sorpreso dal ritorno della moglie Yvonne che l’aveva abbandonato, ripercorre il suo calvario esistenziale. Dopo il primo capitolo affidato a Jacques Laruelle, un produttore cinematografico amico d’infanzia del console e anche lui irretito a Quauhnahuac, che ricapitola un anno dopo gli eventi, si approda a un’unica interminabile giornata, il 2 novembre 1938. E qui non possiamo che pensare a un’altra unica e interminabile giornata, quella che contraddistingue Ulisse di Joyce che è il vertice più alto del modernismo letterario di matrice anglosassone dove Lowry matura. La sofferenza che pervade il console in questo elastico continuo tra lui e Yvonne ha un precedente strettamente personale, un episodio in cui è stato coinvolto Geoffrey Firmin quando era capitano di una nave, il Samaritan, e come per passaggio spontaneo è trasmessa agli altri personaggi che non vantano affatto una membrana impermeabile: Laruelle stesso di cui Firmin è geloso, suo fratello Hugh, frustrato nelle aule di Cambridge e sulla nave dove svolge il suo apprendistato come marinaio, carico di utopie marxiste sulla scia della guerra civile spagnola alla quale partecipa.
Le forze che vanno e vengono di Firmin, che si rifugia in un bere autodistruttivo, sono le stesse che coinvolgono il lettore che deve fare affidamento alla sua sensibilità. È un libro che rischia l’abbandono, ma se si è tenaci si scoprono pagine di letteratura “folle”, seducente, che accompagnano a un finale dove realismo e irrealismo si fondono alla perfezione, come in un teatro dove prevalgono, non a caso, ceffi che paiono maschere e perfino un accenno di coro travestito da cenciosi campesinos che preannuncia la tragedia finale.
Un’ultima annotazione: di Malcolm Lowry si accorse in Italia per primo Enzo Golino, di cui uscì nel 1964 un articolo su Ultramarina, altra opera dello scrittore britannico. Ospitò queste note una rivista che non c’è più: il Mondo di Mario Pannunzio, la rivista di un’altra Italia che aveva la pretesa di sprovincializzare il nostro paese, sul terreno politico, economico e culturale, anche con coraggiosi articoli letterari che andrebbero riletti tutti. Mi pare non ci sia molto spazio per scommesse simili: e uno dei motivi è perché quel mondo del… Mondo nelle vicende nazionali è uscito sempre sconfitto dal Risorgimento a oggi.

 

 

 

 

Malcolm Lowry
Sotto il vulcano
traduzione a cura di Giorgio Monicelli
Milano, Feltrinelli, 2005
pp. 408

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook