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Friday, 06 September 2013 02:00

La gatta di Petrarca

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Petrarca non amava soltanto donne eteree e spirituali, come siamo abituati ad immaginarlo, facendo a tempo anche stereotipi raffronti con un Boccaccio che si presume più focoso, meno metafisico. Petrarca amava moltissimo i gatti. Forse perché discreti e silenziosi, elitari e decorosi. Soprattutto quelli dal miaomiao sottile, perché si sa, il poeta aborriva il vocione grosso. Se fosse dipeso da lui, anche la Commedia dantesca sarebbe stata meno sanguigna, più controllata, meno tracimante, meno virulentamente espressionista. E allo stesso modo detestava che i lettori (e declamatori) delle proprie composizioni fossero incolti: non poté mai perdonare a Dante di aver scritto il suo capolavoro nella lingua dei pizzicagnoli e dei bottegai, lasciando loro la possibilità di storpiare e balbettare la teologia. In latino andava scritta la Comoedia!, sicché potesse venire adeguatamente miagolata da chi poteva, e non ruspantemente abbaiata dal vulgus profanum, come usava chiamarla Orazio, un altro cui la folla faceva girare la testa con tutto l’alloro.

Una gatta, soprattutto, conquistò un posto d'onore nel cuore di Petrarca, un posticino ventricolare accanto a quello fedelmente occupato dalla sua Laura. La differenza sta in questo: la gatta, cui pure nessun canzoniere fu dedicato, gli rimase accanto fino alla fine, accoccolata ai suoi piedi, tutta intenta a difendere i manoscritti dell'illustre padrone dagli attacchi iconoclasti di sorci di sensibilità forse già folenghiana e bernesca. Quando la palla di pelo, strenua difenditrice del classicismo letterario, cessò la sua attività per sopraggiunta morte, venne imbalsamata. Tutt’oggi è possibile vederla nella nicchia al pian terreno della casa di Arquà Petrarca, la cittadella tombale del cantore di Laura, tanto legata, evidentemente, al suo illustre cittadino da averne acquisito dal 1868 il nome nel codice genetico, prima ancora che nel toponimo.
Un canonico dalla penna sicura, Antonio Quarenghi (1547-1633), anticipando di secoli la narrazione in prima persona da parte di animali, appose alla tomba dell'amatissima gatta un raffinato epigramma. Lo scrisse, come si conviene al genere, in versi stringati e concisi, in un latino forbito e polito, di cui né la gatta né tampoco il padrone, severi arbitri di eleganza, avrebbero potuto querelarsi:

"Etruscus gemino vates ardebat amore:
Maximus ignis ego; Laura secundus erat.
Quid rides? divinæ illam si gratia formæ,
Me dignam eximio fecit amante fides.
Si numeros geniumque sacris dedit illa libellis
Causa ego ne sævis muribus esca forent.
Arcebam sacro vivens à limine mures,
Ne domini exitio scripta diserta forent;
Incutio trepidis eadem defuncta pavorem,
Et viget exanimi in corpore prisca fides".

che, trasportato nella nostra lingua, con gli stravolgimenti e le brutture che sono fisiologiche quando si tratti di tali operazioni di travaso, a meno che il travasatore non sia un altro poeta, come pure è fortunatamente occorso nelle storie dei travasamenti, recita:

"Il poeta toscano arse di un duplice amore:
io ero la sua fiamma maggiore, Laura la seconda.
Perché ridi? Se lei la grazia della divina bellezza,
me di tanto amante rese degna la fedeltà;
se lei alle sacre carte diede i ritmi e l’ispirazione,
io le difesi dai topi scellerati.
Quand’ero in vita tenevo lontani i topi dalla sacra soglia,
perché non distruggessero gli scritti del mio padrone.
E ora pur da morta li faccio tremare ancora di paura:
nel mio petto esanime è sempre viva la fedeltà di un tempo".

Stando a quanto verseggia il canonico, è bello immaginare che la gattina abbia avuto un ruolo decisivo per la cultura europea occidentale, traendo in salvo opere dal valore inestimabile dalle insidie di roditori. E chissà quante volte, giocherelliamo un po' con la fantasia, il poeta, stanco e afflitto per i suoi patemi amorosi, per un sorriso volto a Laura e non ricambiato, sarà stato tentato, in un impeto di rabbia, di bucherellare una pagina del Bucolicum carmen, di affralire le sudate carte dell’Africa, di ridurre a brandelli e frammentare i Rerum vulgarium fragmenta, e trattenuto dal farlo solo da un tenero struscio micesco, da femminee (e perciò irresistibili) musa feline. Chissà, forse senza i pietosi e confortanti miagolii della sua gatta il Secretum non sarebbe stato secreto; forse l'inchiostro del poeta non si sarebbe versato sulla pergamena in forma di grafemi senza la presenza gattescamente materna della bestiola, discreta e sollecita insieme. Che bello se fosse così.
Se volessimo invece pensarla in una maniera meno filogattica, immaginiamo una gatta tremenda, una attila caudata, una peste quadrupede: quante pagine saranno state strappate, dilacerate dagli unghioli della fiera; chissà quante chiazze di densa urina sparse nelle carte poetiche avranno costretto Petrarca a riscrivere. Forse dalla necessità di riscrivere sarà nata la virtù, già che ci si trovava, di appulcrare il testo, di lavorare di lima, di cesellare i ritmi? Un rapporto dunque, quello del poeta con la sua pelosa ed inconsapevole musa, tormentoso ma inopinatamente fruttifero; un sodalizio dapprima maledetto e di certo in seguito, avvedutosi dei risultati artistici con un lieve sorriso, gratamente benedetto.
Circa il nome? Che il poeta l’avesse battezzata Laura, in onore di colei di cui conosciamo letteralmente, ché così è diviso il Canzoniere, vita e morte? La questione è inessenziale, ma a dire mio la gattina, con vanità e gelosia tutta muliebre, si sarebbe sdegnata con intensi miagolii di questa imposta omonimia. Poteva frullarle nel capino, non a torto, che l’ispirazione è per un intellettuale momento importante, sì, ma che senza l’assidua manutenzione e una teutonica vigilanza finanche la Biblioteca alessandrina si riduce a frùstoli papiracei. E si sa, dei frammenti sanno godere soltanto i grammatici e gli scoliasti, i quali si divertono a comporre puzzle insicuri, capolavori più di fantasia che di attendibilità. La bestiolina potrebbe essere persino un monito, se volessimo rendere protrettico persino un testo non disameno come questo, a salvaguardare le opere artistiche, in un’epoca in cui, come recita il celebre adagio, in assenza di gatte, i topi si danno a ridde e saltazioni sin troppo effrenate.
Comunque la si voglia mettere, allora, non c'è scampo. Bisogna dare ragione a chi dice che i gatti l’hanno sempre vinta, a scapito dei loro colleghi canidi, più vocianti e filodanteschi. Senza la sua gattina Petrarca non sarebbe stato Petrarca.

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