“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 16 December 2012 11:26

Il sego e la presenza

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Che poi spesso capita che la memoria trattenga in sé soltanto alcuni tratti, forse non quelli che determinano il senso fotografico della visione, ma quelli che, plasmandosi nella nostra mente e nella nostra volontà di permanenza, si profilano nella loro mancanza e nella loro assenza di materiale da cronaca. E così i volti, le parole, le persone, le cose non si stabilizzano mai in un contenuto preciso ma vagano nella mente e si raccolgono intorno a percezioni minori, si risvegliano soltanto qualche volta, in circostanze particolari (senza richiamare necessariamente le madeleines di Proust), e interdette giocano con noi e con la nostra solitudine, per poi costruirsi in composizioni che è la nostra mente a produrre. Il ricordo non essendo mai l’assoluta ripetizione nella mente dell’evento passato, ma stando sempre un passo più in là e più in qua rispetto a ciò-che-è. In poche parole si tratta di una creazione individuale, che ricrea l’esistente e riplasma noi stessi.   

Insomma la memoria, mai come nel caso di questa esposizione della Thwaites, non vuole restituire un’esperienza universale ma soltanto il lavoro individuale dell’artista sulla mole di ricordi che provengono dalla sua avventura familiare. E i volti che ritrascrive la Thwaites non sono più reali di quelli che possono apparire nel sogno, quando le persone che riconosciamo, nel delirio onirico, non le riconosciamo per quel naso adunco o per quel taglio di capelli, ma per un insieme di materiali di contorno e come immersi in un insieme significante che ne determina l’identità. E così i volti si liquefanno dinanzi allo sguardo attonito dello spettatore (così come del sognatore), i lineamenti sono tanto presenti e determinanti, quanto disciolti nel sego della vecchia candela affettiva che li illumina per un attimo e nello stesso attimo li avvia verso la disparizione.

Si tratta soltanto di un attimo, né più né meno, queste tele non arrischiano un racconto, ma investono di luce opaca (e spesso inquietante) il momento stesso in cui un volto, una persona, diventano ciò che sono in questo stesso tempo presente per noi stessi. E così si inseguono figure di ogni tipo, si incontrano due bambine (si scherza con un amico, un po’ kubrickiane) immerse in uno sfondo (come dire) marinaresco che ci hanno fatto immergere in un passato (oramai piuttosto) lontano e che riconosciamo chissà come e grazie a chissà cosa, oppure tre giovani donne, dalla fisicità irrisolta e liquefatta, che si stagliano su sfondo rosso e blu da vecchio parato, e poi ancora un gruppo di giovani uomini con baffetti da primi decenni del secolo trascorso, seduti in fila su un qualcosa di indefinito, lo sfondo è giallo e i calzoni corti, forse canottieri ma poi, grazie a un quadernetto sul quale sono presenti le fotografie che hanno ispirato questi ritratti e che, tra l’altro, permettono di misurare la distanza che separa queste due forme d’arte mirabili, la fotografia e la pittura, scopriamo che sono ufficiali di un esercito, probabilmente in qualche luogo esotico, simbolo del nostro imperialismo, si tratta probabilmente di una colonia, e del nostro gusto un po’ morboso per l’esotismo, e poi ancora bambini con corone in testa che si presentano in contrasto con il violento rosso di un divanetto che incombe alle loro spalle o ancora il potente sfondo marrone e arancione a linee verticali sul quale si presentano alla nostra vista una giovane donna con i suoi due bambini.        

C’è soltanto da descrivere, poco da interpretare. Un’immersione nel mondo di un altro, nel liquefarsi delle immagini familiari altrui e un memorandum per noi tutti, che la liquefazione non è mai sparizione. E così quando decidiamo di riprendere la nostra strada, la quale ci avrebbe poi portato a gironzolare a lungo per una Napoli in festa, quella della Notte Bianca del Centro Storico, e quando poi siamo ritornati a casa dopo alcune ore, un po’ insoddisfatti e un po’ con un senso di mancanza di appartenenza, e quando infine abbiamo incontrato il nostro volto nel grosso specchio all’ingresso della nostra modesta abitazione, abbiamo notato che esso, il volto, tendeva a “liquefarsi” e allora abbiamo colto forse quella piccola illuminazione che anche la più piccola dimensione artistica (non soltanto visiva, qualunque essa sia) porta con sé, cioè il fatto che ci incamminiamo perennemente verso una metamorfosi, anzi abitiamo la nostra stessa metamorfosi, cosicché il nostro volto non è già sempre più quello di un tempo e gli elementi che determinano la permanenza già sempre si differenziano. E così, forse, ci sentiamo un po’ più soli, ma appena appena, in maniera lieve e delicata, come trasfigurata in un sogno lieve, tenendo in mano quella candela del tempo il cui sego plasma e riplasma la nostra presenza nel mondo.

 

Memory thread

di Christina Thwaites

Galleria Cellamare Internocinquantasei

Napoli, dal 15 dicembre al 15 gennaio

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