“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 12 December 2012 19:27

Match Point o del caos

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“Chi disse: 'preferisco avere fortuna che talento' percepì l’essenza della vita”.

Con questa frase recitata fuori campo inizia Match Point. Da sfondo l’immagine di una pallina da tennis che fa avanti e indietro sul green infrangendosi dopo alcuni giri sulla linea bianca della rete e rimanendo sospesa nell’aria. Fermo immagine, non ci è dato sapere se la pallina carambolerà al di qua o al di la della rete, ma la voce fuori campo ci avverte che ciò determinerà la vittoria o la sconfitta della partita. Match Point è un film del 2005, forse l’ultimo grande capolavoro di Woody Allen che abbandona alcuni suoi topoi (per la prima volta ad esempio nella sceneggiatura non ci sono personaggi di origine ebraica) ed affronta nuovamente il tema dell’omicidio come già fatto nell’ormai lontano 1989 con Crimini e Misfatti.

A rendere però l’opera del tutto nuova e dal concentrato filosofico decisamente pregnante è la visione nichilista dell’universo cinematografico che circonda i personaggi del film. Intendiamoci, il nichilismo, si sa, è uno degli argomenti principe nel cinema del regista newyorkese, ma mai come in questa opera si era assistito ad un’allegoria del disordine tanto folgorante. In effetti, a ben vedere, più che un film sulla fortuna (com’è stato etichettato unanimemente) è un film sul caos, un caos inintelligibile, di un’imperscrutabilità mai metafisica, ma addirittura deterministica, inanalizzabile e soprattutto casuale. Per chiarirci però bene le idee è meglio fare un passo indietro e mettere un po’ d’ordine raccontando la trama. Avviso i lettori che per poter approfondire le tematiche accennate fin qua è necessario, fondamentale, narrare anche l’epilogo del film. Chi non lo avesse ancora visto, al termine della lettura sarà dunque inevitabilmente spoilerato (per usare un neologismo tanto caro al popolo del web).
Protagonista del film è Chris, ex giocatore professionista di tennis, diventato adesso istruttore. Durante l’esercizio di questa sua professione fa la conoscenza di Tom, ricco rampollo appartenente all’alta borghesia londinese. Continuando la frequentazione con il nuovo amico, Chris conosce la di lui sorella Chloe ed intraprende con lei una relazione sentimentale. Poco tempo dopo il nostro Chris fa un’altra conoscenza, si tratta di Nola, fidanzata del suo amico Tom. Tra quest’ultima e Tom però non funziona a lungo e, quando alcun mesi dopo, Chris, che nel frattempo è entrato a tutti gli effetti a far parte della famiglia della sua fidanzata ormai ufficiale (tanto da ricoprire anche un importante carica lavorativa in una delle aziende del suocero) rincontra Nola ormai single, scoppia la passione. I due diventano amanti. Intanto Chris decide di regolarizzare burocraticamente il suo rapporto con Chloe sposandola e consolidando così l’intesa con il suocero per accedere ad una facile carriera ai piani alti dell’élite societaria. Programma un figlio con la moglie che però non arriva, a sorpresa (di Chris) invece Nola rimane incinta. Ormai travolta dagli eventi Nola minaccia di raccontare tutto alla moglie di Chris se questi non si deciderà a lasciarla per lei. A questo punto per non distruggere il castello di successi che si sta costruendo Chris escogita la soluzione estrema: uccidere Nola, ma per compiere il delitto perfetto inscena uno stratagemma: uccidere la vicina di pianerottolo di Nola, un’anziana signora che vive da sola, rubarle dei gioielli nascosti nell’appartamento ed aspettare per le scale del palazzo l’arrivo di Nola facendo credere che si sia trovata lì per caso al momento della rapina. Lo mette in pratica. Il piano fila via liscio come l’olio. Il nostro protagonista adesso è in strada, si avvicina ad un ponte sul Tamigi a rimuginare sul tremendo gesto appena compiuto. In un pugno conserva i gioielli rubati all’anziana signora, deve liberarsene e li butta nelle acque. Allontanandosi si accorge che in tasca gli è rimasto un anello (che porta scolpite le iniziali dell’anziana donna), si volta nuovamente verso il Tamigi e lancia l’oggetto. Riprende il suo cammino e non si accorge che l’anello sbatte contro un muretto che separa la strada dal fiume. L’immagine si rallenta e lo spettatore rimane col fiato sospeso, l’anello volteggia nell’aria come la pallina da tennis nella prima sequenza del film, ma stavolta non c’è fermo immagine e vediamo che l’anello arresta il suo volo al di qua del muro cadendo per terra e non nel fiume. Noi spettatori siamo quindi “determinati” a pensare: “ecco l’errore che lo pregiudicherà e renderà giustizia”. Nel frattempo le indagini sono già iniziate. Inizialmente si pensa, come voluto da Chris, ad una rapina finita male. Poi gli agenti trovano un diario nell’appartamento della seconda vittima, Nola. All’interno vi sono raccontati i dettagli della sua relazione con Chris che viene quindi interrogato. Il nostro eroe se la cava dicendo, addolorato per la perdita dell’amante, che la sua era una relazione extraconiugale imbarazzante pregando i detective di mantenere la riservatezza sul suo conto e affermando di essere, ovviamente, del tutto estraneo ai fatti fornendo un alibi credibile. La vita di Chris riprende a gonfie vele, almeno per quanto riguarda la carriera professionale. Di notte però quella umana e primordiale legge morale che è dentro di lui lo addolora facendogli vivere costantemente i sensi di colpa. Rivede addirittura in una vividissima allucinazione la sua Nola alla quale dice: “ Nola, non è stato facile, ma quando è arrivato il momento ho premuto il grilletto. […] Uno impara a nascondere lo sporco sotto il tappeto e va avanti. Devi farlo, altrimenti vieni travolto”. Poi rivolgendosi alla visione dell’anziana donna uccisa che gli si era mostrata anch’essa come un fantasma e gli aveva chiesto: “E io? Perché anche io?!”, risponde: “a volte gli innocenti vengono trucidati per un disegno più grande, lei è stata un danno collaterale”. Al che la vecchia signora ribatte: “Lo è stato anche tuo figlio?” riferendosi al bambino portato in grembo da Nola, e Chris risponde: “Sofocle ha detto: 'non venire mai alla luce può essere il più grande dei doni'”. Poi aggiunge: “sarebbe appropriato se io venissi preso e punito, almeno ci sarebbe un qualche piccolo segno di giustizia. Una qualche piccola quantità di speranza di un possibile significato”. Allontanandoci per un attimo dalla narrazione della trama (riprenderemo a breve per raccontarne l’epilogo) non possiamo non cogliere tutta la disperazione, l’annichilimento del protagonista e, con lui, dell’autore che conserva ancora un briciolo di speranza (distrutta, lo vedremo a breve, nel finale del film). Un senso di giustizia che sia da punizione al male, che faccia da bilancia tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Estrema poi, senza quasi bisogno di commenti, la citazione di Sofocle, avvicinata millenni dopo da Pasolini nella sua “Poesia in forma di rosa”: “solo chi non è nato vive, vive perché vivrà” nella quale è presente una nota di speranza (lasciata però in un limbo che non dovrà mai dischiudersi) assente nell’aforisma del poeta tragico greco. Riprendendo il racconto dei fatti filmici (cosicché si possa poi finalmente dedicarsi a quel paio di spunti accennati all’inizio di questo scritto) avevamo lasciato Chris travolto dai sensi di colpa e gli investigatori brancolare nel buio. A un certo punto, come in un sogno il detective Banner preposto alle indagini ha un’intuizione brillante: Chris è l’assassino e ha inscenato tutto per liberarsi della ormai fastidiosa amante creando il falso movente della rapina con conseguente omicidio casuale della giovane donna. Il senso di giustizia anelato dallo stesso colpevole è arrivato. Ma c’è qualcosa che avevamo lasciato in sospeso, c’è il caos puro da dover fronteggiare. Quell’anello che era rimbalzato al di qua del muretto viene infatti raccolto da un banale tossicodipendente trovato poi morto in seguito ad una diatriba tra drogati in uno squallido vicoletto di Londra. La polizia trova in una sua tasca il fatale anello. Adesso tutto quadra, il delinquentello aveva rapinato ed ucciso la vecchia donna, si era poi imbattuto, come da una prima ricostruzione dei fatti, in una testimone e l’aveva uccisa per scappare senza lasciare nulla in sospeso. Quel semplice anellino con su scritte le iniziali della vecchia, cadendo a terra anziché nell’acqua, invece di diventare quel decisivo errore che noi tutti avevamo pregustato per avere il senso di giustizia desiderato, si era trasformato nella più grande fortuna dell’assassino. È ovvio quindi che la parabola disegnata dal regista è un percorso senza sbocchi morali, senza valori etici, pervaso da fatti assolutamente casuali ed indecifrabili se non a posteriori. Non c’è nulla che possa risollevare le sorti dell’azione umana e l’intero percorso che la governa è regolato dal caos. Viene in mente, anche per sdrammatizzare (ed in questo Allen è maestro) una vecchia frase famosissima del regista: “Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”. Rileggendola alla luce di Match Point questa vecchia battuta assume un significato diverso dall’esprimerne l’estremo ego dell’autore che ci appariva ad una prima lettura. Dopo questo film non vediamo Allen paragonato a Dio e Marx per puro autocompiacimento intellettuale, bensì agonizzante di valori. Allen o meglio, tutto l’insieme di qualità umane come l’amore, l’empatia, il senso di giustizia che dovrebbero regolare e regalare agli individui una corretta relazione tra loro non sono altro che mere illusioni. Allen lo ha capito e sta morendo come è morto il significato ontologico di Dio e quello ideologico-politico di Marx. Il film è finito e con la solennità di una messa si annuncia che l’uomo è preda del suo destino. Ma perché accennavamo prima al determinismo? Il determinismo altro non è che un modo più scientifico di coniare il vecchio concetto di fato arricchendolo di connotati filosofici ben precisi. In un certo senso ha preso il posto di Dio. Se il problema di Dio e della libertà dell’uomo affonda le radici sin dall’antichità con Platone ed Aristotele, è con la riflessione teologica cristiana sul libero arbitrio che assume tratti più specifici. È ovvio individuarne il motivo, la tradizione giudaico-cristiana vuole un Dio onnipotente e onnisciente. Un tale concetto di Dio in quanto onnisciente presuppone quindi la sua capacità di prevedere le vicende dell’universo, compreso ovviamente l’uomo. E la sua onnipotenza indica la potenzialità di modificarle a suo piacimento. In che modo quindi l’uomo poteva ritenersi responsabile delle proprie azioni con questa ingombrante presenza di Dio? Un tale paradosso non poteva durare oltre e il concetto di Dio, nato per semplificare l’esistenza delle cose, divenne superfluo, anzi peggiorativo. Il problema è che la scienza moderna, dominatrice assoluta del nostro tempo, alla lunga (o forse da subito) è stata costretta a relazionarsi con lo stesso dilemma. Infatti, se tutto ciò che io adesso sono, comprese le azioni che volontariamente compio, sono determinate da fattori precedenti che le hanno predisposte, quanto è libero il mio essere ed il mio volere tali azioni? Secondo la concezione deterministica, tanto cara ai rivoluzionari della scienza moderna Galileo, Cartesio e Newton, tutto ciò che accade ha una causa e, data quella causa, non può non accadere. In parole povere il futuro è già scritto nel presente secondo il principio di causa/effetto e la libertà umana diviene di nuovo una chimera. Si è cercato, com’è ovvio che sia, una conciliazione anche in ambito scientifico pur di salvare la libertà d’agire dell’uomo, una risposta filosofica allo stesso paradosso che era intrinseco nel concetto di Dio. Dopo aver scartato la soluzione cartesiana del dualismo ontologico tra pensiero e materia (res cogitans e res extensa) dove si affermava che le leggi della natura determinano solo il corpo e non la mente, alcuni filosofi come Locke, Voltaire e Hume conclusero che determinismo e libertà non sono inconciliabili. Bisogna però bene capirsi sul concetto di libertà che secondo tale ipotesi assume questo significato: la libertà è la possibilità di agire senza impedimenti o costrizioni. È libero quindi colui che non è impedito nell’agire, né costretto. Eppure sembra stupido che pensatori del calibro di quelli appena citati non abbiano colto, come è stato fatto poi in seguito, che la determinazione consiste proprio nel fatto che sono “né impedito, né costretto” nell’azione, ma non nella volontà ad agire. Prendiamo ad esempio alcuni momenti del film: Chris è un uomo per bene. Certo, non ci è dato sapere del suo passato, sappiamo  che è stato un tennista professionista e c’è qua e la qualche accenno ai suoi studi e alle sue letture. Ha la passione per la musica classica. Insomma, la propensione al delitto non sembra far parte dei suoi connotati. Eppure c’è qualcosa che lo determina, la paura di perdere tutto. Allen sembra suggerirci quindi che l’atto violento non è un qualcosa di genetico, ma determinato da fattori esterni che sono assolutamente estranei ad una logica a priori. Diciamo che è quindi in perfetta sintonia con le teorie scientifiche più in voga ai giorni nostri: un uomo è (se possiamo ragionare in termini di quantizzazione percentualistica) al 99,9 % esperienza vissuta e allo 0,1 % codice genetico. Quantizzare questi fattori però non ci permette di prevedere gli effetti reali che porteranno nel tempo. Non possiamo capire se la pallina che cadrà al di qua della rete sarà un bene o un male (a seconda poi dei punti di vista degli interessati) prima che gli eventi si scateneranno. Possiamo farlo solo in una partita di tennis dove siamo noi a deciderne le regole e abbiamo stabilito che se cade nella tua parte di campo il punto è per il tuo avversario. Ma nel mondo reale, dove l’uomo è solo un interprete casuale dell’intero universo, tutto questo è vano e pregare un Dio che abbiamo capito inutile non serve a nulla. Sperare però è qualcosa di innato probabilmente. È qualcosa che in un modo o nell’altro ci determina ed i suoi effetti sono tangibili. La speranza alla quale fa riferimento l’autore del film in questione però  non ha le sembianze benevole di una giustizia universale, bensì quelle di un colpo di fortuna individuale, privo di ogni caratteristica morale conciliante con il Bene supremo oramai palesemente illusorio. Suona infatti come una sentenza una delle ultimissime frasi del film che fa da eco a quella dell’inizio chiudendo quindi l’intera vicenda in cerchio di eterno ritorno e che il regista fa pronunciare al cognato di Chris, Tom da poco diventato padre: “ non mi importa che [mio figlio] sia eccezionale, spero solo che sia fortunato”.

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