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Sunday, 30 June 2013 21:01

Riportando tutto a casa

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Ero in camera mia. L’occhio mi è caduto sui libri impilati sul comodino, quei silenziosi e promettenti volumi che aspettavano solo di essere letti.
Mi sono decisa d’iniziare con l’ultimo arrivato, Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia. Ho scorso il primo foglio, e dalla densità della pagina scritta ho capito subito che avrebbe richiesto una lettura molto più approfondita.
Riparto, a tre quarti della pagina mi sono fermata e ho riletto tutto da capo, senza capire come mai non riuscissi a cogliere l’intonazione del discorso. “Dev’essere una questione di scarsa punteggiatura”, mi sono detta.
Così ho fatto per altre due volte, sempre più irritata per la mia incapacità di comprendere il modus scribendi di questo autore.
Stavo per abbandonare, quando la cocciutaggine ha prevalso e sono riuscita a continuare.
E, una volta partita, non mi sono più fermata. Ho anche capito il motivo per cui quella di Lagioia non può essere una lettura da fare alla leggera.

I periodi sono lunghi e complessi, molto densi sia dal punto di vista concettuale che stilistico. Prevale un’ipotassi complicata anche dalla pregnanza delle parole usate: ognuna di esse è come una stoccata indirizzata al lettore, una sorta di sfida per vedere se questi sia in grado di comprendere il forte citazionismo e il concetto ulteriore al quale ogni termine rimanda.
Non meno presente è l’ironia, che pervade la sintassi e sembra continuamente punzecchiare il lettore. Mi sembrava quasi di vedere il sogghigno dell’autore, al pari di quello di un maestro che osserva l’alunno concentrare tutti i suoi sforzi per decifrare un testo ostico; mi sentivo addosso quegli occhi divertiti, curiosi di sapere se fossi stata all’altezza di uno sfoggio di cultura talmente palese da fungere da setaccio per il lettore più ingenuo.
Devo essere sincera, trovavo irritante questo continuo sfoggio di sapere; poi però, con il procedere della storia, la macchina narrativa acquista maggiore visibilità, la voce dell’autore, così evidente, così onnipresente, così urticante, nella seconda metà del romanzo si affievolisce per dare maggiore spazio alla storia vera e propria.
Le problematiche ci sono tutte: la ricchezza inaspettata e sfacciata, che diventa opulenza per coloro che ricchi già sono, mentre per gli altri non è che una sorta di chimera, un mostro sempre affamato con il quale fare continuamente i conti; lo stacco generazionale tra genitori che lavorano al limite della resistenza fisica e mentale per nutrire il suddetto mostro e i figli, che si trovano già tutto servito, ma che – inevitabilmente − disprezzano ciò che i genitori hanno faticato ad ottenere, fino ad arrivare all’annientamento dei sensi tramite la droga. Questo desiderio di libertà, misto ad un senso di sfida verso il benessere e il finto perbenismo dilaganti in quegli anni, non è che un modo per ribadire la propria identità e individualità.
Ed è qui che si realizza il paradosso latente in tutto il romanzo: tutti quanti, dagli adulti che si spaccano la schiena su e già per le desolate lande pugliesi, agli adolescenti in cerca del proprio posto nel mondo, non fanno che cercare di ribadire la particolarità della propria esperienza. Ognuno di essi non fa che dimostrare agli altri quanto la propria vita sia unica e inimitabile: il padre del narratore non fa che ripetere al figlio quanto sia importante tenere i contatti con ogni piolo della scala di vendita, dalle filatrici analfabete di cui sfrutta la manodopera, al grossista che puntualmente ritarda un pagamento. Eppure, non ha fatto che la fine di molti altri, a cominciare dall’esaurimento nervoso fino alla separazione dalla moglie, ormai messa in secondo piano rispetto al lavoro, al guadagno, e alla tensione verso una vita più consona al suo stato sociale.
D’altro canto, la moglie, apparentemente uno spirito libero, una fiera donna del Sud, che nel Sessantotto era scappata di casa con un’amica, non si rivela che una maschera: non sappiamo quanto le sue azioni siano dettate dall’amore che prova per il marito o, piuttosto, per il denaro dello stesso; la sua fierezza non è che un modo per farsi accettare dai componenti di un determinato ceto sociale, dai quali però si fa inevitabilmente trasportare, annullando completamente la propria individualità a beneficio dell’apparenza. E la sua fuga in treno, non è stata che una coincidenza: la ragazza non era spinta di chissà quali sentimenti d’orgoglio femminista, quanto da un semplice spirito di ribellione adolescenziale neanche troppo spiccato, tanto da arrivare poco lontano da casa e solo per assistere ad un concerto.
Ci sono poi i genitori dei suoi amici, la cui patina di splendore è intaccata dalla sparizione di sgherri, dal denaro che affluisce e defluisce come un fiume a carattere torrentizio, dalla situazione precaria, sempre sull’orlo del baratro, di chi è colluso con la criminalità organizzata, la quale serpeggia come un gas nocivo anche nelle narici delle persone più insospettabili.
Questo dimostra quanto in realtà – nonostante l’attitudine alla grandezza, alla magnificenza, alla probità − anche i genitori, che per ogni figlio vorrebbero essere dei miti da emulare, non siano che pedine nelle grinfie del pesce più grosso e cattivo. E il merito del romanzo di Lagioia è anche quello di mostrare, da parte dei figli, questo cambio di prospettiva, questa presa di coscienza dei limiti e delle incongruenze dei propri genitori.
Abbiamo poi gli amici del protagonista: uno troppo puro e autentico per durare a lungo, l’altro in perenne lotta col padre e pronto ad azioni quasi scandalose pur di contrariarlo.
La loro non è proprio un’amicizia, quanto una sorta di compromesso nato da una sfida: la diversità sembra attirarli ma al tempo stesso respingerli; questa commistione di amore e odio è forse preferibile alla completa inimicizia, soprattutto perché i ragazzi frequentano la stessa scuola, gli stessi luoghi d’incontro e la stessa gente.
Tra queste due figure così diametralmente opposte, quella del protagonista sembra quasi passare in secondo piano, sembra quasi vivere di luce riflessa fino al momento in cui ritorna a Bari per cercare notizie dei personaggi che avevano popolato la sua adolescenza.
Con uno sguardo di rassegnazione, viene presentata la condizione di decadenza in cui giace chi è rimasto ancorato alla terra natia: senza nessuna sorpresa scorgiamo l’incedere della vecchiaia su quei corpi una volta imberbi e floridi, le crepe su quei monumenti all’opulenza che, come zecche, si erano attaccati alla terra barese durante gli anni Ottanta.
Al tempo stesso, sembra di percepire una sorta di sollievo da parte del narratore, andatosene dalla Puglia una volta capiti i limiti della macchina che stava cercando di inglobarlo.
Forse è per questo che, nella seconda parte del romanzo, sembrano sparire quella cattiveria e quel forte sarcasmo che avevano caratterizzato la prima.
Se davvero narratore e autore almeno in parte coincidono, probabilmente il desiderio di riportare una storia, di ricercare le motivazioni ad un tale sfacelo, ha portato Lagioia a lasciare da parte gli sfoggi di cultura per concentrarsi su altro.
In questo modo è anche possibile comprendere il titolo del romanzo, di cui lo stesso autore, classe ’73, diede spiegazioni:
"Per quelli della mia generazione si tratta di riappropriarsi di un trauma senza evento. Non abbiamo avuto una data cruciale da cui far discendere il resto. Ma questo non significa che, da qualche parte negli anni Ottanta, non ci sia stato un evento catastrofico per il sentire comune. Riportando tutto a casa vuole indicare il riappropriarsi di qualcosa che è emotivamente informe e metterlo nella forma di un romanzo, finalmente raccontabile".

 

 

 

Nicola Lagioia
Riportando tutto a casa
Einaudi, Torino, 2011
pp. 326

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