“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 18 May 2022 00:00

Romanzo e racconto, tra distinzioni e risonanze

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Se è vero che il romanzo è un genere letterario che si diffonde nell’Ottocento e si identifica con la cultura di allora, il racconto se ne discosta, eludendo il tentativo di uniformarsi alla cattura della storia o al suo tentativo. Il romanzo, in questo senso, è una disposizione di carattere borghese, nella quale si tenta, con un’adeguata corposità, di definire i tratti di una nazione, di un popolo, di una dinastia, una famiglia, oppure di un’eroina oppressa dal sistema patriarcale, attraverso il quale raggiungere le alte sfere, nel tentativo di tratteggiarne le peculiarità.

La contrapposizione tra romanzo e racconto, ovvero tra uniformazione e individualità, nasce nel conflitto specifico che l’avvento della psicanalisi e il prospetto di una coscienza del soggetto protagonista della vicenda, acquisiscono (sostanzialmente a partire dagli anni ’10 del Novecento). L’introspezione tipica, ad esempio, dei romanzi di Dostoevskij, in opposizione al carattere descrittivo di un Tolstoj, indica una direzione diversa che nel corso del Novecento, della prima parte del secolo, prenderà forma per mezzo di uno stuolo di autori degni di nota: James Joyce, Marcel Proust, Thomas Mann, Robert Musil, Franz Kafka e via dicendo. La letteratura, che si tratti di un romanzo o di un racconto, si pone così lo scopo d’indagare la coscienza degli uomini, spesso e volentieri, almeno per la seconda metà dell’800, inserendoli in contesti dove il naturalismo ne dirime i tratti caratteristici della loro personalità (vedi soprattutto lo scrittore austriaco Adalbert Stifter). Lo scopo principale è quello d’indagare ciò che si svolge sotto la superficie, di cogliere l’inesplorato, sondandone il mistero (ne apprende bene la lezione Oscar Wilde, con il suo Il ritratto di Dorian Gray). In questo senso, spesso e volentieri, il racconto, nella sua brevità e capacità estrema di sintesi che rende meglio l’idea di una capacità artistica dello scrittore di rendere efficace la vicenda, condensandone le atmosfere e saturando una tensione fortemente connaturante il genere di riferimento, si eleva ad opera d’arte (lo stesso Tolstoj che rappresenta più di altri quella ideologia di romanzo di carattere storico-borghese, scrive poi due dei più grandi racconti di sempre con La Morte di Ivan Il’ic nel 1886 e Sonata a Kreutzer del 1889). La struttura tradizionale si decompone dunque, favorendo flussi di coscienza, direttamente influenzati dal ruolo che la psicanalisi impone con gli studi, i trattati, le conferenze indette da Freud e Jung (particolarmente emblematico è quello, disseminato di vere e proprie elucubrazioni non esenti da sviste ortografiche e sintattiche, della signorina Else del lungo racconto di Arthur Schnitzler, in quelle deliranti del Lamento di Portnoy di Philip Roth, e nell’intimo corpus poetico di Virginia Woolf). Ma non è solo attraverso la psicanalisi che la letteratura indica nuove strade portanti. Comincia a influenzare e al contempo ad essere influenzata dallo sviluppo del cinema che dagli anni ’20 lascia intendere che non si tratterà di certo di un’arte destinata a finire prima del tempo, come affrettatamente disse Lumière. Così come oggi la letteratura sembra attingere fortemente dalla serialità televisiva, c’è stato un tempo in cui la letteratura si è lasciata compenetrare dal cinema e viceversa (vedi soprattutto Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras e Peter Handke) nel generare nuove forme linguistiche e nel fare proprio in maniera profonda il concetto di straniamento soggettivo e il nomadismo minimalista, tipico ad esempio di Handke, quanto più vicino alla creazione di una sceneggiatura.
Oltre alla psicanalisi prima e al cinema poi, la letteratura deve la sua maturazione evolutiva anche al passaggio col decadentismo, nel quale svolgono un ruolo di primo piano, oltre alla corrente francese dell’epoca, gli italiani Italo Svevo e Luigi Pirandello. Attingono dalle radici del Romanticismo tedesco e vi si collegano come a un filo, nel quale la sintassi è vaga e imprecisa, fluisce musicalmente, sinesteticamente in modo libero, fortemente espressivo. Ad andare in crisi è l’individuo che tende a guardarsi dentro sistematicamente, la narrazione lineare del tempo e la sua scientificità positivista. L’alfiere più rivoluzionario di tale crisi diviene la famigerata Recherche proustiana (pubblicata in ben sette volumi tra il 1913 e il 1927), in misura maggiore rispetto agli esperimenti linguistici incarnati nella complessità de l’Ulisse di Joyce. Il protagonista vive varie epoche nel presente, per mezzo della memoria, andando a ritroso ripetutamente nel tentativo inestricabile di ricomporre i pezzi. In questo senso, il grande romanzo di Proust tira le fila del cinema che verrà e che grazie al montaggio riuscirà a imprimere significanza a codesta linea di racconto. Per offrire però una visione prettamente letteraria dell’alternarsi felice tra romanzi e racconti da parte della maggioranza dei più influenti scrittori della storia, occorre comprendere meglio un percorso storicamente ordinabile.
L’Ottocento non è solo il secolo del romanzo, lo è in misura comparabile anche del racconto, specialmente nell’ambito del fantastico. Si cimentano nel racconto, tornando ai padri del grande romanzo, diversi scrittori di rilievo (i padrini sono i russi, prima ancora dei francesi e degli americani). Gogol’, ad esempio, scrive i racconti di Pietroburgo (fra i quali Il naso e Il cappotto) e lo stesso Dostoevskij scrive uno dei racconti più belli di sempre: Le notti bianche. Tra il 1832 e il 1849 un certo Edgar Allan Poe, oltre a scrivere alcuni dei racconti del terrore più geniali e tutt’oggi destabilizzanti, pone le basi del racconto giallo e poliziesco, attraverso la creazione della figura del detective Auguste Dupin. Poe scrive un solo romanzo (Storia di Gordon Pym, racconto d’avventura per mare, vicino alle storie di Joseph Conrad ma con un tocco magico alla Melville/Stevenson) e diverse poesie (particolarmente rilevanti sono Il corvo e La valle dell’inquietudine). Ne seguiranno grosso modo le tracce diversi scrittori, divenuti particolarmente bravi nella forma breve del racconto, nonostante siano molto conosciuti per aver scritto romanzi di nota fama: da Nathaniel Hawthorne a Charles Dickens, da Herman Melville a George Eliot, da Arthur Conan Doyle a Robert Louis Stevenson, da Guy de Maupassant a Gustave Flaubert, da Joseph Sheridan Le Fanu ad Howard Philips Lovecraft, fino ad altri specializzatisi quasi ed esclusivamente nella forma breve, quali Ambrose Bierce, Charles Nodier, Claude Seignolle. Per alcuni di loro, la forma del racconto diviene una forma d’arte, un’identificazione tale costituita su pochi ambienti e altrettanti personaggi, e spesso e volentieri su di un solo soggetto che funge anche da voce narrante. Da questa corrente ne deriva poi la seguente, appartenente alla prima metà del Novecento che produce opere, a volte, degne più di menzione di molti altri romanzi. Certo, una evoluzione significativa nel romanzo c’è stata, come brevemente anticipato, ma è nel racconto che gli scrittori più importanti riescono ad affinare meglio la loro prosa e a rendere incisiva e fluente la narrazione. Le Fanu scrive Tè verde e Carmilla nel 1869 e 1872, rispettivamente una storia di delirio psicotico dalle morbose atmosfere da incubo, con una capacità di sintesi e di descrizione ambientale eccellenti e che fungerà da fonte d’ispirazione per Stevenson con Il dottor Jeckyll e Mr. Hyde e per il Maupassant del magnifico Le Horla, e una storia di vampirismo al femminile che anticipa con elevate capacità di suggestione stregata Dracula, senza crogiolarsi come farà Stoker, nella forma diaristica di narrazione. I racconti di Poe sono quasi tutti degni di menzione e diviene superfluo indicarne solo una manciata. Stevenson, conosciuto per le sue storie di avventura per mare e terra, scrive un racconto letteralmente agghiacciante (stranamente mai trasposto in un film) dal titolo Janet la storta. Melville scrive Bartleby lo scrivano nel 1853, oggetto di studio e analisi fino ai tempi più moderni, per via della sua riflessione di portata filosofica che innesca nella muta immobilità del suo protagonista, in grado di anteporsi all’ordine costituito chiudendosi in una vuota passività contemplativa del grigiore della vita, quello stesso grigiore che indagherà con grande acume Kafka (specialmente nel suo capolavoro, anch’esso un racconto, La metamorfosi del 1915). In questi racconti appare evidente la tendenza, anche quando non sfrondano nel fantastico o nell’assurdo (vedi i famigerati tre racconti di Flaubert, ad esempio), ad una forte soggettività, ad un’osservazione del mondo che spesso e volentieri ha ben poco di oggettivo e che per questo è in grado di acquisire una potente riflessività sulla sua decadente compromissione. L’opposto di scrittori come Thomas Hardy ad esempio, che pur essendosi dedicati molto marginalmente alla forma del racconto o della novella, eccellono particolarmente nel romanzo, nella capacità di raccontare un mondo conchiuso, i conflitti, le passioni d’individui tendenti alla ribellione rispetto all’ordine sociale costituito della borghesia (e nella netta contrapposizione tra borghesi e proletariato contadino che di frequente irrora il sangue delle donzelle promesse spose ai potenti), e questo è particolarmente evidente nei suoi due lavori-monstrum: Far from the Madding Crowd e The Woodlanders. Cito in particolare questo scrittore perché è a mio avviso lo scrittore che più di tutti riesce a coinvolgere nella forma del romanzo, ad avvicinare il genere a qualcosa di artistico (sono su questa linea forse solo Dostoevskij, Flaubert, Thomas Mann e naturalmente Proust). Persino stimatissimi romanzieri come Henry James (il formidabile Giro di vite), Joseph Conrad (il sublime Cuore di tenebra) e Thomas Mann (l’epopea fastosa e aristocratico-decadente dei Buddenbrook) riescono ad eccellere nella forma del racconto, rispettivamente con La panchina della desolazione (1910), Il duello (1908) e Morte a Venezia (1912), a ennesima riprova di quanto anzidetto.
Ci sono poi due scrittori che invece prediligono i bozzetti, brevi storie di idillii con la natura, narrati in una forma a metà tra la prosa e il saggio, tramite dei veri e propri poemetti in prosa, vale a dire Robert Walser e Katherine Mansfield. Il primo, svizzero, sembra essere il figlio di Stifter e come il suo maestro non disdegna del tutto il romanzo (Stifter scrive Tarda estate, praticamente fuori commercio, in ben 610 pagine). La seconda, neozelandese, vede la narrativa come una prosecuzione idealizzata della poesia, una compenetrazione tra le due forme che dà vita a dei bozzetti di vita idilliaca, tra baie sul mare e rigogliose campagne, capaci di donare pace e armonia al costume e agli animi degli innamorati della vita. Robert Graves, scrittore noto per i suoi studi approfonditi sulla cultura greca e romana, in realtà autore anche di saggi, poesie e riadattamenti di opere di fantascienza, scrive la novella L’urlo, dandolo alle stampe nel 1929, dove tratta il tema dello sciamanesimo e della stregoneria in modo singolare (ne trarrà un grande film il regista polacco Skolimowski nel 1978). Julien Green si cimenta nel racconto a inizio carriera ma eccelle poi nel romanzo, specialmente nel sotterraneo, fosco erotismo imploso dal costume dell’epoca e da un misticismo di natura religiosa presente nel memorabile Il visionario. In Italia, a cimentarsi con particolare successo nel racconto è Dino Buzzati (particolarmente belli e conformi alla sua produzione favolistica sono i noti Sessanta racconti), colui che meglio persegue la tradizione boccaccesca e pirandelliana della novellistica, ma scrive anche degli ottimi romanzi (Il deserto dei Tartari e Un amore). Ma in questo senso non sono poi tanto da meno Calvino e Moravia, Malerba e Landolfi (lo straordinario Racconto d’autunno che prende forma da episodi bellici autobiografici), con alterni risultati, sconfinanti spesso e volentieri nel fantastico o in una potente disamina sui rapporti interpersonali tra uomo e donna (è il caso di Moravia).
Negli Stati Uniti ne scrive molti Ernest Hemingway, divenuto famoso (e sopravvalutato) per i suoi romanzi, che ha dato alle stampe I quarantanove racconti nel 1938, senza lasciare particolari segni caratteristici di una precisa poetica ma piuttosto di un immaginario esotico, tutto sommato, accattivante. Francis Scott Fitzgerald e George Orwell inquadrano con una buona capacità di sintesi ma con diseguali risultati, un esame sulla società dell’epoca, con una discreta capacità di lettura del costume e una minore padronanza stilistica (vedi Fitzgerald), oltre che con una sintesi critica futuristica, capace di cogliere in pieno, con un certo anticipo, la deriva dei regimi totalitari e sul controllo delle masse (Orwell). Si cimentano nel racconto fantastico anche Ray Bradbury (autore di un romanzo distopico di grande importanza quale Fahrenheit 451) e Richard Matheson che nonostante abbia scritto molti racconti di grande efficacia, riesce a rendere ancora più affilato il suo stile e a generare una palpabile tensione con i romanzi (su tutti Tre millimetri al giorno). Sono scrittori capaci di eccellere perlopiù nella forma breve che finiscono per condurre in porto ulteriori soggetti al cinema. In questo senso, un altro scrittore formidabile è John Cheever, sopraffino indagatore del mediocre consumismo e dell’ipocrisia medio alto-borghese, in quello che si cela sotto i tappeti sporchi di villette a schiera con piscine e che in special modo nel capolavoro Il nuotatore (1964) racconta con grande inventiva, forte di una invidiabile capacità di sintesi di natura riflessiva. Cheever è stato autore anche di alcuni importanti romanzi, come Cronache della famiglia Wapshot (1957) ma eccelle nei racconti, raccolti per la prima volta per intero nel 1978. Probabilmente egli rimane a tutt’oggi il miglior scrittore di racconti americano. Karen Blixen, Friedrich Dürrenmatt, Jun’Ichiro Tanizaki, Julio Cortázar e solo in parte, a margine, Jorge Luis Borges (oggetto misterioso della storia letteraria), eccellono anch’essi nelle forme del racconto, la maggior parte dei quali nell’indagare forme di metafisico esistenzialismo, senza riuscire però a scrivere opere capitali. Michail Bulgakov, Heinrich Böll e Bohumil Hrabal, ucraino, tedesco e cecoslovacco, utilizzano un umorismo fortemente associato alla loro cultura nel raccontare storie di deformazione rispetto a una realtà irriconoscibile, capace di prendere la piega di un realismo magico, tipico specialmente della cultura boema e polacca, ma anche, seppur in una chiave un poco diversa, di quella russa (Bulgakov, nella fattispecie, tratta storie di fantascienza nei suoi due racconti più riusciti e paradossali: Cuore di cane e Le uova fatali).
A proposito di fantascienza, genere ricco di romanzi (basti pensare a Herbert Wells, Isaac Asimov, Philip Dick, Stanislaw Lem e colui che si spinge più oltre, James Graham Ballard), non disdegna affatto la forma del racconto (tornando a Bradbury e Matheson, ad esempio), o del romanzo breve (Crash e L’isola di cemento per Ballard) riuscendo ad imprimervi un’incisività maggiore e una sconvolgente critica insita nell’attualità post-apocalittica. Charles Bukowski riesce, soprattutto nella forma del racconto, a imprimere un marchio della sua sudicia e lorda poetica di artista barbone e perennemente sul lastrico, capace solo di finire nei guai e di arrabattarsi letteralmente tra una gita al centro ippico e un’avventura fuori porta, tra un bar ad ubriacarsi e qualche donna su di giri con la quale sollazzarsi, e perché no, rovinarsi ulteriormente. Lo stile sfrontato e greve dello scrittore americano di origini tedesche, con predominanza di particolari a sfondo sessuale, fa scuola, divenendo anche uno strumento d’immedesimazione, specialmente quando tratta il tema dello sfruttamento e del lavoro, degli imprevisti che nel quotidiano rendono tempestose le nostre relazioni con persone e situazioni ai limiti dell’assurdo. Bukowski si cimenta anche nella poesia, sulla scia di Ferlinghetti, tendendo a trattare di più la poesia bassa dell’alcol e quella sublime delle donne. Angela Carter, scrittrice inglese, si specializza in racconti fiabeschi che rileggono favole classiche secondo uno stile visionario e oscuro, una sorta di incubo a occhi aperti, non del tutto privo di umorismo macabro. Anaïs Nin scrive i racconti de Il delta di Venere su commissione ma non vi sfigura di certo e conferisce alle sue storie un erotismo potente ed esplicito (tenterà con risultati alterni di seguirne le orme la francese Alina Reyes), senza raggiungere tuttavia la forza dei diari o la fantasia surreale de La casa dell’incesto. E così via, nel corso del Novecento, fino alla contemporaneità, fase piuttosto confusa, dove torna a predominare la forma del romanzo, senza particolari invenzioni o plausi di originalità.
Alcuni dei migliori scrittori che pubblicano ancora oggi, sono di due o tre generazioni precedenti a quella di adesso (vedi Cormac McCarthy). Negli Stati Uniti Chris Offutt non riesce ad acquisire la solennità, troppo cattedratica e puritana, dei classici John Steinbeck e William Faulkner, nonostante alcuni buoni racconti presenti in Out of the Woods (1999), riconducibili all’ambiente del Kentucky. Vi riesce meglio invece, almeno nei suoi racconti, a generare dei richiami forti, Nickolas Butler (in quelli presenti in Beneath the Bonfire, specialmente nel primo, assolutamente straordinario). La ribollente, e angosciante a tratti, generazione dei vari David Foster Wallace, Thomas Pynchon, Don De Lillo, Paul Auster instilla curiosità e qua e là penetra la coscienza di altre epoche che s’infiltrano in quella attuale con capacità e riverbero, senza però convincere del tutto nelle forme di narrazione adottate o nella prolissità di alcuni romanzi da generazione X (vedi Infinite Jest). Penetrano con maggior convinzione nell’horror Stephen King e Clive Barker. Il primo produce il maggior numero di romanzi divenuti poi dei soggetti per film, rinfocolando la sensazione che campi di rendita più per le intuizioni avute che per le sue effettive capacità di grande autore letterario. Il secondo, decisamente più viscerale e magico, anche per un buon utilizzo quasi musicale della parola, sonda le sfere degli oscuri deliri orgiastici di un’umanità demoniaco-cannibalistica, legata a dimensioni ultraterrene. Mentre in King l’orrore prende forma dal quotidiano, da piccole cittadine come quella di Derry (e per questo non nega la forte influenza di Matheson), in Barker nasce dal subconscio e prende forma nella realtà, perché troppo potente è la latente estraneità della propria identità rispetto all’ambiente circostante. King si diletta perlopiù nei romanzi ma produce racconti di simile, se non superiore valore (vedi A volte ritornano). Barker eccelle nelle raccolte di racconti dei Books of Blood, dati alle stampe tra il 1984 e 1985.
Il panorama internazionale, a parte rarissimi casi (negli ultimi anni quello della scrittrice svizzera Michelle Steinbeck ha destato un certo scalpore, con il suo folgorante esordio), appare piuttosto vuoto e non promette effettivi risvegli. Faticano ad emergere scrittori capaci d’imporre una rinnovata visione del mondo, accompagnata da una certa forza stilistica.
L’unico, e qui mi fermo – e mi si perdoni una sintesi non abbastanza esaustiva di tante correnti poetiche tra le più disparate di più di due secoli di letteratura – in grado, ancora in questi giorni, d’imprimere una fortissima poetica personale, nonostante una certa ripetitività, è lo scrittore austriaco, di origini slovene, Peter Handke. Capace di dividersi tra il romanzo lungo o breve, nel racconto, nei poemetti in prosa, negli aforismi (straordinari quelli che raccoglie, in quello che è un vero e proprio sentire del mondo al di fuori del mondo, ne Il peso del mondo, 1977), nei diari di viaggio e nelle sceneggiature, Handke è un profondo innovatore del sentire e delle forme di racconto (basti pensare a uno dei suoi primi libri L’ambulante, 1967, capace di scomporre come con un bisturi la disposizione logica di un giallo tradizionale).
Lo scrittore che nel corso del Novecento è riuscito forse, più e meglio di quasi tutti gli altri, a cogliere il mistero insondabile dell’universo e degli uomini, a penetrare nelle loro follie e ad estraniarsene costantemente, alla ricerca di quell’Io perduto, ritrovato poi in una sorta di ricomposizione dialettica della parola, del linguaggio, delle forme conflittuali del discorso. Handke è la parola che viaggia e non trova loco. Si addentra in una narrazione più lineare e “classica” nell’intensa fuga del portiere di calcio colpevole di un delitto in Prima del calcio di rigore, fino ad arrivare al nomadismo spirituale, che svela qualche legame tanto con Robert Walser, quanto con Hermann Hesse, di scritti di breve-media lunghezza quali L’assenza, Il cinese del dolore, Pomeriggio di uno scrittore. Handke racconta di viaggi, di discese e salite, di sogni e incubi concreti, di fughe e perdizioni, soprattutto. Ci parla a noi tendendoci la mano, nonostante per gran parte ci si possa sentire smarriti. Le direzioni possono essere diverse ma il percorso sarà unico e non esente da incontri inattesi (come quelli dei racconti del connazionale Robert Musil o degli Oggetto quasi del cantastorie metafisico Saramago) e fantasmi vivi. Un falso movimento (parafrasando la sceneggiatura scritta per l’omonimo film di Wenders, con il quale collabora per la sceneggiatura del suo film Il cielo sopra Berlino) che non mette radici, nel tentativo di elevare i racconti di vita e di morte, a una poesia puramente contemplativa.
Nella forma del racconto riesce così ad avere la meglio la poesia pura, secondo la lezione romantico-decadente, non contaminata dagli interessi politico-morali, cosa che nel secolo precedente ha finito spesso per condizionare il lavoro dei romanzieri di maggior richiamo. Simbolicamente, le due fasi si confondono di frequente, ma è quando osano separarsi che marcano linee di profonda risonanza.    

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