“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 26 February 2022 00:00

Una buona ragione

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Quei due cugini, Matteo e Toni, vivevano a Trichiana, un paese con poco più di quattromila anime, posto al centro della Valbelluna tra le Prealpi e il Piave.
Trichiana ha dato i natali a personaggi di riconosciuto prestigio nell’editoria e nella cultura, così come nel giornalismo e nello sport. C’era da esserne orgogliosi, ma non bastava. Semmai era uno stimolo per mettersi alla ricerca del proprio successo.

Così Toni se ne andò all’estero, poco più che trentenne, dalla piccola frazione di Morgan, dove aveva una casa. Girava voce che si fosse messo in mente delle idee tutte sue su come fare fortuna tra gente straniera. Matteo, di cinque anni più giovane, aveva terminato gli studi.
Per qualche anno Toni non si fece vivo. Dove fosse andato a cacciarsi nessuno lo sapeva, neppure Matteo. Nel bar al centro del paese ogni tanto qualcuno si ricordava di lui, e allora ognuno diceva la sua. C’erano due fratelli un po’ balordi che quando alzavano il gomito saltavano su a dire di avere visto in Germania un tipo che gli somigliava molto, ma se cercavi di saperne di più si affrettavano a farfugliare che in realtà non erano tanto sicuri che fosse lui. Una gelida mattina d’inverno, Matteo se lo vide sulla soglia di casa sua. “Vorrei fermarmi qualche giorno da voi”, disse Toni sorridendo. “Ho bisogno di riposarmi. Chiedi ai tuoi genitori se non hanno nulla in contrario”.
Matteo e i suoi furono felici di ospitarlo. Gli indicarono un posto ben riparato dove parcheggiare la grossa auto. L’auto aveva la targa tedesca. Toni passò gran parte del tempo a dormire. A tavola parlava poco, e ogni volta che gli domandavano cosa avesse fatto in quegli anni dava la solita risposta: “Ho lavorato molto, un po’ dappertutto”. Una notte restò fuori casa. Rientrò il giorno dopo all’ora di pranzo. Quello stesso pomeriggio ripartì, come quando era arrivato. “Avrete presto mie notizie”, disse a mo’ di saluto mentre s’infilava in auto. Quando pochi mesi dopo Matteo gli scrisse di volersi anche lui trasferire all’estero, Toni per qualche istante stentò a crederci. Sebbene Matteo avesse ormai l’età per cercarsi un lavoro, quell’idea di lasciare i luoghi della sua vita non gli era mai passata per la mente. Figurarsi adesso, che si era fatto una bella compagnia di amici con i quali divertirsi un sacco. Senza contare che Toni gli era parso alquanto sfuggente, l’ultima volta che si erano visti.
Emigrazione. Matteo ne sentiva parlare fin da piccolo. C’erano passati tutti in famiglia. Prima sua nonno per una vita intera da una parte all’altra al di là del confine. Poi i genitori. Loro, però, non avevano resistito molto. Si erano fatti qualche anno nella Sambre-Mosa. Il padre in miniera, la madre a servizio di una famiglia belga piena di marmocchi che strillavano tutto il giorno. Se ne tornarono al paese appena la madre seppe di essere incinta. Con i pochi soldi risparmiati presero in gestione un malandato distributore di carburante. Sopra c’era un appartamento di due stanze dove si sistemarono.
Matteo era cresciuto con la consapevolezza che in passato c’era lavoro per pochi nel profondo nord del suo Paese, e che allora mettersi in viaggio era l’unica cosa. Ma adesso, per quanto riguardava lui, di espatriare neanche a parlarne. Oggi qui sta cambiando tutto. Questa non è più un’area depressa come una volta. Col diploma di geometra in tasca potrei fare l’imprenditore. Basta avere iniziativa. Stavolta, però, dovrei almeno chiedere un consiglio a chi se ne intende. Ci sono società specializzate che danno un servizio di consulenza ln questi casi, si era detto. Ma alla fine non fece niente, era abituato a tenersele dentro le sue questioni. Tuttavia, si rendeva conto che presto sarebbe venuto il momento di fare i conti con sé stesso. In certe situazioni la sua insicurezza gli dava un senso di vuoto che lo urtava. Bella trovata, quella di Toni, si disse. E nient’altro.
Un altro pomeriggio stava per iniziare. Quella, di solito, era l’ora più opprimente, per lui. Non reagì. In fondo non c’era ragione di dare peso all’inattesa offerta di Toni. E nell’abituale stato d’inerzia, ormai assopito, ebbe come l’impressione di udire la voce del cugino che ripeteva il contenuto del suo stesso scritto: Ehi Matteo ti ho osservato, sai, l’inverno scorso in vacanza da voi. Non sei cambiato per niente da quando eri un ragazzino, sempre pigro e svagato. Di’ un po’, vuoi farmi credere che stai aspettando che i tuoi vecchi vadano in pensione e prendere tu in gestione quel piccolo distributore? Non ti ci vedo a maneggiare tutto il giorno pompe di benzina, per quattro soldi. Naturalmente, preferiresti passare il tempo a leggere quei tuoi libri che ti piacciono tanto, e spassartela di sera con gli amici. Non è così? Ma, caro cugino, è ora che tu pensi a qualcosa di concreto. Guarda me: sono venuto in Germania con le pezze al culo. Ho lavorato come cameriere in un ristorante, quanto bastava. Poi un nostro compaesano che aveva aperto una gelateria in un sobborgo della città dove adesso vivo volle che mi trasferissi a lavorare da lui, anche lì avrei fatto il cameriere. Andai alla gelateria con in testa un’idea che ci avrebbe permesso di incrementare le vendite. La mia intenzione era di trasformarla in una gelateria “ecologica”. Cominciammo a produrre gelati senza conservanti né coloranti chimici; fu subito un successo. Nel giro di pochi mesi gli affari andarono alle stelle. Diventai socio e aprimmo una seconda gelateria in un’altra città. Adesso mi serve un uomo di fiducia, perché voglio rilevare i due locali. E siccome il mio socio sta invecchiando, ho pensato a te. Vieni! Non puoi sprecare un’occasione come questa. Comincerai come ho fatto io da cameriere, ma avrai anche il compito di controllare il personale. E, se ci saprai fare, un giorno o l’altro potrai metterti in proprio”.
Toni aveva una forte influenza su Matteo, non solo per via dell’età. Erano cresciuti insieme. Giorno dopo giorno Toni aveva fatto scoprire al più giovane cugino la cose della vita, mostrando talvolta un’eccessiva curiosità per quelle più intime. Come i primi turbamenti dell’adolescenza che col passare degli anni avrebbero finito per segnare profondamente il carattere di Matteo.
Di scuola, a differenza di Matteo, Toni ne aveva fatta poca, ma sapeva intuire i pensieri degli altri senza che loro se ne accorgessero. Era un’arma formidabile che lui usava sapientemente quando c’era una discussione o una decisione importante da prendere. In un modo o nell’altro riusciva sempre a spuntarla sugli altri. A detta di tutti era nato per vincere. Questa volta, però, la sua lettera non persuadeva Matteo. Anzi, gli dava la sensazione di dover fronteggiare da un momento all’altro una complicazione dagli esiti imprevedibili. Non sopportava le complicazioni. E quel pomeriggio riuscì a risollevarsi con insolita fatica dal torpore postprandiale. Qualcosa con Toni non funzionava. Un altro giorno inutile, pensò. E disse a sé stesso: dovrei decidermi di aiutare seriamente i miei genitori al distributore, anziché perdermi nelle mie fantasticherie. È un lavoro duro per loro, e mi sono accorto che gli anni si fanno sentire. Poi andò in bagno a rinfrescarsi la faccia, e uscì di casa senza avere idea di cosa avrebbe fatto per tirare sera.
Per un po’ non ci pensò più. Ma una notte si svegliò di colpo avendo come la sensazione che stava per accadere qualcosa di inaspettato. E come se il suo cervello agisse in totale autonomia dal resto del corpo, si accorse che era sul punto di fare ciò che in un primo momento gli era parso semplicemente sgradevole. C’era un che di preoccupante nell’aria, ma non voleva pensarci. Me ne vado all’estero, e facciamola finita, disse fra sé.
Per non svegliare i genitori Matteo fece le poche cose necessarie stando attento a evitare ogni rumore. Si vestì in fretta: jeans, felpa e scarpe da ginnastica. Nello zainetto il beauty e un paio di libri. Dopo aver controllato che nel portafoglio vi fossero abbastanza soldi per il viaggio lasciò una lettera di saluti ai suoi, con poche parole si scusava per non averli informati prima, ma forse era meglio così e in ogni caso si sarebbe fatto vivo presto. Uscì di casa lasciando la porta socchiusa e s’incamminò verso Belluno. Lungo la strada un bar stava per aprire. Matteo conosceva il proprietario. Entrò e se ne stette appoggiato al bancone per qualche minuto in attesa che la macchina del caffè si scaldasse. Un ragazzo che era sceso dal furgone lasciando il motore acceso entrò di corsa nel locale. “Buongiorno a tutti”, disse con fare allegro, e depositò su una sedia vicino alla cassa i giornali che portava ogni mattina. Poi filò via. Matteo scelse il suo quotidiano preferito e diede un’occhiata alla pagina sportiva. Il giornale odorava di fresco. L’uomo del bar gli fece cenno di sedersi al tavolo dove aveva posato la tazzina e lo zucchero. Il caffè era buono, e Matteo cominciava a sentirsi in forma. Giunto a Belluno dovette espettare molto prima di partire. Dopo viaggiò un paio d’ore per raggiungere la stazione dove avrebbe preso la coincidenza per la Germania. Lì l’attesa fu più lunga, e per ingannare il tempo comprò qualcosa da leggere all’edicola. Andò a sedersi nella sala d’aspetto. Pochi istanti dopo che il treno si avvicinasse entrò nello scompartimento dove aveva prenotato un posto vicino al finestrino. Si guardò intorno con aria distratta senza salutare gli altri passeggeri. Un sacerdote, un uomo distinto di mezza età e una giovane ragazza che subito gli lanciò uno sguardo di quelli che lui conosceva bene, erano i suoi compagni di viaggio. Se ne stavano seduti di fronte a lui in silenzio. Matteo pensò di sfogliare il giornale, sapendo che di lì a poco si sarebbe addormentato.
Quando si svegliò non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Nella fretta di partire si era dimenticato l’orologio. Peccato, glielo aveva regalato una brunetta dagli occhi sfavillanti che aveva, diciamo così, conosciuto al mare l’anno prima. Si mise a guardare fuori dal finestrino. Il treno correva veloce abbandonando dietro di sé tante piccole case ben allineate delle quali l’ora ormai blu dissolveva le forme, poi imboccò una valle stretta tra montagne che col calare del sole lasciavano solo immaginare le loro sagome. A Matteo il buio non piaceva. Una ripetuta contrazione delle labbra gli fece temere che qualcosa non andava. Quel particolare disturbo gli capitava ogni volta che non riusciva a rendersi conto della causa di un malumore improvviso. Chissà, forse ora dipendeva solo dal fatto che il traballante carrello delle vivande tardava ad arrivare. Passò ancora una buona mezzora e, finalmente, facendosi precedere da un tocco del suo campanello, il cameriere si fermò davanti allo scompartimento. Matteo comprò un panino con prosciutto crudo e una Coca-Cola. Mangiò con svogliatezza mezzo panino, bevve tutto d’un fiato il bicchiere di coca e si avviò alla toilette. Tornato al suo posto, gli parve che il sacerdote e il distinto viaggiatore non avessero cambiato posizione né espressione del viso da quando erano partiti. Due mummie, pensò. La ragazza gli dava l’impressione di essere a disagio. Passava da una mano all’altra una rivista che nervosamente arrotolava in continuazione.
Matteo aprì lo zainetto e tirò fuori un libro. Voleva leggerne qualche pagina, ma all’improvviso il sacerdote si alzò e senza dire una parola spense la luce dello scompartimento. Non mi resta che dormire, decise Matteo. Si accomodò per bene contro lo schienale e si addormentò di nuovo. Il suo sonno, come al solito, fu profondo.
Alle otto del mattino dopo, brividi di freddo lo svegliarono bruscamente. Udiva persone che parlavano una lingua a lui sconosciuta. I suoi compagni di viaggio erano spariti. A malapena riuscì a leggere sul cartello segnaletico della stazione il nome della città. Era arrivato. Balzò in piedi, uncinò lo zainetto dal portabagagli e si precipitò fuori dallo scompartimento, per poco non investì una vecchia coppia che si muoveva a fatica nel corridoio, l’uomo trascinava una pesante valigia alla quale la donna si appoggiava con una mano tenendo stretto nell’altra un ombrello che usava come bastone per mantenersi in equilibrio. Matteo si guardò attorno ansando un po’. Folate di gente si susseguivano nei corridoi provocandogli un senso di inquietudine Per la gran ressa non riusciva a distinguere Toni. Ci volle qualche minuto prima che l’affollamento si diradasse. Di colpo si sentì sollevato, aveva visto Toni che lo fissava con un sorriso enigmatico standosene appoggiato a una colonna della pensilina.
Salirono sulla Mercedes di Toni. Per qualche istante tra loro fu silenzio. Matteo non aveva una gran voglia di parlare, si sentiva impacciato. Toni si mise a filare sulla tangenziale. Fu lui a cominciare, una raffica di parole, senza interruzioni, e in pochi minuti gli disse tutto, o quasi, della sua vita in Germania. A Matteo quel modo sbrigativo non piaceva per niente. Ma non aprì bocca. Aveva notato qualche contraddizione nel racconto di Toni.
“Vedrai, qui ti troverai bene in tutto. Certe ragazze poi...”, disse Toni.
“Lo spero”, replicò Matteo, senza aggiungere altro.
Dall’alto della tangenziale Matteo guardava la città che si estendeva a vista d’occhio. Pensò che neanche a mettere insieme mille paesi come il suo si potesse arrivare a tanto.
Superato lo svincolo giunsero alla periferia occidentale. Toni parcheggiò l’auto in uno slargo di palazzine bianche.
“Ecco, vedi quel viale alberato?”, chiese Toni. Matteo annuì.
“Là in fondo”, proseguì Toni, “c’è la gelateria che ho aperto per prima. È la più piccola della due, ma anche la più importante per me. Capisci quello che intendo dire? Dopo, tutto è stato molto più facile. Lanciò uno sguardo a Matteo, e aggiunse sottovoce: “Beh, diciamo così che il giorno che ho lasciato il paese ho pensato bene di nascondere nella valigia qualcosa che poi mi avrebbe aiutato molto. Era solo una specie di sogno, come succede a ogni emigrante che vuol farsi rispettare”. Rialzando il tono continuò “L’altro locale l’ho messo su a circa cento chilometri da qui. Settimana scorsa ho comprato le quote del mio socio, che si è ritirato a vita privata”, e concluse con voce innaturalmente sommessa che sorprese Matteo: ”Adesso le due gelaterie le ho in mano io, e nessun altro. Mica male, no?”. Matteo fece un mezzo sorriso.
Stavano ormai per imboccare il viale, quando Matteo vide quella cosa situata troppo vicina alla gelateria. Era un fabbricato fatiscente, dalla forma insolita, così almeno gli sembrò.
Toni si accorse subito del turbamento di Matteo. “Non farci caso”, disse, è un ostello per immigrati extracomunitari. Visto da fuori è davvero malconcio, e dentro è anche peggio. Basti pensare che le tubature dell’acqua si fermano al primo piano. Negli altri due piani s’arrangiano in qualche modo portando su e giù l’acqua con secchi e catini. Per giunta l’impianto elettrico ogni tanto salta. Ma è brava gente, tutto sommato, e non danno nessun disturbo. Si alzano all’alba per recarsi al lavoro in una fabbrica di auto, quasi due ore di pullman. Rientrano che è già buio per via degli straordinari, e nei giorni di riposo se ne stanno rintanati nelle loro stanze piene di materassi e cianfrusaglie di ogni genere”.
Il basamento della gelateria era decorato di beole color rosso tenue che accanto al perlinato verdeazzurro della parte superiore conferiva all’edificio un’insolita armonia. Largo e digradante, il tetto presentava una deliziosa alternanza di coppe arancioni e travi di legno scuro. Fuori, la terrazza con tavolini e sedie per la bella stagione.
Sulle prime il locale fece una buona impressione a Matteo, ma come per istinto il suo sguardo si volse all’ostello. Quel color grigio sporco e le finestre che sembravano piuttosto nere orbite prive di occhi lo fecero sentire a disagio. Si sforzava di capire le ragioni del suo malessere. Qualsiasi ipotesi facesse gli sembrava inverosimile.
Il cielo intanto si era offuscato. Alzò gli occhi osservando le nuvole che si stavano abbassando velocemente e vide teso tra il tetto dell’ostello e quello della gelateria un grosso tubo bluastro segnato da profonde fenditure.
Bisognava intervenire, Toni non ne dubitava, c’era il rischio che Matteo si facesse un’idea sbagliata, e disse: “È solo un rudimentale cavo elettrico. Serve a quei poveri cristi per non restare senza luce quando il loro impianto non funziona. Insomma, ho permesso che si allacciassero ai cavi del mio locale per l’emergenza”, troncando con fare sornione: “Chiamiamola solidarietà tra immigrati”.
Toni sistemò Matteo in una piccola stanza dell’attico sopra la gelateria. Matteo diede un’occhiata di sfuggita al mobilio, soffermò con un certo interesse l’attenzione sul suo nuovo letto e sulla soffice moquette dai colori caldi. Non disse nulla di particolare, salvo chiedere quando avrebbe cominciato a lavorare.
“Domani stesso”, rispose Toni. “E sveglia alle sette, mi raccomando!”.
In quel momento Matteo decise di scrivere due righe ai suoi.
Nei primi mesi sul lavoro tutto andò liscio. Matteo imparò il mestiere, serviva con abilità ai tavoli, qualche volta anche al banco, ed era simpatico ai clienti.
Il brutto veniva quando staccava dal lavoro. La sera, sul tardi, saliva in camera sua. Un gesto automatico e il telecomando è già puntato sul televisore, subito si accende il canale dove trasmettono documentari musicali.
Durante il giorno, nelle ore libere non sapeva cosa fare. Si sentiva all’angolo, come un pugile con poche speranze di arrivare alla fine dell’incontro. Fu quando conobbe Ute che qualcosa cambiò nella sua vita. Lei, Ute, era una ragazza del luogo d’un paio d’anni più giovane. L’aveva assunta Toni come aiuto cameriera quando l’immigrato turco che prima svolgeva le stesse mansioni se n’era andato a lavorare alla fabbrica di automobili.
Matteo e Ute si ignorarono per qualche settimana. Agli inizi Ute lavorava dietro il banco, alle confezioni di gelati da asporto. Il che non spiaceva a Matteo che non amava troppo parlare col resto del personale, se non per spiegare con poche parole modifiche che Toni apportava agli ordini di servizio. E poi c’era il problema della lingua. Sebbene quando studiava da geometra fosse molto portato per l’inglese, ora col tedesco non faceva nessun progresso. La cosa non sfuggì a Toni, che ne era contrariato. Una sera che il locale era affollato di clienti, Toni prese in disparte Matteo e gli disse freddamente: “Se proprio non te la senti di parlare di più con la gente, comprati almeno un manuale o qualcosa del genere. Ce ne sono diverse versioni in libreria, puoi scegliere”.
Matteo comprò un corso di tedesco in dvd. Qualche giorno dopo Ute si offerse di aiutarlo a studiare. Matteo ne fu sorpreso, e subito gli venne il dubbio che Toni stava manovrando la situazione. Tuttavia, era curioso di scoprire se vi fosse sotto qualcosa. Così accettò e si mise d’accordo con la ragazza per vedersi a casa di lei durante l’intervallo del pomeriggio.
Bastarono pochi giorni, e Matteo sentì crescere l’interesse per lo studio. Una notte era stato sveglio cominciando a pensare a Ute, come prima non gli capitava. Lei abitava nel quartiere delle palazzine bianche vicino alla galleria. L’appartamento era piccolo ma pieno di luce. Matteo notò che in quella casa Ute si spostava silenziosamente, con lente movenze, qualsiasi cosa facesse. Percepiva quel silenzio in maniera palpabile. C’era nell’ambiente, pensava, un’aria di ambigua leggerezza dovuta alla presenza della ragazza.
Durante la lezione Ute se ne stava seduta sul divano e azionava il lettore Samsung, mentre, adagiato sulla poltrona, Matteo seguiva concentrato i capitoli consultando le pagine del manuale corrispondenti al dvd che lei di tanto in tanto interrompeva per ripassare le pagine più difficili.
Un giorno, a poco meno della metà del corso, Ute gli disse che era molto bravo nell’apprendere.
“Sì”, fece lui.
Ute rise coprendosi il viso con un grazioso gesto delle mani, come a voler nascondere un improvviso rossore. Matteo posò il manuale e le si avvicinò sul divano allungando una mano sulle gambe di lei. Lei lo lasciò fare.
Gli affari intanto prosperavano. Toni aveva in mente un’idea di cui non aveva mai parlato a nessuno. Ci volevano molti soldi per quel suo progetto. Giocò d’anticipo pensando che fosse il momento giusto per fare il colpo che da tempo meditava. Si sarebbe trasferito nell’altra gelateria, quella più grande, per aprire una nuova ala del locale da adibire a pub in perfetto stile irlandese, una moda che si sarebbe presto diffusa tra i giovani. Quindi propose a Matteo di prendere in gestione la gelateria dove lavorava, con l’intesa che a partire dalla prossima stagione estiva ne avrebbe rilevato una piccola quota per diventare socio di minoranza. Così me lo lego a doppio filo, pensava Toni.
Matteo, senza pensarci troppo, rispose che ci stava, e dovendo decidere la forma di pagamento scelse le rate annuali. In quel modo avrebbe potuto organizzarsi con calma, evitando ogni rischio.
“D’accordo. Ma con i dovuti interessi, naturalmente”, fu la risposta di Toni.
Venne il giorno della partenza di Toni.
Matteo aiutò il cugino a caricare le valige sull’auto parcheggiata fuori dal cortile a pochi passi dall’ostello. Come sempre, quell’edificio evocò nella fantasia di Matteo esistenze anonime, quasi surreali. E del resto, a causa dei diversi orari di lavoro, rare volte gli capitava di incontrare quei taciturni individui dalla pelle scura, dai quali in ogni caso si teneva lontano. Se non altro perché gli davano la fastidiosa impressione di appartenere a un mondo a lui estraneo, forse addirittura ostile.
Partito Toni, Matteo temette di non farcela. La sua vita subì un totale mutamento, ma presto si accorse di essere all’altezza dell’impegno che si era assunto. Le nuove responsabilità sprigionarono tutta la voglia di fare che da tempo, senza neppure averne consapevolezza, teneva racchiusa dentro di sé.
Fu energico, efficiente. Riorganizzò in maniera quasi maniacale l’intero ciclo di lavoro della gelateria. Ma oltre agli affari che aumentavano, c’erano novità. Gli succedeva qualcosa che non aveva mai provato prima. L’intero ambiente dove si scandivano le sue ore sembrava essersi fatto più luminoso, in qualunque situazione si trovasse. A volte, senza alcuna apparente spiegazione, capitava che sfiorasse delicatamente con le mani i comuni oggetti della vita di ogni giorno per la semplice ragione che ormai gli erano diventati famigliari. Stava vivendo una sorta di processo di adattamento di cui non era del tutto consapevole ma che comunque gli procurava piacevoli momenti di serenità.
Si era trasferito nell’appartamento più grande dell’attico, quello che prima era occupato da Toni.
Ute aveva preso a fermarsi da lui quasi ogni notte. Di giorno nei turni di riposo facevano lente passeggiate in bicicletta lungo i viottoli costeggianti il fiume che si perdeva fuori dalla città. Stavano bene insieme. E Matteo cominciò a fare confusi progetti su Ute.
L’incendio divampò in piene notte. L’ostello bruciava. Matteo fu svegliato da Ute, vide negli occhi chiari della ragazza l’ombra della paura, e per qualche istante si sentì preso da un paralizzante stordimento. Da fuori, deformati dalle pieghe delle tendine, bagliori rossastri perforavano i vetri delle piccole finestre dell’attico traversando l’intera stanza fino a dissolversi sulle pareti. Udiva l’ovattato rumoreggiare proveniente dalla strada al quale sul momento non seppe dare un significato. Ute lo trascinò giù per la scala mentre lui ancora si stava vestendo.
Corsero verso l’ostello. A poca distanza furono bloccati da un cordone di poliziotti che presidiavano la zona. Videro che le fiammo avevano invaso l’edificio, il tetto in gran parte bruciato, mentre dalle cavità di ciò che erano state le finestre uscivano disperdendosi nell’aria nuvole di fumo denso e acre.
Le ambulanze stavano portando al più vicino ospedale gli ultimi feriti.
“Due sono i morti”, qualcuno gridava. “E i feriti, gli intossicati quanti sono?”.
Il mucchio degli scampati era ammassato in fondo al viale. Più numerosi i turchi, scuri e di statura bassa. Qua e là isolati spilungoni dalla pelle nerissima e grandi occhi. Senegalesi? si chiese Matteo.
Le donne, alcune con accanto i figli piccoli, erano le più silenziose. Ognuno aveva sulle spalle o vicino a sé quel poco di masserizie e oggetti personali che era riuscito a strappare all’incendio.
Matteo alzò lo sguardo sul tetto ormai divorato dell’ostello. Fece appena in tempo a distinguere una fulminea lingua di fuoco che percorreva il breve tratto tra l’ostello e la gelateria. Si era incendiato il cavo elettrico che congiungeva la parte superiore dei due edifici.
Fu questione di attimi. I travi della gelateria presero fuoco per primi. Le asticelle di legno che rivestivano la facciata svilupparono violentemente le fiamme che in un batter d’occhio si diffusero nelle sale, dove dopo la chiusura, le sedie erano state poste sopra i tavolini per le pulizie del mattino.
I vigili del fuoco, ancora intenti a spegnere gli ultimi focolai, non fecero in tempo a intervenire.
Ute si teneva stratta a Matteo. “Distrutti tutti e due, l’ostello e la gelateria” fece lui laconicamente.
L’indomani mattina i giornali riferirono che la polizia sospettava che l’incendio all’ostello fosse opera di un gruppo di ‘teste rasate’. Fatti del genere si erano verificati qualche mese prima in altre località, dove tra l’indifferenza di buona parte della gente del posto non vennero mai scoperti i colpevoli nonostante alcuni indizi fossero abbastanza chiari.
Matteo decise di trasferirsi per un breve periodo a casa di Ute. Avrebbe pensato dopo a cosa fare. Per la prima volta da quando aveva messo piede in quella terra straniera avvertiva un vago desiderio di tornarsene al suo paese. Ma a che fare? E se le indagini avessero preso una brutta piega?
Di lì a pochi giorni lo raggiunse Toni. “Non preoccuparti, Matteo”, disse per prima cosa ostentando tranquillità. “C’è l’assicurazione, e saremo risarciti di tutto quanto. Appena possibile faremo costruire un locale ancora più bello, vedrai. Ci sarà molto lavoro per voi due, e tante soddisfazioni. Poi quando avranno rimosso le macerie non avrete più sotto gli occhi quell’ostello di merda!”, gli sfuggì a denti stretti.
Toni ripartì promettendo che al più presto sarebbe tornato a trovarli con buone notizie.
Dal canto suo, Matteo si sentiva assalito da un groviglio di dubbi, sospetti su chi poteva avere combinato quel disastro. Era ormai al punto che non ce la faceva più a mettere insieme i pensieri in qualche concatenazione logica. Se la cavò a modo suo. Inutile tormentarsi. Tanto ha detto Toni, no?, si disse illudendosi di liquidare così ogni incertezza.
Quelli che seguirono furono per Matteo giorni di tedio. La mattina si alzava molto tardi, e subito si trascinava sul divano del soggiorno restando disteso per ore davanti al televisore sempre acceso. Una notte ebbe un incubo: disposti come a raggiera attorno a un cerchio di fuoco che bruciava sul selciato c’erano lui e Ute, alla loro destra una lunga fila di esseri somiglianti ai turchi dell’ostello, più in là figure alte e nere dalle spalle ricurve, e da ultimo, appartato, Toni completava quella geometrica composizione umana. Tutti se ne stavano lì in silenzio a fissare l’abbagliante cerchio di fiamme che inibiva qualsiasi movimento.
Fu generale la sorpresa, e liberatoria da cattivi pensieri, quando dopo due settimane la polizia informò Toni che, fatti i dovuti controlli, era stato accertato un accidentale malfunzionamento del cavo elettrico, con il conseguente svilupparsi delle fiamme.
Da parte sua, Matteo si sentì pervadere da un senso di quiete. Moriva dalla voglia di abbracciare Ute.
Toni non perse tempo, e si recò nell’ufficio del broker assicuratore. Tornò dopo poche ore sventolando con voluta lentezza l’assegno tenendolo stretto tra l’indice e il pollice, e disse: “Un bel gruzzolo, no? Oggi stesso andrò dall’architetto per dare il via al progetto. In primavera sarà pronta la nuova gelateria. Ce l’abbiamo fatta. Che ne dite?”.
Mentre le parole di Toni si perdevano nell’aria, lanciando un luminoso sguardo a Ute che gli puntava gli occhi addosso, Matteo si sorprese a pensare che era ormai il caso di mettere un nuovo impianto di autolavaggio... là alla stazione di servizio dei suoi.
Fuori  il tempo cominciava a schiarirsi.

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