“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 13 January 2022 00:00

Una stanza piena di desiderio d’abbandono

Written by 

 Cos’ha?
Ho freddo.
Non ha freddo.
Ha paura. È un processo di
spersonalizzazione di cui è succube.
Si rassicuri. Io non la lascerò
[...]
Io prima non avevo mai paura.

   

Martone sceglie portare in scena Il filo di mezzogiorno, un libro di Goliarda Sapienza, autrice, perlopiù, conosciuta per un altro libro, L’arte della gioia. Più conosciuta come scrittrice (“Ma perché, io scrivo? Ma sì, novelle, poesie, dove sono? Io le devo cercare, sì, scrivevo, non recitavo più, quanti anni fa, quanto tempo fa, non mi ricordo, ma sì, adesso mi ricordo [...]. Citto mi spinse, come tanti anni prima mi aveva spinto fuori quel cerchio sordo della follia di mia madre [...] perché dovevo continuare ad appassire in quei gesti sbiaditi come fiori di carta?”), in realtà, l’intellettuale catanese è stata anche un’attrice con all’attivo alcune pellicole, in ruoli minimi, soprattutto negli anni ’50.

Questo elemento, probabilmente, aiuterà a comprendere l’interessamento e di Martone e della sua protagonista (una Donatella Finocchiaro che brilla, sul palco, di luce propria oltreché riflessa dall’altrettanto luminescente Roberto De Francesco, ma ci torneremo), alla luce del quale si acclara l’incredibilmente forte motivazione che conferiscono alla pièce, investiti di un coinvolgimento e un’adesione che ne ha reso possibile la mimesi totale.
È proprio l’iniziazione attoriale di Sapienza che si presta, non casualmente, a incipit della messinscena. Donatella Finocchiaro fende le quinte proponendo i colloqui all’accademia teatrale di Roma di Goliarda Sapienza, a seguito della cui ammissione partirà, insieme alla madre (“Cos’è la parola madre, per lei?” e scoppia in un pianto intellettuale “non pensi a sua madre, pensi a sé stessa [...] queste erano idee di sua madre”, “non poteva prenderla a modello o ne sarebbe rimasta schiacciata [...] strapperò sua madre da sotto il cuscino, così capirà che si deve vivere senza dipendere dagli altri”), verso il Continente/la Capitale, portandosi, in dote, quel retaggio fortissimo con l’Isola/Madre, che è un cordone ombelicale che non si lascia tranciare, e che tanto segno, ancora, porterà di sé nella vita dell’attrice/scrittrice. I suoi anni sono quelli forti e cruciali di un’Italia che vive il fascismo (“il fascismo è caduto?”), ma soprattutto l’antifascismo, la guerra, e poi la battaglia dell’affermazione dei diritti civili e politici (non ultimi, anzi, primissimi, quelli della donna che prova, finalmente, ad affermarsi), con la militanza politica dell’immediato dopoguerra, rinascita vera di un periodo di grandissimo splendore, in cui tutto sembrava possibile, la cui spinta propulsiva verso un Paese civile e nuovo verrà sedata da una destra democristiana che spegnerà questa bellissima onda.
L’opera parla, molto, anche di questo, riuscendo a restituire uno spirito del tempo di cui oggi la memoria andrebbe tenuta quanto più possibile viva (“non ci si sposa fino a quando non verrà concesso il divorzio [...] lei parla come un uomo, paternalisticamente, per sottomettere o sedurre le altre, quando io non penso che ci sia tutta questa differenza fra uomini e donne, si tratti di individui e individui”), per ricordare, a noi stessi e a chi verrà dopo di noi, che c’è stato un tempo in cui il cambiamento è stato possibile (quando il nemico era più visibile e meno serpeggiante e artificioso ma anche la consapevolezza di noi e del nostro potenziale più viva). Attraverso, però, un montaggio degli eventi, ad alternanza, scopriamo ben presto quella che era la premessa dell’opera: una memoria frammentata che, a fatica, in modo tortuoso, con un andirivieni, corsi e ricorsi, la seduta psicanalitica che dura anni riesce, in qualche modo, a ritessere, bypassando traumi e voragini. Quest’altalenanza viene restituita anche dal gioco delle luci di Francesco Adinolfi, che illumina questa doppia veduta di interni, duplicata e riflessi, dall’interno e dall’esterno, e che risalta il grande lavoro del comparto scene (Mauro Rea, Teresa Cibelli, Alessandro Amatucci) e macchinisti (Enzo Palmieri, Domenico Riso), con questa veduta di un doppio interno rovesciato che non fa che sollevarsi e avanzare e retrocedere, avvolgendoci e allontanandosi da noi (“finalmente un teatro e un pubblico vero”, parole che risuonano più volte, fra le semi-aperture-chiusure a fisarmonica degli ultimi due anni, parole di Finocchiaro? Sapienza? Martone? Noi?), scollandosi e levitando, con un effetto straniante che ricorda la critica borghese, un passo dentro e uno fuori, di uno sbilenco Tati. La veduta di interni si fa così distorta e sembra quasi dalle fondamenta stessa il subcosciente della nostra protagonista (ma anche del suo analista) ribolla e si sollevi, scoprendo l’inconsistenza di un solo apparentemente confortevole focolare domestico, specchio di quell’istituzione, la famiglia borghese, al tempo rifiutata, e che poi è tornata a essere la prigione domestica nella quale ci siamo rassegnati ad appassire (in tempi di smart working e DAD un palco che imita una casa non può che esser ancor più soffocante e asfissiante, con le sue finestre con le tapparelle sempre calate e che danno sul niente d’una parete di fondo vuota), e noi, che la quarta parete la rompiamo per spiare l’intimismo di un incontro profondo, rendendoci voyuer sempre meno passivi.
Roberto De Francesco è sulla breccia da troppo tempo per riuscire a presentarlo come meriterebbe: tantissimi i suoi trascorsi col meglio del cinema italiano (Da Moretti allo stesso Martone, e più volte, ne è ormai affezionatissimo e affidabilissimo collaboratore che, come un killer seriale, non fa che esser richiamato sullo stesso luogo del delitto, a ritmo incalzante), ultimi dei quali, val la pena citarli solo perché più freschi nella memoria dello spettatore: amministratore del carcere in disarmo nel bellissimo Ariaferma di Di Costanzo e il già mitico figlio dell’ancor più mitica Imma Tataranni, Signora Gentile in È stata la mano di Dio (perché anche con Sorrentino sono tanti i trascorsi di De Francesco). Nonostante questa sua lunga e onorevole militanza sulle scene, in quest’opera riesce nell’impresa, più che difficile impossibile, di tenere testa al personaggio (e alla sua interprete) della Finocchiaro. Passivo, dolce, sottile, tenero di riflesso, pacatissimo, trattenuto ma non troppo, De Francesco riesce a far sì che il suo Ignazio Majore, rinomato psicoanalista freudiano (anche troppo con le sue “teorie da ufficiale di cavalleria del ‘48”: “Le amicizie fra donne sono sempre un po’ ambigue [...] anche se l’hanno costretta ad agire come un uomo [...] l’amore non esiste”), sia ritratto con delicatezza mentre viene sbrecciato dall’esterno di tutte le sue certezze dall’esuberanza dirompente della forte femminilità di Goliarda Sapienza, la paziente che lo ammalia e lo ammala. Ci restituisce, così, un personaggio che, quasi situazionisticamente, cede, e si lascia trasportare alla deriva d’un transfert proiettato e, a proprio discapito, ricambiato per quanto negato (“la smette di solleticare il mio narcisismo. Non è per questa sensibilità straordinaria che io capisco... è perché mi sto innamorando di lei, dottore, e lei lo sa, e si serve del concetto di transfert per congelare in una griglia teorica il turbamento che questo le provoca. Per opporsi al mio innamoramento con categorie critiche il sentimento disturbante e potenzialmente catastrofico [...] senza passione non ha origine la vita psichica, lo ha detto lei”), in un dramma che si tinge di allenismi (di quel Woody Allen che oggi tanto fa sentire la mancanza di sé: cinicamente brillante, romantico senza speranza), infoderate le sue spalline in una giacca che sembra sempre troppo grande per lui, in piccolissimi e sapienti gesti, De Francesco riesce a esprimere tutta la difficoltà di questo personaggio nello stare in un mondo dove deve tener fuori il suo vissuto, essere testimone sempre più coinvolto, e che viene disarmato dalla sua perturbante paziente (“Posso toccarle la bocca?”; “No, signora, no. Lei deve uscire da questa condizione”; “Ho freddo, ho paura”; “Perché lei è un’abbandonica, e da buona abbandonica ha afferrato l’occasione per sentirsi abbandonata quando le ho detto che qualcosa fra noi deve cambiare. Ha sentito un rimprovero, si è sentita non accettata come probabilmente si è sentita non accettata, carnalmente, da sua madre, ma io non l’abbandono, né voglio che cambi, perché mi piace così com’è [...] voglio solo prenda coscienza di sé, che è una donna di valore, che nessuno vorrebbe mai abbandonare [...] destino coatto [...] non avendo la possibilità di piacersi, di opporre la sua individualità contro il fantasma di sua madre, spersonalizza, come non avesse braccia né gambe, e non può muoversi, ma vedrà che, piano piano, io le leverò questo freddo di dosso. Scioglierò questo ghiaccio con intelligenza”), dal suo modo di essere: vera e profonda. Sensibile. Morale.
Il dramma del suo dolce deragliare è uno spettacolo a sé, nella cui contemplazione è piacevolissimo (e anche un po’ sadico, ma, fra le altre cose, lui stesso si confessa simpaticamente masochista come l’Harry Block di Harry a pezzi e infatti apprezza i due schiaffi che gli vengono appioppati: “Sono abbastanza masochista da non dispiacermi”) indugiare e per la cui sconfitta è bello tifare. Strisciando sopra i tappeti, scavandosi centimetri fra divani foderati di sospirosi desideri insoddisfatti, Donatella Finocchiaro avanza carponi facendogli saltare tutte le difese, minandolo con la sua femminilità da donna pantera (“lei ha scalzato col suo coltello le mie difese, la prima carne, col suo bisturi e adesso la trama sottile del mio essere trema [...] dovrò tremare così per tutta la vita?”) che ricorda un altro duello psicologico cinematografico che resta un unicum: non può, infatti, non ricordare la Gyllenhall del The Secretary di Shainberg, discostandosene per la sua fortissima emancipazione, nonostante la nevrosi. Alla sua ricostruzione corrisponderà la rinascita e il classico ribaltamento di ruoli, fino a che a stendersi sul lettino è lui (“con lei sto riscoprendo molte cose [...] mi costringerà a tornare in analisi [...] se lei mi aiuterà, io guarirò lei, e lei guarirà me”; “Io leggo la sua testa”; “Perché lei ha una sensibilità straordinaria”): guarendo lei, lo psicanalista perde sé stesso. Al riacquisire dei ricordi e della forza di lei, corrisponde, speculare, come un contrappasso da equilibrio cosmico, un perdersi di lui, sempre più minato nelle sue labili certezze.
Non ci sono molte parole per descrivere il trasporto che coglie lo spettatore nell’ammirare il lavoro della Finocchiaro. Stranisce, infatti, e turba anche chi non è sul palco con lei, tanto il suo talento vi trasborda. Non era certamente facile non finire cannibalizzate da un personaggio così forte e complesso: attrice, scrittrice, donna forte, decisa nelle sue scelte e pronta alle sue battaglie, sola perché donna in un mondo di uomini forti più all’apparenza che altro, o comunque invisibilizzati e inesistenti, tagliati fuori da questo quadro, come il padre, sindacalista incarcerato (“fa lo sciopero dei sogni? È una sindacalista nata”), e il marito, amato ma da lontano da cui la diagnosi: “Lei mitizza le figure femminili”), e che tanto deve averle risuonato dentro (entrambe attrici, trapiantate a Roma per un periodo, entrambe catanesi). Donatella Finocchiaro ci riesce, probabilmente perché accomunata, fra le altre cose, dallo stesso carisma, ecco, della figura che deve impersonare, al punto che spiace molto non vederla ancora più spesso, e in ruoli da protagonista assoluta, anche in un cinema, quello italiano, che forse è troppo piccolo per un’attrice del suo calibro (com’era per la Swanson sul suo Sunset Boulevard). Guardarla esplorare tutte le complessità del suo personaggio, incarnarle con gesti e movenze la sua rifioritura, il suo rinascere, risalendo la china delle amnesie in cui un’ingiusta cura a base di elettroshock l’ha gettata, è un piacere incredibile per il quale non resta che ringraziare Martone che l’ha (ri)scelta e (ri)voluta, regalandocela. Al punto tale che, andato in scena l’inizio dell’atto finale, quando il malcapitato eroe, capitola alle irresistibili avances in un salotto che lo vede arena, esce di scena scavallando il palco e tagliando la platea (“Sì. La amo. Ma io devo arginare questo mio amore [...] devo proteggerla da sé stessa e da me stesso”) – lasciandola perché, e lei legge bene lui anche meglio di sé stesso, anche lui, ora, trema di paura, e per il freddo rischia di spezzarsi: ha liberato lei, per finire imprigionato lui, esce per non rientrare, e di lui resta la voce di un morto che non può rispondere – appoggiato allo stipite c’è lo stesso Martone sceso, come un deus ex machina più dimesso, a contemplare, nuovamente, il gioco del destino che ha orchestrato per i suoi due interpreti, anch’egli coinvolto nel suo stesso ordito, a sua volta irretito da quel gioco irresistibile della donnaragno che vedere schiudere le uova che ha inoculato nell’uomomosca che ha imbrigliato (“Questa è una scusa, dottore. Io le piaccio. Lo sento”. “Certo che lei mi piace”).
Sono anni ruggenti, questi, per Martone: non si fa in tempo ad applaudirlo a Venezia per Qui rido io che è già alla Sanità a dirigere Favino. Un mese allestisce l’Otello al San Carlo e dopo lo ritroviamo qui (nemmeno la sua pagina di Wikipedia riesce a tenergli dietro), al punto che è lecito chiedersi come faccia. Credo che chi ne ha amato fortemente gli esordi ed è rimasto legato ai suoi Morte di un matematico napoletano o Teatro di guerra avrà qui modo di ritrovarlo ispirato come più non potrebbe essere: questa pièce, infatti, nasce come atto d’omaggio al proprio psicoanalista, Andreas Giannakoulas (i registi e la psicoanalisi: va forzatamente citato anche Fellini che della collaborazione del Majore originale si avvalse, e come non pensare al personaggio del consulente in 8 e ½? Anche quel film venne distribuito in viraggio alternato per distinguere le scene reali da quelle no, come avviene qui col sistema del doppio appartamento speculare a comparti stagni e non sempre comunicanti le cui prime rotture sono accompagnate da un infrangersi delle rispettive menzogne fragili, dei nostri personaggi, le cui rassicuranti bugie, con cui si autoilludono, si riflettono nell’altro, così smentendosi? “Io non dico mai la verità?”; “E allora perché la pretende da me?”) e un grandissimo regalo per noi e per un’autrice, Goliarda Sapienza, la cui fortuna post-mortem andrebbe solamente incentivata. Un importante assist anche alla crucialità della psicoanalisi, che non va affatto trascurato, specie in tempi come questi, in cui imperversa la polemica che vede, dopo due anni di sindemia, col tracollo psicologico che ha comportato nelle vite di tutti noi, e un acuirsi delle fragilità di chiunque, nessuno escluso, il governo dei competenti negare, fra tutti, proprio questo aiuto, dopo i tanti concessi a pioggia (bonus vacanze, televisori, affacciate dei palazzi, biciclette elettriche... si guarda sempre al consumo come unico valido gettone spendibile per il benessere materiale e non si bada mai ai balsami dello spirito, e le arti, e l’educazione, e ora anche il sostegno psicologico, sono sempre ancillari e trascurati, in quest’Italietta, anch’essa, più piccola dei suoi talenti).
E a proposito di ciò risulta anche impossibile non pensare allo spegnarsi recentissimo della voce di Vitaliano Trevisan (che è stato diretto da Garrone in Primo amore), in quest’Italia immemore di Basaglia (nonostante non si contino i suoi degnissimi eredi o i lasciti umani di chi lo ha incrociato: da Alessandro Metz che poi ha fondato Mediterranea ONG-Saving Humans, dall’altrettanto recentemente scomparso e autorevole Gianni Celati, fino a Claudio Misculin, che tanto manca, e al quale non si può evitare di pensare parlando di malessere psichico e teatro: perché l’umanità ha ancora bisogno di cento, mille palcoscenici per far capire che diversità, malattia, solitudine, poesia, non appartengono solo a categorie specifiche di persone, ma sono patrimonio di tutti. Perché, dal di dentro, noi sì, noi lo sappiamo: la follia appartiene alla normalità, non ne è affatto la negazione, la stessa Sapienza/Finocchiaro dirà: “Io i pazzi li ho sempre capiti [...] con lo sguardo fisso sempre a un punto [...] la vedevo sempre mi ossessionava”), al quale, forse, sarebbe stato possibile fare qualcosa in più anziché lasciarlo solo e non abbandonarlo al suo malessere, che non è stato saputo accogliere e arginare come meritava (“Io non sono pazza” – dirà la stessa Sapienza – “volevo solo morire”; “Questo mi conferma che lei ha dei problemi”; “Per oggi basta, mi scusi dottore, ma sono troppo felice”; “Ci sono suicidi e suicidi. Suicidi che sono un’azione vitale. Un gesto per uscire da una situazione difficile [...] lasciateci alla nostra pazzia e ai nostri morti. Alla nostra memoria [...] ogni individuo ha diritto al suo segreto e alla sua morte [...] è morta, perché ha vissuto”).
Goliarda Sapienza era solo, “vittima di un super-io intransigente”, una “depressa senza un minimo di narcisismo che la possa difendere (il narcisismo è come il sale: se non si mette nei cibi il corpo muore, se se ne mette troppo dà le forme più inguaribili e irriducibili di nevrosi)”. Come i migliori fra noi che, spesso, Stato, compagnie, istituzioni, la società dello spettacolo, non intercetta ma, anzi, trascura con complicità, anch’essa inebetita dal canto delle sirene del narcisismo e della decantata sicurezza di sé che spesso nasconde pochezza e scarsissimo rilievo. Italia, in questo, specchio fedele della società che ha generato, sempre in ritardo, che non riconosce i suoi talenti, ma sa solo rimpiangerli dopo che si sono congedati da lei, mentre premia e fomenta narcisi nevrotici e patologici. “La sua mancanza di aggressività è la sua patologia. Lei deve lasciare che le unghie crescano [...] imparare a farsi valere [...] una carne vulnerabile al gelo mi ricrescerà e avrà fame di carezze, visi da guardare, voci da ascoltare”.
Tanto ancora ci sarebbe da dire su questo Il filo di mezzogiorno: il sapiente uso dell’inflessione dialettale della Finocchiaro, cruciale per restituire le ambasce del suo personaggio, che deve disfarsi di questo che è un fardello nell’accademica visione del teatro nordico e dell’Italia fascista (“non sapevo che c’era un accento buono e uno no”), in quella specie di mistificante colonizzazione linguistica. O il lavoro sulle musiche di Mario Tronco su un canto dei pescatori o la canzone evocativa dell’utopia di Bjork. L’adattamento di Ippolita di Majo (anche aiuto regia) sul libro edito da La nave di Teseo, nient’affatto facile a cospetto di un corpus così complesso, ma che ben si presta e adatta a fornire immagini visive per i nostri due eroi (i ricordi del manicomio, l’evocazione di esterni attraverso gli occhi e le parole dei suoi protagonisti, che si passano la confusione l’uno con l’altro) che vi adoperano la loro gestualità e fisicità, l’una dirompente l’altro dimesso.
Quello andato in scena, quindi, è stato tutto quello che il teatro è chiamato a essere: memoria, coinvolgimento, spaesamento in altri luoghi e altri tempi, in altri umori. Per quell’ora e quaranta tanto lontani, grazie a Martone, Finocchiaro e De Francesco, siamo stati altrove, siamo stati noi stessi ma un po’ meno noi e un po’ più Sapienza e Majore, con quel che è successo loro, e che ci siamo scoperti successo, in qualche parte, anche dentro di noi, riflettendoci nel loro autoriflettersi. Anche noi, infatti, come il povero Majore, usciamo di sala con la testa piena di idee non nostre, dolori non nostri, desideri non nostri, parole non nostre. O forse sono solo quelle ciò di cui difettavamo il possesso, prima d’entrare.



Sento affiorare quel calore
sulle mia labbra.
Anche adesso,
tornando indietro
nei corridoi scavati nel ghiaccio
del mio passato
[...]
un arcobaleno si chiude intorno a me.






Il filo di mezzogiorno
di Goliarda Sapienza
adattamento Ippolita di Majo
regia Mario Martone 
con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco
scene Carmine Guarino
costumi Ortensia De Francesco
luci Cesare Accetta
aiuto regia Ippolita di Majo
assistente alla regia Sharon Amato
foto di scena Mario Spada
produzione Teatro di Napoli Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma, Teatro Stabile di Catania
lingua italiano
durata 1h 40’
Napoli, Teatro Mercadante, 5 gennaio 2022
in scena dal 5 al 16 gennaio 2022

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook