“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 08 April 2021 00:00

Paul-Jean Toulet, il mal(inteso)

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La parabola artistica di Paul-Jean Toulet è posta nel segno della lontananza e di un malinteso. Cresciuto con la famiglia nell’isola Maurice, in un paesaggio rutilante di stimoli visionari di cruda nettezza la cui natura straniera di terra cinta dal mare ha partorito quel carattere del poeta irrequieto e cinico, ebbe il proprio tirocinio lontano dalle scuole francesi e dalla precoce vocazione alla produzione culturale dei molti letterati di Parigi.

Un simile processo di negazione, appieno introiettato, realizza una precipuità di accento e quel piacere sostanziale della parola come immagine allo specchio ipofoneticamente cristallina pure laddove pronuncia una cupa ironia o un malinconico disprezzo, e, per converso, la trasparenza linguistica dei versi rasenta la propria origine di ambiguità ontologica trasmettendo essa stessa l’ossimoro di un dolcissimo scoramento. Qui si sconta la tragica violenza effrattiva di Toulet, la dicotomia del poeta isolano partecipe di sé stesso e non di rado sdegnoso verso la propria arte. Il tempo maturo del poeta mostrerà poi come la fortuita circostanza degli anni a Maurice non sia altro che una realtà commissiva nella cui aporia probante si manifesta il senso intimo della lontananza del poeta, e, in avanti, il malinteso della critica sulle conseguenze delle significazioni di tono dei suoi versi.1
Dopotutto Toulet fu moderatamente compiaciuto di quel suo destino critico per cui egli parve un intelligentissimo cultore del verso, un isolato che affidava la sua più intima reputazione a esilissime poesie trasmesse agli amici a mezzo posta e in grazia delle quali, nel corso del tempo, avrebbe acquistato un’irrefutabile collocazione nel panorama delle lettere francesi per la singolarità del proprio dire spartito fra leggerezza e sottile disincanto: rubricazione anfibia. A noi pare infatti che in Toulet manchi il momento evanescente e fatuo della leggerezza e piuttosto vi alberghi una levità cinica e gioiosa ai limiti di un camuffato sessualismo: da qui il malinteso della tenuità il disimpegno nobile del poeta. Siamo di fronte a una rivolta di natura linguistica che Toulet compie nei modi di un sarcasmo impetuoso e di una segreta geometria lirica, intanto che l’uomo si stende ai piaceri di un elegante libertinismo.
Per il suo vivo gusto epigrammatico, per lo spirito pittoresco non disgiunto da un senso nostalgico della bellezza, per l’estremo rigore formale dei suoi versi, Toulet acquistò la fama maestro presso quei poeti, con tendenze analoghe, quali Francis Carco, Jean-Marc Bernard e Jean Pellerin: insomma, con la “scuola fantasista” – squisitamente formale e misurata – che oggi si ricorda solamente per il ruolo di primissimo piano che vi ebbe l’autore delle Controrime. Intanto il poeta, nel tempo in cui si attesta la prima avanguardia di Guillame Apollinaire col suo labirintico e ossessivo furore, reagisce con sacro cinismo e sulfurea noncuranza alla gloria delle inquietudini narrative di André Gide e del messianismo oracolare di Paul Claudel: frequenta gli ambienti nazionalistici e della destra, i salotti mondani e disincantati della Belle Epoque, e conduce vita notturna e raffinata esibendo le tracce caustiche e svagate di un carattere sommamente iracondo.
Pure se minato dall’alcool e dall’oppio, in preda ad amori facili ed elusivi, pubblica nel 1898 quel singolare romanzetto satirico-fantastico che resta forse la sua opera più efficace in prosa: Il Signor du Paur. Prosegue con romanzi, racconti e impressioni poetiche della vita mondana, quali Le mariage de Don Quichotte, Tendres Ménages e Nane: egli si presenta come sicuro e delicato interprete di quel raffinato libertinaggio “spirituale” della Parigi anteguerra del Lorrain, di Pierre Louÿs e del giovane Léauteaud; ma vantando nelle sue pagine, a differenza di loro, quasi una precipitazione simbolistica nell’espressione, ai limiti di quel modo poetico surrealista che sarà poi di Cocteau e di Giraudoux.
Spinto dal vizio e dal proprio gusto per la fantasticheria e l’occasione polemica, Toulet collabora con numerose riviste e incontra Willy, scrittore ignobile e maestro della letteratura di consumo, che lo assume a stendere – su un proprio canovaccio – una storia di paradisi artificiali e licenziose divagazioni che uscirà nel 1911 col titolo Lélie, fumeuse d’opium, dove lo scrittore compendia bizzarrie artistiche ed esperienze radicali con squisita superficialità, esibendo il costume mimetico di una personalità paradossale. L’abuso di stupefacenti costringe il poeta al ritiro in campagna, e proprio da qui avviene la circolazione delle sue brevi opere tra amici e sodali, attraverso le riviste letterarie cui di volta in volta vengono affidate, sino a divenire non effimero mito ma il simbolo della poesia francese al tempo della prima guerra mondiale.
Toulet rappresenta il gusto insidiato dell’incertezza attraverso un epicureismo estetico per nulla impegnato, tra cinica veemenza e malinconico disincanto, in un paesaggio umano di quasi misero anonimato. In Italia, Maria Luisa Spaziani ha proposto un suggestivo parallelo tra il poeta francese e Guido Gozzano, per “quel bilanciarsi sull’orlo del dannunzianesimo senza cadervi mai, se non per gioco, se non per correggerlo subito con il sorriso, l’acido, la sferzata”. Ma se taluni elementi attestano una qualche verosimiglianza tra i poeti, le due figure appaiono comunque distanti: in Toulet manca quel cattolicesimo suppurato e cadente che Gozzano recava con sé, come pure certe affettuosità moralistiche e attardate. Se l’opera di entrambi ha il senso di un rito di passaggio al moderno, le suggestioni di un confronto cedono alla riconduzione nel quotidiano di quei miti che in Toulet sono ormai del tutto svuotati di senso, costituendo il divertissement entomologico per il nobile scetticismo del poeta, audace maestro di una lingua ellittica e conturbante, che attraverso il funambolismo della digradazione prosodica e dello spirito eccelso ha restituito l’atmosfera impallidita della fine di un mondo.








1) Mi riferisco alle rubricazioni compiute della critica francese − che però da lunghissimo tempo ha oramai situato l’opera di Toulet al suo più opportuno rilievo – di contro alla critica italiana che pochissimo e malamente ha scritto sul poeta. All’opposto vorrei però citare la curatela di Maria Luisa Spaziani del volume antologico Poesie, Torino, 1966, degno di nota anche per la bellissima traduzione attraverso la quale ha restituito la complessa sintassi e il ritmo dei versi, e l’opera di traduttore di Gesualdo Bufalino che nelle sue Controrime, Palermo, 1981, ha manifestato ancora una volta gli esiti felici di un barocco stringato ad uso della compiutezza linguistica del poeta francese.

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