“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 08 March 2021 00:00

Hölderlin, il folle

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L’ultimo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante (1806-1843), ricostruisce in forma letteraria la vicenda biografica del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (nato a Lauffen am Neckar nel 1770 e morto a Tubinga nel 1843), la cui esistenza fu divisa esattamente in due metà: i primi trentasei anni trascorsi nella normalità dei rapporti con il mondo, e i successivi trentasei anni segregati a Tubinga in casa di un falegname, in preda alla follia che lo portò a rifiutare qualsiasi relazione con gli eventi esterni.

L’intento di Agamben nel raccontare il lungo periodo di reclusione domestica del celebre poeta non è stato quello di indagare storicamente, clinicamente o psicologicamente i motivi che lo portarono a evitare ogni rapporto con la società, quanto invece, basandosi su sintetici dati di cronaca e sull’analisi degli ultimi scritti – considerati incomprensibili dalla maggior parte dei critici –, di proporre un’interpretazione etico-politica della sua incapacità di vivere in comunità.
Secondo il filosofo romano “il tenore di verità di una vita non può essere definito esaurientemente in parole, ma deve in qualche modo restare nascosto”: in ogni biografia convergono vari fatti, circostanze, episodi, ma non sono essi a dare il senso reale dell’esistenza di un individuo, che si costituisce e va rispettata come “figura” informulabile e mai completamente conoscibile. Gli avvenimenti sono una traccia, indicano una direzione da seguire, insieme alle vicende storiche che ad essi si intrecciano. Ecco quindi la ricostruzione succinta degli eventi che condussero Friedrich Hölderlin alla condizione mentale che i contemporanei definirono pazzia.
A metà maggio 1802, il poeta abbandonò il posto di istitutore presso la famiglia del console Meyer a Bordeaux che occupava da soli tre mesi, e si mise in viaggio a piedi verso la Germania, raggiungendo nei primi giorni di luglio, dopo essere stato derubato del bagaglio, prima Stoccarda, quindi la casa materna a Nürtigen in condizioni fisiche spaventose: magro, sporco, in preda a stato confusionale. La notizia della morte della donna amata Susette Borkenstein sembra avesse accresciuto il suo sconforto ma per un breve periodo riprese le forze, completando le traduzioni dell'Antigone e dell'Edipo di Sofocle e componendo gli inni Patmos e Andenken, su cui aveva lavorato indefessamente.
Nel giugno 1803 Hölderlin raggiunse a piedi, “attraversando i campi come guidato dall’istinto”, il convento di Murrhardt, dove incontrò Schelling, compagno di studi universitari, che di quella visita scrisse a Hegel in maniera turbata, avendo trovato l’amico “in uno stato di assoluta assenza di spirito”. L’impegno costante della traduzione senz’altro esacerbava la già compromessa salute del poeta, nello sforzo inaudito di rendere il testo greco non soltanto traducendo parola per parola come calco dell’originale, ma forzando la sintassi tedesca ad aderire all’articolazione sintattica del greco, in una personalissima ri-creazione e correzione, con l’innesto di azzardati neologismi. L’intervento “estraniante” sul testo greco fu poco apprezzato e addirittura deriso da molti letterati, tra cui Schiller e Goethe, quando il volume venne pubblicato dall’editore Wilmans nell’aprile del 1804.
La madre di Hölderlin, che nelle sue comunicazioni epistolari lo chiamava costantemente “l’infelice”, riuscì a far ricoverare il figlio in una clinica a Tubinga e poi ad alloggiarlo nel 1807 in maniera definitiva nella casa del falegname Ernst Zimmer, senza mai recarsi a trovarlo. Agamben dedica centocinquanta pagine del suo volume a una cronaca dettagliata dei trentasei anni trascorsi dal poeta nella torre (una stanza a forma circolare all'ultimo piano della casa, con una splendida vista sul Neckar e la valle circostante) riportando le testimonianze dei rari visitatori, stralci di lettere e di diari, elenchi delle spese per il mantenimento e dei medicinali somministrati, puntuali riferimenti agli avvenimenti storici coevi. E dubitando della completa follia del suo protagonista, commenta: “A metà pazzo, ma forse sano, pazzo furioso e tuttavia veggente: i giudizi sulla condizione di Hölderlin continuano a oscillare fra due poli opposti”.
Nel dicembre 1808 lo scrittore Karl Varnhagen von Ense, andato a trovare il poeta rinchiuso, così lo descrisse: “Non delira, ma parla ininterrottamente seguendo la sua immaginazione, si crede circondato da visitatori che gli rendono omaggio, discute con loro, ascolta le loro obiezioni e li contraddice con grande vivacità, cita le grandi opere che ha scritto e altre, che sta ora scrivendo e tutto il suo sapere, tutta la sua conoscenza del linguaggio e la sua familiarità con gli autori antichi sono ancora presenti in lui; di rado però un autentico pensiero e una connessione logica fluiscono nella corrente delle sue parole, che nel complesso sono solo una comune insensatezza”.
Eppure, nelle lettere scritte alla madre, Hölderlin dimostra ancora una discreta lucidità, e l’esasperato formalismo con cui le si rivolge assume calcolate sfumature ironiche e parodistiche: “La mia partecipazione a Lei non si è ancora esaurita; quanto durevole è la sua bontà, tanto immutata è la mia memoria per lei, venerabile madre! La Sua tenerezza ed eccellente bontà risvegliano la mia devozione alla gratitudine e la gratitudine è una virtú. Io penso al tempo che ho passato con lei, venerandissima madre! con molta riconoscenza. Il suo esempio pieno di virtú mi rimarrà nella lontananza sempre indimenticabile e mi incoraggerà a seguire i Suoi precetti e a imitare un cosí virtuoso esempio” (1813).
Lo studente Wilhelm Waiblinger, autore del saggio Vita, poesia e follia di Hölderlin, pubblicato postumo nel 1831, scrisse che il poeta nel corso dei loro ripetuti incontri si esprimeva con termini talvolta incomprensibili mescolati al francese, ripetendo frasi stereotipate (“Es geschieht mir nichts”, – non mi succede nulla –, oppure “A questo non posso, non mi è lecito rispondere”), rivolgendosi agli ospiti con un inchino,  in maniera cerimoniosa: “Vostra maestà, Vostra Santità, Vostra Grazia, Vostra Eccellenza, Signor Padre! Graziosissimo, io attesto la mia soggezione”, improvvisando musica sul pianoforte, passeggiando in giardino con i membri della famiglia Zimmer o fissando immobile fuori dalla finestra il fiume e la campagna. A volte sembrava vegetare in uno stato catatonico, altre dava in improvvise escandescenze.
La sua produzione poetica, affidata a fogli singoli, negli anni della reclusione si limitò perlopiù a liriche in due strofe dedicate alla natura e alle stagioni, oppure a quartine ripetitive e monotone dall’umile struttura rimata, “definite da un’estrema paratassi e dalla deliberata assenza di ogni coordinazione ipotattica”, firmate con pseudonimi e riportanti date di fantasia. Secondo Agamben, sembra “quasi che Hölderlin cercasse di articolare un altro modo – non logico – della connessione fra i pensieri”. Come nel vissuto quotidiano e nei ragionamenti slegati, così anche nei versi non esisteva coordinazione: sembravano semplicemente giustapposti e poi bloccati in un isolamento asemantico, con un continuo avvicinamento e distanziamento dal proprio significato.
Walter Benjamin aveva intuito a quale dedizione il poeta tedesco si fosse votato, optando per una poetica disarticolata e spesso incomprensibile: “il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”. Quando nel 1826 alcuni estimatori si adoperarono per far pubblicare le sue creazioni migliori, il poeta non manifestò particolare interesse. Rimase indifferente anche alla notizia della morte di alcuni amici, della madre (1828) e del falegname Zimmer che lo ospitava (1838). Affidato alle cure amorevoli della figlia di quest’ultimo, Hölderlin morì di polmonite nel 1843, a 73 anni, poco dopo aver firmato la sua ultima composizione, La veduta, con il nome fittizio di Scardanelli; “Quando lontano va la vita abitante degli uomini, / dove lontano splende il tempo delle viti / e vicini sono i vuoti campi dell’estate, / la selva appare con la sua scura immagine; // che la natura compia l’immagine dei tempi, / che essa si fermi e quelli subito trascorrano, / è per la perfezione, l’altezza del cielo / risplende per l’uomo, come alberi incoronati di fiori”.
Alla poesia e non alla riflessione o alla conoscenza, Hölderlin affidò il compito di afferrare e dire la verità dell’essere: la “vita abitante”, quella vissuta per abitudine, nei trentasei anni trascorsi nella torre di Tubinga, era lontana e indifferente allo scorrere del tempo, mentre la perfezione risiedeva nella sommità dei cieli. Per Agamben “Hölderlin non ha cercato la pazzia, ha dovuto accettarla, ma… la sua concezione della follia non aveva nulla a che fare con la nostra idea di una malattia mentale. Era, piuttosto, qualcosa che si poteva o si doveva abitare... E vivere non significa forse per gli uomini innanzitutto abitare?”
Proprio al termine “abitare” (wohnen, in tedesco) sono dedicate le venti pagine, intense e partecipate, dell’epilogo nel volume einaudiano. Hölderlin dimorava nelle sue giornate secondo abiti e abitudini liberi da ogni affezione e determinazione, in una passività indefinita che abdicava sia all’essere sia all’avere, sia all’identità sia al nome. La sua vita abitante o abitiva, scandita solo dal ripetersi di atti invariati, non conosceva più l’opposizione tra pubblico e privato, ormai coincidenti in una posizione di stallo: non era tragica, in quanto priva di azioni decisive e imputabili, né era comica, cioè basata su insensatezze deresponsabilizzate. Era invece “un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”.
In questo labile e innocente abitare l’esistere – anche nel fallimento sociale, nel decadimento fisico e mentale, estraneo a successi e trionfi –, rimane il lascito etico e politico del poeta rinchiuso nella torre: nel suo “abitare poeticamente la terra” c’è meno follia di quella in cui l’intera umanità sta colpevolmente precipitando oggi.





Giorgio Agamben

La follia di Hölderlin
Einaudi, Torino, 2021
pp. 241

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