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Tuesday, 02 February 2021 00:00

La morte come rinascita del sé

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Si dice sempre che nei romanzi è presente gran parte del vissuto dell’autore o autrice. Che siano eventi realmente vissuti o idee ben radicate, personaggi e situazioni risentono dell’influenza di chi li crea.
Nell’esordio di Francesca Guercio, O d’amarti o morire, pubblicato da Alessandro Polidoro Editore, l’influenza proviene dai suoi studi nonché passioni principali: il teatro e la filosofia. Consulente filosofica, attrice e regista, scrittrice saggistica, oserei dire sperimentatrice. Sperimenta con la lingua, con il ritmo, con i generi e, a sua insaputa, crea un testo adatto per il cinema, ancora meglio per una serie tv e, in parte, per una riduzione teatrale.

Iniziamo dalla fine.
“Più che una freccia lanciata verso l’infinito delle possibilità sembrava uno di quei raccoglitori di roba usata posizionati lungo le strade dalle agenzie umanitarie, dentro ai quali si riversano gli scarti di altre vite in cerca di una riabilitazione eco-sostenibile”.
La protagonista, “una”, durante una pausa-pipì di un viaggio organizzato sul Grand Canyon, di fronte a quell’immensità si lancia nel vuoto. A questo punto ci si aspetterebbe il racconto drammatico della sua vita e le cause del gesto, così come il giorno del funerale e la tristezza della sua dipartita. Le cose invece paradossalmente peggiorano e la ritroviamo, lei, fantasma in macchina al posto del passeggero, di fianco all’uomo amato, Lui, colpevole del suo dolore. Causa della sua morte. Una fortuna o un ennesimo scherzo del destino?
“Un po’ mi sembra di essere felice perché finalmente posso stare con Lui tutto il tempo che voglio; ma mi provoca un certo disappunto il fatto che ancora una volta le cose non siano andate come le avevo programmate”.
Un girone infernale, la legge del contrappasso in chiave moderna. Essere con lui nella sua quotidianità, conoscere i suoi pensieri, le sue debolezze fanno parte in realtà di una rinascita, una presa di coscienza.
“Non sono mai stata tanto viva come da quando sono morta”.
Arriva il momento in cui tutto diventa più chiaro, in particolare gli errori commessi da vivi: la tendenza a procrastinare, a non prendere posizione; la facilità con cui ci raccontiamo bugie per paura spesso di rimanere soli. La protagonista riesce a raggiungere questa consapevolezza da morta e sperimenta una liberazione di sé. Donna qualunque viene definita, ma non in senso dispregiativo quanto come una persona alla ricerca di serenità e di valori semplici, di genuinità. Sarta teatrale, in qualche modo una persona che ispira fiducia perché le si raccoglievano intorno persone dalle più disparate personalità per raccontarsi. Quello che ho avvertito, in contrasto, è di avere davanti una personalità fragile e spesso invisibile, una persona che deve ascoltarti ma che non vale la pena ascoltare e conoscere. Non ha un nome non solo perché il racconto è in prima persona, ma soprattutto perché non viene mai nominata dagli altri, da Lui in particolare. Una presenza evanescente, dimenticabile, con l’animo da crocerossina convinta di poterlo cambiare, tanto da innamorarsi di Lui, che non ricambia il suo sentimento.
“Diciamolo pure, il mio suicidio è conseguenza di un’incontrollata attitudine all’iperattività cerebrale unita a un’innegabile fragilità psichica: ciò a cui veramente ambivo non era tanto il trapasso quanto l’opportunità di smettere di pensare”.
Il continuo pensare, rimuginare, attorcigliarsi sulle paranoie ha creato un peso insostenibile che il sentimento non corrisposto ha acuito. Il suicidio allora appare una scappatoia, una via d’uscita per smettere di pensare. Come ha precisato l’autrice nella presentazione fatta insieme però, il problema non è l’iperattività cerebrale, ma il pensare male.
Lui, centro focale dei pensieri della protagonista, capace di modificarne l’umore e le priorità con una telefonata anche a distanza di mesi, non ha nome perché è un attore. Essendo il romanzo in prima persona, dobbiamo metterci dalla parte di una amica a cui viene confidata la vicenda: per non sputtanare la persona in questione e non trovando un nome falso a differenza di altri personaggi che appaiono nella narrazione, si sceglie il semplice Lui con la maiuscola.
Il primo pensiero è stato di averlo avvicinato, in questo modo, a Dio e non credo sia un pensiero così distante dalla realtà. Il personaggio viene descritto come un narcisista patologico, sposato ma con all’attivo numerose relazioni extraconiugali non tanto nascoste. È incapace di fare delle scelte nel privato, di prendere posizione e per questo motivo non lascia la moglie: per paura di impelagarsi con altre, di ricominciare dal principio con una persona diversa. Sceglie quindi la sicurezza della casa con moglie e figlio da una parte, dove può sempre tornare, e relazioni superficiali dall’altra che accrescono la sua sicurezza.
“Provo pena per la sua vita, per questa solitudine oceanica che riempie di distrazioni e di fatica pur di non guardarla in faccia”.
Lui ha una maschera molto credibile, costruita negli anni e anche grazie al suo lavoro. Quando è sul palco riproduce movimenti e modi di persone che incontra filtrandoli attraverso la sua sensibilità. Inevitabile il ripercuotersi sulla quotidianità di questa perfezione di facciata. Tutto il suo essere risulta studiato perché è consapevole che solo in questo modo può ricevere apprezzamento esterno, andando a riempire una solitudine profonda.
Le relazioni con le diverse donne, non meno con uomini, fanno parte del suo bisogno di sicurezza, di appagamento del suo ego che poco ha a che vedere con la sfera sessuale. Appare quindi chiaro il comportamento subdolo che adotta con le donne: mette in chiaro di essere sposato andando così a far leva sulla sindrome della crocerossina convinta di potergli far cambiare idea facendosi trovare pronta quando lui ne ha bisogno; si allontana per diverso tempo senza chiudere quel rapporto, dando quindi l’illusione di un poi e si mostra sempre al suo meglio perché racconta e mostra solo una minuscola parte di sé.
Cosa succede dunque nel partner? Sta al gioco perché è sempre in bilico. La relazione non ha inizio né fine, rimane relazione superficiale ma mai legame amoroso. Questo comporta che la parte “lesa” e innamorata non sia capace di mettere fine a questo strano rapporto e soprattutto non possa portare il lutto per la fine di una storia d’amore.
In seguito a una serie di vicissitudini anche divertenti la protagonista riesce quindi a penetrare il vero Lui e a non idealizzarlo, come faceva in vita. Come si suol dire, bisogna sbatterci per capire e lei sicuramente è caduta molto in fondo. Raggiunge una nuova consapevolezza ed è pronta per una rinascita, magari nel corpo di Lui.
Con ironia arguta e linguaggio ricercato ma colloquiale, Francesca Guercio crea un romanzo divertente che non ha paura di utilizzare stereotipi per scavare nei rapporti, nella psicologia dei personaggi e denunciare anche il mondo teatrale e culturale italiano. Nel leggerlo è immediata trasposizione mentale delle parole in immagini: un po’ Bridget Jones e un po’ Ghost Whisperer ma con una profondità diversa grazie ai versi, le “andate a capo” che hanno la funzione di mostrare la materia di ogni capitolo giocando però con una maggiore libertà di forma, termini, accostamenti e metafore.
Che la cantafavola abbia inizio. O fine.





Francesca Guercio
O d’amarti o morire
Alessandro Polidoro Editore, Napoli, 2021
pp. 328

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