“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 02 November 2020 00:00

Alla deriva insperata di Vedova: il Tintoretto in piedi

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Luce.
“Tentare di spiegare un quadro è come tentare di spiegare tutta la tua vita. E questo non è possibile”.
Una vita strabordante. Un talento inimmaginifico. Una mente ingarbugliante. Un fraseggio forsennato. Stridente. Acuto come l’inno d’un asceta. Scheggiato. No. Ce lo dice stesso lui. “Una regia sincopata”. Come le sue braccia. Lunghe e possenti. Che striano profili delle chiese macchiolate di petrolio coagulato riflettono, infrangendosi sulla superficie dei canali, i tortuosi calli della mente di quest’uomo dal corpaccione gigantesco. Andatura beccheggiante come un riff jazz.

Una visionarietà straordinaria. “Magmatica”. Questo il ritratto che ci viene restituito di Emilio Vedova (1919-2006) nel bel documentario Dalla parte del naufragio di Tomaso Pessina, presentato alle Giornate deli Autori della 76esima Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia. Della sua Venezia. Quella del suo studio, a Palazzo Carminati. Quella del Leone d’oro alla Carriera nella Biennale del ‘97. Quella, infine, che Emilio Vedova non ha mai lasciato, vagabondandovi, prendendo come maestri di bottega pittori filibustieri che, fra la stampella e il pennello, dipingevano nel magazzino d’un friggipesci: “Esser nato qui, in questo labirinto di calli, una Venezia che poi, io vengo da una famiglia di operai, questo già ti dice quale gamma, è risaputo, l’infanzia, determina [...] sono nato a Venezia, fra i suoi fantasmi, nella sua luce abbagliante e ambigua, che era pronta a bagnarsi di Tiziano e del mio compagno di casa: Tintoretto”. Vedova, ultimo dei lagunari, che non si sottrae, non si dà alla fuga ma, il pantano, se lo abbarbica al petto.
Bianco.
“È una registrazione nel cuore del mondo. Nel cuore del mio mondo”.
Un Michelangelo che non riesce a starci in una sola tela, le cui parole si agglutinano e si rovesciano, straripando e investendo, col suo veneto soave, il suo pubblico ammirato, dilagando in una omnidirezionalità di andirivieni basculante. Come il suo passo. Emilio Vedova pare esprimersi in versi. Liberi. Sciolti. Scomposti e sbandanti. Che arrembano e sdrucciolano, tornando sempre sull’ultima parte, prima di spiccare innanzi.
Scava, Vedova, spala, con le lunghe braccia, fa delle vasche affondando nell’aria intorno a sé, solleva qualcosa di invisibile e lo scaglia contro la tela vuota, striandola a bracciate. Gli rugge un empito dentro, a Vedova, che lo vuota e lo consuma. Non dipinge, guerreggia. La sua opera era in un “rapporto fisico”, con la tela, che poi diventa parete, pannello, tondo.
“La materia è infinita”.
E allora Vedova attinge a tutta. La getta. Cerca il pretesto per riuscire poi a trovare la soluzione.
Nero.
Si sbraccia, per cercare di scaricare la sua inarginabile irruenza, Emilio Vedova, cercando, per tutta la sua vita di trovare una parte che sia la sua. Come a cercare di essere avvistato e tratto in salvo. È Emilio Vedova il naufrago. Naufrago di se stesso. Del proprio talento. Ma non è un naufragio dolce. Vedova precipita, sprofonda, nello spazio senza coordinate, spinto dalla violenza e irruenza rutilanti dell’urgenza, trascinandoci con lui, in vertiginosi pozzi di luce veneti pennellati, dietro a un talento che lo pervade e attraversa, come una scossa elettrica, che parte dalla pancia, risale alla testa, rimbalza in un coacervo di tempeste neuronali wagneriane, e poi deve esplodere, sfogarsi, uscir fuori, riversandosi in pennellate che non gocciolano, come Pollock, ma violano violente, dolenti come rasoiate, scudisciate di colore. Era dentro, Emilio Vedova, impigliato nella sua stessa rete, come dice lui stesso, nel suo studio che si fa teatro d’emergenza dei suoi intimi misfatti. E ce lo mostra, Pessina, grazie all’archivio a cui può attingere e che seleziona e confeziona per noi. Di materiale, infatti, su Emilio Vedova, ce n’è tanto, al punto che la sua figura comincia a imprimersi in modo quasi affezionato alla retina del nostro occhio. Vi si intaglia un posto suo, a mano a mano che entriamo nel suo intricato modo, lasciandoci barcamenare a nostra volta nella sua vita, coinvolti anche noi nel suo dolcissimo naufragare, guscio di noce fra colori di vernice che colano da tutte le parti intorno a noi, scolando da colonnati tortili di inestricabili teorie, parole disordinate, fittamente intrecciate, da cui si finisce travolti dal fiato sospeso e mozzato. Ci restituiscono il maltolto, con questo documentario, e i panneggi policromi che erano solo appannaggio di musei e intenditori di arte contemporanea ci vengono ricondotti, insieme alla personalità in burrasca del grande pittore e dalla sua smania di creare, di far uscire di sé, che trovava sfogo in una produzione artistica che non sembrava mai trovare una domatura.
Artecinema 2020, il festival sull’arte contemporanea che da venticinque anni ci dà appuntamento con l’arte sul grande schermo, fa il grandissimo dono di consentire, in quest’anno vituperato, il recupero di un’opera così importante dedicata a un autore tanto visceralmente preso dalla sua smania creativa. Una rassegna che, quest’anno, oltre alla giornata inaugurale al San Carlo, ha dovuto fare di necessità virtù scegliendo di sacrificare la presenza e abbracciare le proiezioni in streaming, come tanti altri festival prima, riuscendo così ad ampliare la gittata del suo pubblico. Pessina, classe 1969, laddove non può tamponare con prezioso materiale d’archivio (d’origine tedesca, in alcuni casi, fra l’altro) fornito dalla fondazione omonima, ricorre a brevi scorci animati (come han già fatto altri prima di lui, per esempio Stefano Savona con il bellissimo La strada dei Samouni, o varianti dall’intento simile come il documentario interamente animato Tower di Keith Maitland), o a una voce narrante d’eccezione: un Toni Servillo che, in gran smalto, si presta assai volentieri a dar voce al diario di Vedova, regalandogli inflessioni e accenti. Come un film nel documentario, assistiamo, in un gioco filmico d’apparente presa diretta, a qualcosa di più di un mero doppiaggio: alla schermaglia fra due grandi artisti che, come due pugili, si studiano, si girano intorno, con riguardoso rispetto, e si contendono l’arte di carpire la suggestione dello spettatore. Le parole di uno rivivono filtrate attraverso la sensibilità dell’altro, a seconda di quali corde riescano a toccare più intimamente, tantopiù forte si fa l’inflessione di un Servillo ispirato la cui voce si insinua piano piano, fino a un’adesione totalizzante con colui al quale presta il suo strumento più perfezionato. Tanto è affastellato il pensiero di Vedova quanto lucido e ordinato nel calco vocale di Servillo, con le sue pause, le sue cadenze rivitalizzanti: lo strumentista si ritrae compiaciuto lasciando che sia l’opera e il pensiero del compositore a sopravanzare. Come un artigiano della voce, Servillo si fa vuota guaina da essere colmata, felicemente prestandosi al grato compito di conferire una seconda vita a quelle parole che tanto ci dicono sul Vedova uomo, offrendo la sua tavolozza di accenti per descrivere l’iniziazione all’arte di quest’ultimo, povera, d’acquarello e petrolio, figlio di quello che autodefinisce “uno strano padre”: strano sì perché, pur povero (“fame spettrale [...] drammatica”), l’asseconda “venderemo il materasso pur di farlo studiare”. Invece, a undici anni Vedova apprende il suo calvario: “Bisogna portare i soldi a casa” e va in una fabbrica a smalto, e la puntina della voce di Servillo che graffia le pagine, salta. Alza lo sguardo. Si spinge gli occhiali sul naso. L’eco d’uno spettro gli attraversa il viso. Pausa. Prosegue. Torna in apnea a narrar la storia d’altri: bisogna. Accelera, Servillo, risucchia la saliva, rallenta, dipinge superlativi sibilanti, non si ferma: ci descrive, con un gesto, il Vedova bambino che rompe il ghiaccio, alle sei del mattino, per lavorare. E alla sera alla scuola di disegno, a dannarsi per quelle linee rette che gli sfuggono, al punto da gettar via quella tavoletta: “Letto delle mie torture” (e chissà quanti degli inciampi di Vedova pittore sovvengono come dannazioni familiari al Servillo attore), su cui stenderà i suoi modelli dormienti. Il suo segno, da qui, sarà destinato a farsi... allucinato.
“Volevo essere... reale”.
Ha un suo modo, Servillo, lo conosciamo, di rimetterci le parole addosso, infiocinarle affabulatorio come il compianto Paolo Poli, trovandovi un vezzo inaudito, sorprendendoci con un guizzo, destreggiandosi restituendocele irriconoscibili: ra-re-far-le. Proprio come fa Vedova, quando si pone pietre d’inciampo sulla tela, per districarsi meglio, perché l’arte non si sieda mai in disparte, comodamente, ma sia sempre in un farsi. Servillo in piedi, come Vedova (al massimo in ginocchio. Mai seduto. Mai), che sfrega i polpastrelli delle mani abbandonate sul corpo, sotto il leggio, visibili con la coda dell’occhio, a sgranare le parole che sbriciola. In punta di lingua. Per poi impennare. Fugace. Come le pennellate del novello Tintoretto. Tintoretto che sbatte alla deriva Vedova, Servillo che ci fa sbattere alla deriva da Vedova. Artisti terremotati, che balenano come fulmini, e si mettono a nudo, rivelandosi, che si compenetrano, che si mandano rimandi, che si completano a vicenda. Davanti a noi. Se Vedova ci faceva vedere attraverso di sé Tintoretto, a Pessina il merito di farci rivisitare Vedova attraverso Servillo. E in più, l’uomo, oltre che l’artista.
Buio.
A questo racconto s’inanella il suo passato da partigiano antifascista, sul suo vissuto e il suo vivere le contraddizioni e i sacrifici, le rinunce di una vita interamente dedicata all’arte come insottraibile parte di sé. Vedova che oltre all’arte lotta contro il fascismo del neorealismo meno astratto, laddove l’astratto è più reale ancora. Vedova che getta il corpo nella lotta dell’arte e nell’arte della lotta partigiana, per lavorare dentro la storia. Che, all’epoca, era la verità della Resistenza, mai così poco ambigua, per la prima e probabilmente unica volta, nel vita-segno vedoviano. È il periodo delle sue “tempere partigiane”.
“... perché l’artista è un’antenna”.
Dal dopoguerra sortirà un Vedova depresso dalle ambiguità dello ieri, ritornate alla ribalta, troppo presto. Non è più tempo per l’arte figurativa. Non c’è più tempo per un’arte riappacificante. Ha da travolgere, col suo turbinio. Da questa temperie tramonterà la stagione novecentesca dell’arte italiana, e nascerà il Fronte Nuovo delle Arti, a Palazzo Volpi, già in quel dieci di ottobre del ‘46.
“Malgrado queste presenze laceranti io ero per la ricostruzione... io... ero... dentro...”.
Questa volta, come in altre, capiamo l’arte travagliata attraverso la conoscenza del trambusto emotivo dell’uomo che l’ha plasmata, dei maestri dai quali è stato in bottega, del rapporto col padre, o quello con gli altri artisti, erompe, in trasfiguranti geometrie stese e asciutte, sfondo di quella sua Venezia, da cui non si è mai staccato, cui rimase sempre fedele (come alla moglie e come all’arte), per la vita e oltre, mai più così mitteleuropea, quella del bar All’Angelo, dove introduce l’avanguardia dell’epoca: Domenico Marchiori, Giuseppe Santomaso, Armando Pizzinato, Lorenzo Viani, Leone Minassian. Un tempo completamente dimenticato, in cui c’era arte e comunità, avanguardie, sperimentazioni collettive, in cui arte significava anche militanza e come tale non era mai, e mai avrebbe potuto essere, pacifica o pacificata.
I suoi quadri sono “reperti”. Anzi, no. “Muri d’inchiesta”. Qui per dire: “Dell’uomo. Della lacerazione dell’uomo”. Da cui, ancora una volta, Vedova cerca e trova la sua parte. Nella trasgressione. E come per il fascismo la sua arte era stata liquidata come inadatta in quando disfattista, per la Commissione sovietica di stampino zdanoviano, che aveva boicottato i Malevich, i Larionov, i Goncharova, suprematisti, radiantisti e futuristi, la sua era poco adatta al gusto del popolo. Era un’altra cosa, inaccettabilmente così lontana dal realismo dei Guttuso, cui lo legava la stessa tessera.
“Togliatti pubblicò su Rinascita una foto del mio Uragano... alla rovescia, parlando di pittura da non accettarsi”.
E Vedova si ritrova solo, di sinistra, libertario perché astratto, eppure attuale e contemporaneo, fino a quando, nel ’68, smetterà di lanciare il suo vuoto interiore contro le tele, ma scaglierà i tavoli contro i poliziotti, in Piazza San Marco, contestando anche lui la Biennale.
“Sento rompere il ghiaccio in me”, scriverà alla sua futura moglie.
Tante le immagini suggestive di cui l’occhio si riempie. Bellissime le incursioni dei quadri, su sfondo nero, come diapositive che in filigrana si accostino all’uomo Vedova che si va rivelando a poco a poco, un petalo alla volta, una sfoglia, uno strato di colore per volta, dinnanzi a noi. Lo vediamo mutare. La foto si fa video. Il bianco e nero cede il passo al colore. E la sua immagine si stempera. La zazzera si ritira, la barba, sempre prosperosa, si sbianca sempre di più. Compaiono i rosoni degli occhiali come fanali. Ma Vedova rimane sempre fedele a se stesso. Rutilante nella sua verbosità in affanno, come un David Helfgott del pennello, nemmeno il tempo lo scalfisce.
Rosso.
La sua baldanzosa andatura da plantigrado lo vede attraversare i decenni, un quadro dopo l’altro, le braccia ciondoloni, dipingendo in piedi, riverso, violando la tela bianca, penetrandola, dominandola, in preda a una trance emozionale. Il suo disegno, sempre nervoso, come lui, mai domo, mai fermo, mai statico, se all’inizio dipingeva tremolanti facciate di chiese in visione subacquea, dal tratteggio fitto come i suoi discorsi, incerto, eppure così suggestivo, dai cartoni sempre macchiati, laddove pure la macchia si faceva segno, non perturbante ma avvolgente, poi vira sull’emotivo senza forma, informale, gestuale, à la Fontana, à la De Kooning, à la Franz Kline. Sfibrato, incontenibile, della pura visione. Anarchico. Libero di non rappresentare. Tante le voci del coro greco che ce lo restituiscono: da Georg Baselitz, Fabrizio Gazzarri, direttore dell’archivio e della collezione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, nonché suo collaboratore dal 1980 alla sua morte, al presidente della medesima Fondazione, Alfredo Bianchini, a Gabriella Belli, direttrice della fondazione dei musei civici di Venezia, a Carla Schulz-Hoffmann, vicedirettrice generale del Bavarian State Collections, a Germano Celant, curatore artistico e scientifico, a Luca Massimo Barbero, curatore e direttore dell’istituto di storia dell’arte della fondazione CINI. A Karole Vail, direttrice della collezione nonché nipote di quella mecenate che la Peggy Guggenheim fu, e che che trascinò il povero Vedova, il cui nome si era appuntato su un pacchetto di sigarette, al Florian, e alla quale l’arte moderna, tutta, e perciò anche Vedova stesso, devono e dovranno tanto. Tanti gli incontri importanti con nomi altisonanti come Guttuso, la Guggenheim, o Renzo Piano, ma più di tutto quello con la compagna di una vita, che lo sosterrà e sorreggerà, sempre, senza mai staccarsi da lui, accompagnandolo ovunque, facendone da instancabile cassa di risonanza e cartina tornasole. Completandolo e curandolo. Annabianca, che Vedova seguirà dopo un solo mese, anche nell’ultima meta. Fra tutte le scene che colmano l’occhio, forse quella che resta impressa più di tutte, più delle sue lunghe falcate, i suoi peregrinaggi instancabili, è quando, solo con la lavagna, Vedova prova a spiegarci il suo modo di intendere l’arte. La messa in opera come messa in scena immersiva. Un avvolgente viaggio poliprospettico che trascenda i confini dei luoghi, fisici e materiali, come qualcosa da attraversare e da cui essere attraversati. La realizzazione di pannelli che si aprono e chiudono, come paratie, che invitano lo spettatore a penetrarli, a schiuderli, come scrigni, a mettersi in gioco anche spazialmente, a trarne una visione propria. Ecco il modo di intendere l’arte come esperienza da vivere, di Vedova, che lui mostra tracciando una riga bianca di gesso dalla lavagna lungo il muro e fino al pavimento.
“Doveva uscire questo messaggio. In avanti. Inserirsi nel territorio”.
Aveva smesso di essere dentro l’arte, la realtà, e aveva messo lo spettatore dentro. Ecco il modo che aveva Vedova di vivere l’arte. Sconfinando. Ecco il modo che ha questo documentario (degno dei vari Struggle: The Life and Lost Art of Szukalski di Ireneusz Dobrowlski o del Final Portrait su Alberto Giacometti) di riportarcela: sconfinando a sua volta, in un moto ondivago come la laguna veneta, giocando fra il dentro e il fuori, la mente e l’arte di Vedova, disinvoltamente passando fra la risacca della sua viva voce e la battuta vellutata di Servillo, in un gorgo che non conosce un solo sbocco, ma si propaga a raggiera, come doveva essere la personalità versatile di questo artista.
Sangue.





Artecinema 2020
Emilio Vedova – Dalla parte del naufragio
regia
Tomaso Pessina
con
Toni Servillo, Luca Massimo Barbero, Georg Baselitz, Gabriella Belli, Alfredo Bianchini, Germano Celant, Fabrizio Gazzarri, Carla Schultz-Hoffmann, Renzo Piano, Karole Vail
montaggio Olga Stopazzolo
fotografia Michele Vairo, Lucio Pontoni
produttore esecutivo Elena Pedrazzini
distribuzione Wanted
paese Italia
lingua originale italiano
colore bianco e nero e a colori
anno 2019
durata 68 min.

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