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Monday, 05 October 2020 00:00

“Scritti corsari” e cultura: perché riprendere Pasolini

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Degli Scritti corsari di Pasolini si citano spesso le riflessioni sul capitalismo e l’omologazione, oltre le opinioni dello scrittore che più hanno suscitato scalpore mentre era in vita e che oggi vengono riprese a seconda delle situazioni dalle diverse fazioni politiche; un aspetto forse passato in secondo piano, o comunque meno analizzato, è quello che riguarda la definizione di cultura: un pensiero, questo, lucido e attuale, soprattutto in un momento storico in cui si dibatte tanto attorno a quale sia la verità e, mentre gli stessi esperti non hanno certezze, chi crede ai complotti globali dà dell’ignorante a chi non ci crede e viceversa.

Ecco che tornano quindi importanti alcune pagine scritte in quegli anni, ad esempio quelle in cui Pasolini tenta di stabilire cosa sia in effetti la cultura italiana: “Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse”.1 Ecco quindi che non c’è una visione pacificata, una sintesi, ma che questo concetto si allarga e si complica, includendo i più disparati aspetti del vivere: “Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano ‘libere’ ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali”.2 Tenendo conto di un’accezione così ampia del termine il ruolo dell’intellettuale non può essere solo quello di preservare il suo ambito, di chiudersi al mondo e non tentare mai il dialogo con chi si occupa di altri settori. Anzi, è proprio nello sfondamento di quella parete, nel superamento della parzialità, che Pasolini intravede una possibile uscita, come scrive rispondendo a Italo Calvino: “Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente per bene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva”.3
Creare un collegamento con la dimensione che spesso viene taciuta, accantonata, con quell’insieme di persone che risulterebbero mute agli occhi della storia, i ragazzi delle borgate di Roma, i proletari, gli operai: ecco cosa suggerisce Pasolini in luogo del salotto televisivo, del distacco sdegnoso dalla massa. Invece negli ultimi anni mi pare che questo sia stato lo sbaglio di certa sinistra, oltre che del mondo cosiddetto intellettuale, che ha lasciato ampio raggio d’azione ad altre figure e diverse visioni, liquidate spesso in modo snobistico eppure di certo più popolari. Forse la consapevolezza del limite della conoscenza, della sua parzialità, invece, potrebbe portare una rinnovata umiltà e la ricerca di connessioni che si considerano spesso impossibili, come ci fosse una frattura tra una parte e l’altra del Paese (con l’uomo di cultura che finisce per rivestire il ruolo dell’incompreso, dello spocchioso, quasi accogliesse in sé elezione e maledizione insieme). D’altronde, scrive Pasolini, “noi intellettuali tendiamo sempre a identificare la ‘cultura’ con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l’ideologia con la nostra ideologia”.4 Idea che si sposa benissimo, risultandone amplificata, con quella espressa in un articolo dedicato al ritrovamento di alcuni testi inediti di Salvatore Di Giacomo, aggiunto ai Documenti e allegati agli Scritti corsari: “La quantità delle cose che non sappiamo è immensa, praticamente illimitata. Su questa usiamo ritagliare un piccolo quantitativo di conoscenze e informazioni che crediamo la nostra cultura. Per esempio, io avevo letto i volumi di poesia di Di Giacomo, e quindi credevo di conoscerlo. In realtà era una conoscenza di comodo, in fondo irrispettosa e interessata”.5
Una ripresa di questi concetti, la loro messa in pratica tra la consapevolezza del limite di chiunque e la creazione di relazioni fra più ambiti pur se differenti, potrebbe forse colmare quelle distanze che pare siano sempre più marcate e che lasciano tanto margine di manovra a persone capaci di approfittarne, restituendo a determinate figure − dagli insegnanti a chi si occupa con coscienza di informazione − un ruolo dignitoso e la possibilità d’una comunicazione vera, non soltanto teorizzata.





Pier Paolo Pasolini
Scritti corsari. Gli interventi più discussi di un testimone provocatorio
Garzanti Editore, Milano, 1975
pp. 307





1) 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo.
2) 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo.
3) 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino.
4) 11 luglio 1974. Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia.
5) Gli uomini colti e la cultura popolare, uscito sul Tempo il 22 febbraio 1974.

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