“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 03 August 2020 00:00

I pugni serrati di Samisà

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Samuele, quattro anni a settembre, è mio figlio, il mio secondo figlio. Sin dalla nascita ci piace chiamarlo Samisà, per vezzo, per carezzare con la lingua la sua scontrosità: è una delle nostre strategie per ammorbidire la sua diffidenza; è nato suscettibile infatti, s’è affacciato alla vita con sospetto, non lasciava avvicinarsi nessuno, non permetteva lo si prendesse in braccio, non amava gli sguardi degli altri su di sé. Per me, che ho fatto dell’incontro con l’altro lo stile del mio fare, è stato un duro colpo; c’ho lavorato su parecchio e oggi Samisà, così come sua sorella Gaia, “fa parlare anche i muri” (questa espressione la usò una volta Lucia Calamaro per descrivere me e dunque mi compiaccio di scriverla qui): è diventato tanto socievole e vivace, talmente vivace da costringermi a rimandare il suo incontro con il teatro, nel rispetto di chi suda dietro e sulla scena e del pubblico pagante, e un po’ anche nel rispetto mio, che non amo essere disturbata e non avrei gradito trovarmi in situazioni imbarazzanti.

Il 29 luglio ho pensato ci fossero tutte le condizioni perché si tenesse questo primo incontro: la messinscena  era all’aperto (la splendida cornice di un Teatro Romano), il pubblico non sarebbe stato particolarmente numeroso (ahimè), avremmo potuto guadagnare velocemente e senza dolore la via di fuga, lo spettacolo era di teatro di figura e, soprattutto, il precedente accordo pre-cinema all’aperto aveva funzionato. Ristabilito il patto/contratto/accordo madre-figlio iniziale guadagniamo la prima fila non senza un tentativo, da parte di Samisà, di stabilirsi “sul” palco, pensando fosse quello il posto che avremmo potuto occupare: mancano proprio le nozioni base, a mio figlio, il figlio mio, di me proprio!
Bisogna recuperare in fretta: gli spiego chi occupa (spesso, non sempre... la cosa si complica, devo procedere per omissioni) il palco (praticabile) e chi invece occupa i gradoni (poltroncine/platea/palchi/galleria/loggione: devo semplificare, avrà tempo per conoscere tutte le variabili), gli spiego che quella specie di scatola sul palco conterrà lo spettacolo, che è lì dentro che gli attori reciteranno la loro parte (Gaia nel frattempo è con delle amichette, mi posso concentrare su Samisà); gli dico che sono attori veri e saranno lì davanti a noi, non come al cinema, sono cioè in carne e ossa davanti a noi (“in carne ed ossa?!” mi fa eco stupito Samisà); gli anticipo che appena si spegneranno le luci avrà inizio la magia: “Ah” mi risponde interdetto. La mezz’oretta di ritardo per l’inizio dello spettacolo ha messo a dura prova il nostro accordo, non l’ha infranto però: abbiamo trovato il modo di occupare il tempo annusando l’erbetta sotto i nostri piedi, c’era infatti odore di mentuccia e volevo trovarla per Samisà e, una volta trovata, gli è piaciuta tanto da volerla tenere stretta tra le mani.
Le luci si abbassano (ci sono un po’ di problemi tecnici del fonico che portano Samisà a interrogarmi), nel frattempo prendo il mio taccuino e inizio a scrivere i miei appunti, mi distraggo da Samisà, ogni tanto Gaia mi chiede spiegazioni − lo spettacolo, attraverso una ricostruzione del viaggio di Ulisse, propone una lettura dell’eroe e dell’uomo e del suo peregrinare e per farlo utilizza alcuni miti greci ed è dunque necessaria l’intermediazione di un adulto −  poi continuo a scrivere, continuo a spiegare e di Samisà, che mi siede accanto, quasi mi dimentico.
Quando, a metà messinscena, Ulisse affronta la Medusa (una bellissima Medusa di gommapiuma realizzata da Mario Mirabassi) vedo Gaia coprirsi gli occhi (che bella la mia bambina, s’è lasciata rapire, è dentro la narrazione, è dentro le spettacolo, è a teatro) mentre temo per la reazione di Samisà: mi volto, lo guardo, è pietrificato, come se avesse guardato anche lui dritto negli occhi la Medusa, come se avesse subito il suo incanto; ha i pugni chiusi a mezz’aria, ancora, li ha tenuti serrati dall’inizio dello spettacolo, sta così da mezz’ora, con quella morsa a custodire la mentuccia. Lo chiamo quindi a bassa voce, non mi risponde, mi avvicino di più, ha gli occhi lucidi, il mio primo pensiero è ansiogeno, temo subito che qualche scena l’abbia turbato, lo tocco, gli chiedo se va tutto bene, mi risponde con un filo di voce, senza staccare gli occhi dalla scena, che sta bene. L’osservo ancora e penso. Penso a quello che avevo appuntato, a quello che avrei voluto scrivere, al mio sguardo e a quello dei bambini − così diverso, così sincero, così immediato −; penso ai filtri, ai pregiudizi, alle informazioni, alla consapevolezza, a quanto sia difficile per me lo stupore, a come sia meraviglioso quello dei miei figli, a quanto amo le loro visioni, a quanto vorrei averne di nuovo, a come sia facile per loro emozionarsi, a come sia frequente creare bellezza, a quanto sia impossibile per me (eh già, “a come” per loro, “a quanto” per me).
Tutti i bambini sono degli artisti nati, il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi mi torna quindi in mente Pablo Picasso, i suoi disegni, i suoi schizzi, i progetti, i vari passaggi, la lentezza per arrivare all’opera finita, alla fretta che contraddistingue il presente adulto, la folle genialità della sua arte, la folle genialità dei bambini, la spontaneità delle loro relazioni, dei loro approcci, degli incipit, alle rigide categorie con cui vorremmo ingabbiarli, al tempo della libertà, che è tempo squisitamente infantile e che dovrebbe essere tempo maturo, ma non permettiamo lo sia. Penso al teatro, all’ineffabile creazione di senso e relazione. Decido di non scrivere più nulla di ciò che ho visto e sentito sulla scena, capisco che non ci sia nulla di vero in quello che il mio giudizio ha visto e sentito sulla scena, voglio scrivere dei pugni serrati di questo scricciolo di tre anni, del suo incanto, del suo primo incontro con lo spettacolo dal vivo, con questo gioco che in fondo e non a caso amo da sempre.
I bambini non mentono; sono il pubblico ideale, i loro sorrisi sono più ampi dei nostri, i loro applausi più vigorosi, i loro entusiasmi più potenti; sono gli unici a poter stabilire se uno spettacolo funzioni o meno e sono i veri consumatori: sono quelli, infatti, che ancora comprano i libri, i cd, i dvd, i blue ray... e i biglietti a teatro.

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