“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 10 March 2020 00:00

Ambizione e disincanto: “Acqua nera” di J.C. Oates

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Metà anni Novanta. Grayling Island, Maine, Stati Uniti. Una Toyota nera corre veloce nel buio della notte per raggiungere un traghetto ormai in partenza. Alla guida un senatore statunitense che, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo ad una festa, spinge sull’acceleratore mentre al suo fianco siede, preoccupata per la sua guida spregiudicata, una giovane donna. La velocità è elevata, il buio ci mette del suo, ed ecco che all’improvviso l’auto sbanda nel mezzo di una curva e finisce per inabissarsi in un lago.

Con questo racconto prende il via Acqua nera di Joyce Carol Oates, rimandando così, sin dalle prime pagine, al celebre incidente automobilistico dell’estate del 1969, a pochi giorni dalla missione di Apollo 11, in cui Ted Kennedy, di ritorno da una festa sull’isola di Chappaquiddick, finì in acqua con la sua giovane segretaria causandone la morte.
Joyce Carol Oates ha raggiunto la notorietà soprattutto grazie alla monumentale, e non soltanto in termini quantitativi, tetralogia Wonderland Quartet, composta da quattro romanzi usciti nel giro di pochi anni a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: un’opera narrativa capace come poche altre di offrire un affresco così profondo e spietato del Novecento statunitense. Grazie all’editore Il Saggiatore, che già l’aveva meritoriamente introdotto in Italia nel 2002, è da poco stato ristampato e distribuito nelle librerie il romanzo Acqua nera (Black Water, 1992) della Oates.
Quella imbastita dalla scrittrice è un’opera sul potere e sulla politica, sulla ferocia con cui sono capaci anche di plasmare sogni ed immaginari altrui, raccontata attraverso la tragica parabola di una giovane donna trovatasi di fronte a una realtà e ad un epilogo ben diversi da quelli desiderati.
Ancora una volta Oates mette in scena, magistralmente, una vicenda di ambizione e disincanto attraverso le vicende di una ragazza, Kelly, che passa dall’idealismo coltivato nei campus universitarialle più prosaiche fantasie covate alle feste dei comitati elettorali sulla East Coast, dai desideri di carriera al tragico epilogo che l’attende una notte in cui le cose sembravano svoltare nella direzione a lungo agognata.
Il romanzo prende il via proprio da quell’auto che corre velocemente verso il baratro, da quegli ultimi istanti di vita di una donna conclusasi troppo presto, istanti che però bastano a farci rileggere la storia delle sue ambizioni e del rapido trasformarsi finale del montante disincanto in tragico ultimo respiro.
“Lui le aveva detto di chiamarlo col nome di battesimo – il diminutivo – naturalmente. Ma chissà perché Kelly non se la sentiva ancora. Quanta intimità, lì insieme in quell’auto sobbalzante e slittante. L’acre odore inebriante dell’alcol tra di loro. Baci birrosi, quella lingua abbastanza spessa da soffocarti. Qui accanto a lei c’era una persona immune da tutto: lui, uno dei più potenti della terra, un uomo virile, un senatore degli Stati Uniti, un volto famoso e un passato tortuoso, un uomo la cui sorte non era solo di subire la storia ma di guidarla, controllarla, manipolarla ai suoi fini”.
Poi l’uscita di strada mentre “lei non riusciva a trovare il fiato per urlare mentre la velocità dell’auto li proiettava verso un argine basso ma scosceso, un furioso ticchettio contro l’auto come se si fossero spezzati dei rami secchi, e tuttavia lei non trovò il fiato per gridare mentre l’auto s’inabissava in quello che sembrava un pozzo, una polla, acqua stagnate delle paludi che immaginavi fosse alta solo poche spanne”.
Nemmeno il coraggio di urlare per non urtare il sentore. Nemmeno quell'ultimo urlo aveva saputo emettere prima di trovarsi con il peso dell’uomo addosso all’interno di un abitacolo ormai circondato dall’acqua. “Non sta succedendo davvero, non posso morire così, quanti secondi o minuti prima che il Senatore gemendo ‘Oh Dio. Oh Dio’ artigliasse tremando la cintura di sicurezza riuscendo a districarsi con forza dal sedile dietro il volante contorto e con frenetica energia si spingesse oltre la portiera”.
Inconsapevole di quanto tempo fosse passato da quel tuffo a quattro ruote in acqua, Kelly si trovava a lottare per sottrarsi alle acque cercando di afferrare il braccio di quell’uomo “immune da tutto”, braccio che invece la respingeva. Solo allora la bocca della donna si spalancò emettendo un grido di dolore e di terrore “afferrandosi freneticamente con le unghie spezzate alla gamba di lui, poi alla caviglia, al piede, alla scarpa di tela con la suola di gomma che le rimase in mano mentre lei, intrappolata nell’auto, gridava supplicando: ‘Non lasciarmi!... aiutami! Aspettami!’. Senza avere ancora un nome con cui chiamarlo mentre l’acqua nera la aggrediva riempendole i polmoni.”
È “alle Kelly...” che Oates dedica il romanzo. Alle tante Kelly d’America, e non solo, tristemente destinate a vedere i propri sogni trasformarsi in altrettante disillusioni. E se fossero quei sogni ad essere sbagliati? Ecco la domanda che sembra fare capolino tra le righe di questo come di altri romanzi di Joyce Carol Oates, una scrittrice capace di raccontare, oltre che del lato oscuro dell’America, di quella miseria che ne ha contaminato i sogni.





Acqua nera
Joyce Carol Oates
traduzione di Maria Teresa Marenco
Il Saggiatore, Milano, 2020
pp. 138

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