“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 24 February 2020 00:00

"Finestre": istantanee ed appunti

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La Piccola Compagnia Dammacco − ovvero Mariano Dammacco, autore, regista e pedagogo, Serena Balivo, attrice, e Stella Monesi, illustratrice e tecnico − compiuto il processo di fondazione e avviamento della propria comune ricerca teatrale con gli spettacoli L’ultima notte di Antonio (2012), L’inferno e la fanciulla (2014), Esilio (2016), La buona educazione (2018), continua il lavoro di costruzione di una compagnia teatrale accogliendo all’interno del proprio percorso altri attori. La prima tappa di questa nuova costruzione è accaduta tra febbraio e giugno del 2019 grazie al progetto Finestre. Esercizi di ricerca e composizione teatrale, attraverso il quale la compagnia ha potuto, in quattro diversi momenti di laboratorio, sperimentarsi al lavoro con gruppi di oltre dieci attori.

Il progetto Finestre è stato possibile grazie alla volontà di sostenerlo e ospitarlo di L’arboreto-Teatro Dimora | La corte ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna, Centro Culturale Il Funaro di Pistoia, Associazione Franco di Civitanova Marche, Teatro di Dioniso di Torino. In questo scritto Finestre: istantanee ed appunti, a un anno esatto dall’inizio del progetto stesso, sono raccolte alcune testimonianze scritte da attrici, critici, studiosi, uomini e donne di teatro che hanno preso parte attivamente al percorso:


− Fabio Biondi (direttore artistico di L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino):
1. I Teatri delle Residenze. Luoghi e progetti di accoglienza
2. Di finestra in finestra


Alessandro Toppi (critico teatrale):
1. Parlandone, seduti su una panchina
2. Vedo
3. Ciò che ho imparato


− Lorenzo Donati (studioso, critico teatrale di Altre Velocità e dottorando all’Università di Bologna):
1. Diffidare delle emozioni e dello sguardo



− Francesca Giuliani (studiosa e critico teatrale):
1. Pedagoghi. Fuori e dentro la scena



− Federica Bastoni (attrice e danzatrice):
1. La psicologia del personaggio
2. Una comunità anarchica


− Erica Galante (attrice):
1. Il corpo danzante
2. L’importanza del cerchio
3. Improvvisazione strutturata


Ksenija Martinovic (attrice):
1. Riflessioni sul personaggio


− Elena Di Gioia (dramaturg e direttrice artistica di Agorà):
1. La ripetizione: letteratura di apertura


− Vincenza Di Vita (studiosa e critico teatrale):
1. Riflessioni per Finestre Rubiera, 26-28 giugno 2019


− Maddalena Peluso (ufficio stampa):
1. Finestre




I Teatri delle Residenze. Luoghi e progetti di accoglienza
di Fabio Biondi, direttore artistico de L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino
testimone della terza tappa di Finestre, maggio 2019
Dalla parte dei viandanti e dei nomadi sulla strada del ritorno, i luoghi di residenza rassomigliano a soste temporanee autorizzate, prima di ripartire verso altri percorsi artistici e organizzativi. Per le vie maestre o lungo le strade secondarie, I Teatri delle Residenze sono luoghi di accoglienza che permettono agli artisti di fermarsi per concentrarsi sulla possibilità di mettere in vita un nuovo progetto creativo, da soli o con altri compagni di viaggio. I Teatri delle Residenze, spazi di lavoro e di convivio, consentono di imbastire le prime trame d’autore e, contemporaneamente, di entrare nei profondi respiri delle comunità che determinano la specificità dei luoghi e dei progetti di residenza. Per la ricerca, la sperimentazione e la composizione di nuove opere, i Teatri delle Residenze hanno la funzione di alimentare il transito degli artisti che desiderano fermarsi, in ascolto delle stagioni che scorrono lentamente, con la segreta speranza di perdersi per un po’ di tempo, lontani dalle luci delle città che continuano ad illuminare i teatri di rappresentazione.

Di finestra in finestra
di Fabio Biondi, direttore artistico de L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino
testimone della terza tappa di Finestre, maggio 2019
Alla prova dei fatti, Finestre. Esercizi di ricerca e composizione teatrale è un atto di coraggio artistico e organizzativo: l’inizio di una nuova umanità teatrale che si appoggia su una precedente drammaturgia del testo e della scena; un corpo e a corpo fra autore/regista e attrice che ha prodotto negli anni un originale processo creativo, verso la rappresentazione di spettacoli e la pubblicazione di testi teatrali.
Ora, consapevolmente, Finestre si potrebbe anche identificare come il desiderio di entrare in silenzio nel vuoto della scena, per comprendere le potenzialità delle scritture dei corpi degli attori, multipli, a fianco delle parole sconosciute o non ancora pronunziate. Nei luoghi di residenza creativa, negli intrecci fra ricerca e formazione, Finestre è l’incontro di Mariano Dammacco e Serena Balivo con nuovi e altri attori, diversi dalla matrice che ha generato la piccola storia della Piccola Compagnia Dammacco, eppure uguali per l’intenzione di scandagliare le risorse infinite delle scritture sceniche, qui attraverso le nutrienti pratiche della cultura del laboratorio, che apre le finestre dei teatri contemporanei.


Parlandone, seduti su una panchina
di Alessandro Toppi, critico teatrale
testimone della terza tappa di Finestre, maggio 2019
Alla fine ci sediamo sulla panchina esterna del Teatro Dimora L’arboreto: umida è l’aria mentre la foschia vela la percezione del sentiero di terra ed arbusti che abbiamo di fronte. “I ragazzi torneranno in sala tra un’ora, che ne dici di chiacchierare un po’?” mi chiedono Mariano Dammacco e Serena Balivo: il primo adoperando le parole, la seconda parlandomi attraverso lo sguardo. Mi diranno. Della necessità di affrontare il tema del lutto amoroso; del bisogno di farlo assieme ma non più da soli; della voglia che hanno “di trovare nuovi compagni, di confrontarsi con altri artisti, di formare una compagnia più ampia, momentanea e variabile a seconda della messinscena”. Mi diranno di una progettualità che vorrebbero quinquennale, di una nuova trilogia da realizzare, del “capocomicato interno” a cui stanno pensando, degli spettacoli che sarebbero potuti essere ma non saranno mai e di quelli che adesso, forse, stanno cominciando a far nascere; mi diranno dell’esigenza che sentono di smarcarsi dalle pretese del mercato che, da un lato, obbliga a pensare in fretta e a realizzare in piccolo – insomma: devi produrre qualcosa ogni anno se vuoi continuare ad esistere e, nel contempo, devi adeguarti alle povertà che caratterizzano la tournée di un gruppo indipendente – mentre dall’altro suggerisce di replicare te stesso: perché non rifate un monologo? Perché non riprendete quel titolo che in passato ha funzionato? Provate a riutilizzare la formula con cui avete girato parecchio e grazie alla quale, se non mi sbaglio, avete vinto anche uno o due premi. E invece.
“Ci chiediamo in che modo dobbiamo parlare domani”; “questa volta non vorrei agire un testo”; “ci piacerebbe interrogare la danza”, “siamo affascinati dalla coralità, dalla moltitudine in movimento, dalla coreografia collettiva” e “stiamo tentando di aggrapparci al corporeo”, “lavoriamo a suggestioni ulteriori”, “ci occorrono nuovi stimoli che motivino la nostra presenza in palcoscenico”. E ancora: “vogliamo continuare a provare il desiderio di incontrare il pubblico, ogni sera e ogni volta”; “siamo in cerca di un nuovo lessico, attraverso il quale dire questo qualcosa che ci preme a qualcuno di cui ci importa”; “abbiamo il dovere di continuare ad amarlo, questo mestiere, e di provare ad essere felici mentre lo facciamo”.
Poi si voltano e – Mariano Dammacco usando di nuovo le parole, Serena Balivo di nuovo parlandomi attraverso lo sguardo – mi chiedono: “tu che ne pensi?”.

Vedo
di Alessandro Toppi, critico teatrale
testimone della terza tappa di Finestre, maggio 2019
L’ampio palco semi-rettangolare. Attorno pareti di muratura rossa intervallate da nove grandi vetri-porta/finestra, coperti da teli neri. Un tetto dalle travi di legno chiaro: a sinistra i camerini mentre a destra c’è una terrazza sulla quale riposare o sgranchirsi, nei momenti di pausa. Poco entra – di volta in volta – in assito: sedie, panche, microfoni, un materasso; penetrano invece spesso tagli di luce dall’alto e, soprattutto, la musica: partiture classiche s’alternano quindi a Boum Boum Boum di Mika, Niente di Malika Ayane, Bad Guy di Billie Eilish. Tra i gradoni della platea restano intanto gli zaini, le felpe, le tute, i cappelli e i calzini, le scarpe e gli occhiali delle attrici e degli attori. Vedo avvenire – decine di volte al giorno e ogni volta in forma (leggermente o totalmente) diversa – una battaglia tra due gruppi di donne che si spiano, si minacciano e che infine (attraversato lo spazio con la ferocia glamour con cui le modelle si appropriano della passerella) giungono in avanti contendendosi visibilità e diritto d’esistenza in proscenio: si strattonano quindi, s’intrecciano, lottano, s’incastrano l’una all’altra producendo un fermo-immagine conclusivo e grottesco che mi ricorda La zattera della Medusa di Gericault. E vedo, nei cinque giorni in cui osservo il lavoro: brevi partiture che sarebbero perfette per un video musicale; improvvisazioni individuali svolte usando solo una sedia, al cospetto di un pubblico formato dai tuoi compagni di recita; vedo storie narrate coi gesti (una donna e un uomo che si perdono e si ritrovano; un angelo che resta senz’ali; una ragazza che prova a narrare qualcosa senza riuscire a dire niente; due persone che fanno l’amore, prima di tradirsi o essere divisi); vedo frame bidimensionali e spasmodici tanto quanto lo sono i cartoni animati e lente sequenze in cui ognuno riattiva la propria emozione più segreta, finendo per calare la testa, rannicchiarsi a terra e piangere. Vedo conflitti, abbracci, rancori e sorrisi, discussioni e sostegno e vedo fatica, sforzo, inventiva, entusiasmi improvvisi (“questo va bene”) che si mischiano, si confondono e si alternano a sprechi, errori, all’immediata negazione di ciò che è stato appena tentato. Vedo una quantità enorme di materiale umano ed artistico, insomma, che s’accumula colmando le giornate vissute e il teatro in cui siamo.
Lo vedo apparire, imporsi, lasciarsi contemplare e svanire: probabilmente per sempre.

Ciò che ho imparato
di Alessandro Toppi, critico teatrale
testimone della terza tappa di Finestre
Osservando una tappa di Finestre ho imparato che il tempo e spazio residenziale sono un continuum del quale fanno parte anche i ritagli di chiacchiera, il sali/scendi dalla casa al teatro, le colazioni, i pranzi e le cene, le sigarette fumate all’aperto, la nostalgia di casa, le telefonate fatte a un fidanzato, a un padre o una madre, passeggiando avanti e indietro in uno spiazzo e i caffè pomeridiani, le discussioni serali, il training del mattino – momento nel quale ognuno non è in contatto che con sé stesso. Ne fanno parte le quattro ore trascorse a parlare di Shakespeare, Beckett, García Lorca, del Platonov de Il Mulino di Amleto, del Così è (se vi pare) di Filippo Dini, della scrittura di Mimmo Borrelli, delle piccole sale di Roma e di Napoli e del sistema teatrale emiliano e torinese. Fanno parte del tempo e dello spazio residenziale il confronto tra le esperienze già vissute, gli sfottò e le battute, l’incrocio dei dialetti parlati, la città o la famiglia dalla quale provengo e di cui ora ti racconto, questo silenzio di cui ho bisogno – questo distacco di cui necessito adesso da tutti voi. Voglio-stare-tranquillo. Ne fanno parte il viaggio fatto assieme da o per la stazione, la medicina che mi dai perché non mi sento bene, una canzone cantata assieme, il libro che sto leggendo e che vorrei leggessi anche tu. Ne fanno parte i consigli che ci scambiamo (prova a muovere questa gamba, inarca di più la schiena, coordina braccia e testa, hai provato ad andare più veloce?) tanto quanto ne fanno parte le diversità, certe micro-intolleranze reciproche, gli errori di comportamento commessi. Fanno parte del tempo e del lavoro residenziale anche i chiarimenti, duri ma necessari, svolti in foyer (perché la sala non ne sia coinvolta) e al cospetto di tutto il gruppo: servono a (far) rispettare la propria storia e la propria poetica, a rendere professionalmente fruttuosa quest’occasione e permettono (chiarito quel che è davvero avvenuto) di riprendere dal punto in cui eravamo rimasti.
Del tempo e dello spazio residenziale fa parte infine la lunga prova notturna durante la quale tempo e spazio si sgranano, non esiste più la durata né si percepisce l’esistenza effettiva del resto del mondo e l’unico flebile segno ulteriore è il verso di chissà quali uccelli, nascosti tra gli alberi fitti ed il buio.
Esperienza, questa, davvero indimenticabile: anche per un critico.


Diffidare delle emozioni e dello sguardo
diLorenzo Donati, critico teatrale
testimone della quarta tappa del progetto Finestre, giugno 2019
È a tutti noto il tragitto poetico di uno dei padri del teatro del Novecento, Konstantin Stanislavskij, quando comprese che era del corpo che gli attori dovevano fidarsi, e non solo delle emozioni. Era sempre dell’emotività che si andava in cerca, anche per trasmetterla agli spettatori, ma il punto di partenza non erano più la memoria e la ricostruzione biografica, ma una trama di azioni preludio al sentimento, un principio che condivideva col suo allievo, il fondatore del metodo biomeccanico Vsevolod Mejerchol’d. Stando di fronte al lavoro degli attori e delle attrici in prova alla Corte Ospitale di Rubiera durante il progetto Finestre, diretti da Mariano Dammacco e guidati dall’interno da Serena Balivo, si faceva largo un’interrogazione fertile sulla sostanza del lavoro attoriale, che inerisce la questione delle origini. Da dove partono, queste attrici e questi attori, nella loro ricerca? A cosa attingono, per precisare e trovare quella loro gestualità ripetuta? Li abbiamo visti tessere una sequenza ininterrotta di micromovimenti che probabilmente non arrivano a essere una messa in forma di danza, eppure nemmeno si attestano sul piano della quotidianità ricreata del teatro. Al chiuso della sala li abbiamo visti mimare un triangolo amoroso, con due donne che si contendevano ma anche irridevano una figura maschile. Sotto il colonnato nel chiostro usavano gli archi come piccoli stage personali dove mostrarsi sfrontatamente accompagnati da una canzonetta pop, o sul prato divisi in due gruppi contrapposti e in lotta, quasi a inveire gli uni contro gli altri per marcare le fratture di una passione amorosa che finisce e ora si aggredisce, grottescamente si accapiglia, prende pose marcatissime con gli arti spigolosi e la mimica facciale estroflessa. Li abbiamo osservati negli esercizi mentre affinavano idioletti che lambivano il grottesco e lo slapstick, sostando anche nei paraggi di una strada opposta, quella di un naturalismo mai davvero imboccato. Stavano nel mezzo, esercizio complicatissimo anche perché si accompagna alla necessità di uno sguardo interstiziale. Guardare il loro lavoro significa provare a fare pulizia per sgretolare i margini di un codice nel momento stesso in cui lo si vede apparire, insomma sospendere lo sguardo. Crediamo che il lavoro degli attori e delle attrici, quando sfiora l’umano e le relazioni non possa che generare altrettante domande sul “lavoro” degli spettatori e delle spettatrici, dando forma a un groviglio inestricabile di domande sul teatro e sulla vita. Occorre diffidare delle emozioni, dicevano i maestri. Nelle “finestre” di Dammacco e Balivo sembra aprirsi una fessura su un’emozione di cui sentiamo di poterci fidare, perché sono i corpi degli attori e delle attrici a parlare, perché questi corpi ci domandano di diffidare del nostro sguardo.

P.S. Un processo siffatto è possibile se si osserva una compagnia indipendente che sta coltivando al suo interno dei percorsi di trasmissione e formazione in un centro di residenze e produzione. Non siamo in un teatro, né in un’accademia, né in un corso di perfezionamento professionale. Qui si respira un’aria gravida di futuro, dovremmo proteggerla e sostenerla.


Pedagoghi. Fuori e dentro la scena
di Francesca Giuliani, critico teatrale
testimone della terza tappa di Finestre, maggio 2019
Pedagogo era all’origine, nella sua radice greca che unisce il sostantivo “pais” (fanciullo) al verbo “ago” (condurre), colui che guida i fanciulli. È da questa parola ormai desueta che vorrei iniziare una breve riflessione sulla residenza della Piccola Compagnia Dammacco a L’arboreto Teatro Dimora in occasione del progetto Finestre. Coloro che guidano gli attori è la traduzione necessaria per raccontare, usando il termine greco, i giorni di lavoro a Mondaino di Mariano Dammacco e Serena Balivo, pedagoghi appunto, “conduttori” dentro e fuori la scena degli attori partecipanti al progetto.
Fuori c’è Mariano: regista che è maestro dello sguardo, guida attenta nella costruzione dell’attenzione degli spettatori. La quarta parete è caduta e gli sguardi degli attori sono attivi, rivolti al momento giusto sul fuori, diretti a portare dentro chi guarda. Dammacco se ne sta ai bordi di quella soglia, quasi a delimitare quello spazio altro: guida le relazioni tra i corpi, scandisce i tempi con le giuste musiche che fanno da contrappunto alle azioni fisiche, pone l’accento su fermi-immagine, precisi scatti fotografici, compone un grande piano sequenza nel quale gli attori all’unisono lavorano alla definizione sincronica della figura scenica che ognuno si porta addosso.
Dentro c’è Serena: attrice che è maestra della drammaturgia fisica, li guida con gli sguardi, i gesti, le attraversate veloci del palco, le intese, il suo corpo tutto in azione. Lavora con loro accompagnandoli nella costruzione di una precisa autorialità. Sì perché questi attori, seguendo l’esperienza della compagnia, si fanno autori di sé stessi, creano drammaturgicamente personaggi, o meglio tipi stereotipati, danzando in corpi che si fanno burattineschi. Mariano e Serena, pedagoghi di una pratica scenica costruita negli anni, guidano gli attori nella costruzione di una precisa drammaturgia d’attore. Attraverso un canovaccio per ora svuotato di parole, che affonda in un vasto tema come la morte di un amore, montano azioni fisiche basate su una danza che muove corpi carichi di senso, corpi che creano visioni.


La psicologia del personaggio
di Federica Bastoni, attrice e danzatrice
attrice in Finestre
Mariano Dammacco, in sala, conduce i suoi attori, soprattutto in una preparazione fisica che si dipana attorno ad alcuni principi fisici fondamentali, che diventano sostrato ineludibile di qualunque successiva creazione. Questi principi sono: il dinamismo dei piedi, la gestione bassa del baricentro, la scomposizione biomeccanica dei segmenti articolari, la consapevolezza delle direzioni dello sguardo. Ogni personaggio che quindi viene forgiato dall'attore attivato secondo questi principi, sarà un “dispositivo vivente” in grado di modulare la sua psicologia attraverso il corpo.
Per l’attore, questo semplice modus operandi − che si radica nella storia del teatro avanguardista novecentesco a partire da Artaud, a Mejerchol’d, fino a incarnare gli assunti della teoria periferica delle emozioni di William James − può diventare fonte di pacificazione, unità, serenità e liberazione: non gli viene infatti più richiesta quella indefinita indagine personale, a cavallo fra Gestalt e costellazioni familiari per rivivere, chissà poi in quale sede anatomica, certe emozioni, al fine di rappresentarle; bensì gli viene chiesto di dare al contesto del proprio personaggio, una geometria viva in cui mettere il proprio corpo, al fine di farlo attivare perché provi, indipendentemente dai suoi ricordi, certe emozioni, qui e ora.

Una comunità anarchica
di Federica Bastoni, attrice e danzatrice
attrice in Finestre
Per condurre se stesso attraverso la ricerca della Piccola Compagnia Dammacco, l’attore non può vivere scisso fra sala e riposo, poichè tutto ciò con cui nutre − o alternativamente ostacola − la sua mente e il suo corpo, risuonerà nel suo lavoro artistico. Ma anche in questo la compagnia non viene mai lasciata sola, bensì guidata dal carisma vero e proprio, umano, anarchico, assolutamente a-convenzionale di Mariano. Infatti Dammacco richiede nel tempo del riposo, una rigorosa igiene delle relazioni, senza paura di vietare ai suoi attori tutti gli eccessi: pc, alcool, bagordi notturni, confidenza non richiesta fra colleghi, giudizio e pregiudizio. Quello che si crea è un gruppo di atleti silenziosi, che spesso nel tempo libero, si ritrova in assembramenti di persone sedute a guardare intensamente un tramonto. Questa comunità anarchica, che non spreca nessun momento della sua esistenze riempiendo vuoti, in sala è poi un esercito compatto, pronto a far fuoriuscire tutta la follia necessaria al teatro, incanalata attraverso gli strumenti del lavoro attorale, in una sperimentazione brulicante.


Riflessioni sul personaggio
di Ksenija Martinovic, attrice e regista
attrice in Finestre
“Noi creiamo ritratti” − una volta individuato l’argomento, si lavora sulla tematica, data la tematica si lavora sui pensieri del personaggio ritratto.
Il TESTO è il PENSIERO dell’attore.
C’è un’anima dentro questo personaggio?
Si lavora per capire l’intenzione... e poi si suona; il copione è uno spartito.
Lavorare sulla leggerezza.
Darsi i compiti. Partiture nello spazio. Evocare lo stato di coscienza.
L'equilibrismo è la dote del grande interprete.
*... tanto rigore all’interno di una leggerezza quasi bambina.
Se uno sceglie i propri strumenti ha già scelto una poetica.


Il corpo danzante
di Erica Galante, attrice
attrice in Finestre
Il “corpo danzante”, parte fondamentale della ricerca della Piccola Compagnia Dammacco, è accompagnato per la maggior parte del tempo dalla musica. La musica, in particolare quella elettronica con il suo ritmo cadenzato, risveglia il corpo, permette ad ogni attore di attivare consapevolmente una determinata parte del fisico attraverso gli impulsi. Gli attori, quando iniziano a “danzare” le prime volte vengono invitati a lasciarsi andare a trovare il divertimento del muoversi in modo stilizzato. Una volta che il corpo ha preso vita, attraverso gesti chiari e passettini, allora si può iniziare a dare corpo alla musica stessa. Una qualità che ha Mariano Dammacco come regista è quella di selezionare nel suo arsenale musiche suggestive e narrative, che permettano ai suoi attori danzanti di creare scene di senso e dalle qualità ben chiare e un suo pregio è quello di saper vedere storie dentro le musiche. E quando ogni quadro musicale ha la propria narrazione specifica, l’artista ha la possibilità di giocare con la composizione più ampia del lavoro. In questo modo riesce a dar spazio ad un racconto manifesto benché evocativo. Un esempio è il lavoro che è stato fatto su di un brano di Paganini utilizzato per dar vita ad una lite, sulla quale alcuni di noi attori hanno iniziato − sempre sotto l’attenta guida di Mariano − a cercare di articolare anche la parola, uscendo sempre dai canoni della quotidianità.

L’importanza del cerchio
di Erica Galante, attrice
attrice in Finestre
Alcuni dei momenti essenziali nella condivisione dell’approccio lavorativo della Piccola Compagnia Dammacco avvengono in una terra di mezzo fra palco e regia: seduti tutti insieme in cerchio. La figura del cerchio è significante perché le persone che lo compongono sono equidistanti e il contatto visivo è possibile stabilirlo con ogni compagno. Si è parte, in tal modo e allo stesso modo, di un’unica squadra, dello stesso gruppo, della stessa compagnia e chi compone questo spazio ha la possibilità di abitarlo.
Egualmente agli altri Mariano e Serena, le due guide, fanno parte del cerchio, seduti accanto ai propri attori. È Dammacco a tenere la parola, condivide i processi del lavoro, alcuni stimoli utili al gruppo, approfondisce la grammatica che sta trasmettendo anche con le parole. Fa chiarezza. Alla fine di ogni sezione, più o meno ampia, chiede a Serena se vuole aggiungere qualcosa: le passa la palla. Se necessario permette agli stessi attori di condividere dei pensieri sul lavoro svolto, o elementi che potrebbero nutrirlo. Mariano scandisce così i tempi del lavoro in sala ritenendo importante e fertile questo spazio protetto per la Compagnia, il Cerchio. Il cerchio è luogo di condivisione di sapere. Serena abbandona il perimetro e ne occupa il centro per condividere con gli allievi il suo training di agilità. Mariano fa lo stesso quando ha la necessità di mostrare una posizione base o introdurre uno dei suoi esercizi elementari. Il cerchio, così, pulsa dall’interno e le guide ne sono il cuore. Quando la figura si scioglie la Balivo diventa parte del gruppo d’attori, di cui è la capocomica, mentre Dammacco torna nella sua postazione, in regia, a vedere cosa il gruppo, dopo gli interventi del cerchio, rielaborerà sulla scena. L’azione fondamentale che compie la Piccola Compagnia è quella di condividere, in quella sede tanto speciale, gli Obbiettivi Comuni a ogni membro del cerchio. Serena e Mariano dicono “è tutta una questione di testa”. E quando la testa ha chiaro il percorso da seguire e sa di essere in cammino con altri compagni che hanno lo stesso sentire, la scalata diventa un gioco e una gioia. Non esistono muri nel lavoro della Piccola Compagnia Dammacco e Mariano e Serena insegnano a non erigerli.

Improvvisazione strutturata
di Erica Galante, attrice
attrice nel progetto Finestre
A tutti i partecipanti del progetto Finestre viene inviata una mail, con largo anticipo, prima dell’incontro in sala. La mail contiene tutte le informazioni per preparare un compito propedeutico che permetta alla Compagnia e agli attori di incontrarsi per la prima volta, per avviare un processo di comprensione gli uni degli altri. All’interno di questa mail viene espresso per la prima volta il concetto di Improvvisazione Strutturata. Essa è ciò che Dammacco propone ai suoi futuri allievi-attori come primo terreno di incontro. La risma dei brani fra i quali scegliere viene mandata dallo stesso Mariano o viene chiesto ai partecipanti di portare un testo di repertorio. Dopo che gli allievi-attori condividono i loro compiti propedeutici, la Piccola Compagnia Dammacco inizia il suo lavoro, il suo viaggio, e addentrandosi nel loro mondo, si comincia a capire l’origine del concetto, a loro tanto caro, di “Improvvisazione Strutturata”. Dammacco inizia a raccontare storie a condividere immagini a far ascoltare con attenzione musiche o testi di canzoni. Tutto ciò diviene nutrimento per l’attore che, mettendo in campo anche la sua autorialità, avvia una ricerca del gesto, del movimento del corpo, del pensiero, del testo e del trattamento delle parole che lo compongono. Piano piano l’attore costruisce un piccolo e personale armamentario. Suddetto armamentario inizierà a venir speso sempre più specificamente all’interno del lavoro: più una scena va a definirsi nella struttura e nella narrazione più le scelte gestuali e fisiche si fanno specifiche. Il personaggio prende forma e un posto nel mondo costruito da Mariano. E tutto ciò pur non essendo nato dal classico tavolino, ma dal corpo dell’attore stesso, seguendo il senso logico suggerito ora da un racconto, ora da una musica.
Dammacco scrive per la Balivo una mappa che lei segue incarnando una figura specifica e presentandosi rigoramente a una serie di appuntamenti chiari. Ma l’Attrice durante il suo tragitto è libera di lasciarsi muovere dal proprio pensiero e dal proprio sapiente corpo, dando vita ogni volta nella ripetizione della stessa Improvvisazione Strutturata ad una o più sfumature nuove e vive.
L’Improvvisazione Strutturata è un monito sul restare vivi in ogni momento e non adagiarsi su qualcosa che già si conosce e, al tempo stesso, è un modo di non eccedere nella libertà dell’attore affinché non venga meno la chiarezza, il poter significare all’esterno e l’armonia complessiva dell’azione in scena.


La ripetizione: letteratura di apertura
di Elena Di Gioia, dramaturg e direttrice artistica di Agorà
testimone della quarta tappa del progetto Finestre, giugno 2019
Finestre compone un rito, il rito della ripetizione.
Un rito non pacifico.
Un rito che scava una fossa alla ricerca dello ‘scarto’, di cosa si annida nel fondo, al battito che pulsa di terra e materia.
La ripetizione, con il virare di improvvisi scarti e spiazzamenti nella pratica di Finestre, diventa coreografia, genera testo in movimento. È letteratura dell’apertura, per attori e spettatori. La ripetizione rende tragico il corpo che agisce e tragico lo sguardo che osserva; consapevole di ciò che sta ri-accadendo che contiene in sé un nuovo elemento che farà virare in altra improvvisa direzione.
In questa sorprendente giostra di pratica artistica, attori e spettatori si imbrigliano nelle ragnatele dell’umano a legare fili e relazioni, gesto e parola, corpi e musica, tra il rosso e il nero, nel punto di incontro del laboratorio, colori e pratiche appese come panni gocciolanti alle finestre.


Riflessioni per Finestre Rubiera, 26-28 giugno 2019
di Vincenza Di Vita, studiosa e critico teatrale
testimone della quarta tappa del progetto Finestre, giugno 2019
L’amore è un basso istinto che ridicolizza e rende bestia l’uomo. Ocheggiando sulla musica si fa poi pace seppure rimanendo come bestioline, nella molteplicità degli episodi, nella riproduzione delle maschere, la musica scelta dalla regia dirige i movimenti, crea la visione performativa sia nelle prove sia nell’atto consegnato al pubblico. Creare cortocircuiti, rompere la struttura lavorando sull’errore, sulla semplicità dell’errore invadendo i movimenti, dunque i corpi degli altri, raccontando la propria diversità: à l’amour comme à la guerre. L’immaginario da cui le maschere attoriali attingono è quello dei cartoon, della slapstick comedy ed è volto a generare un collettivo selfie barocco ai tempi della crisi. Sottraendo le energie fisiche ciò che rimane è una forma stabilita nell’essenza di tre elementi esiziali quali lo spazio e il luogo in un punto costituito dal corpo dell’attore che incontra lo sguardo del regista e converge con lo spettatore. La danza del corpo nel quotidiano realizza lo scambio identitario tra il bambino e l’adulto verso una condizione di leggerezza. “Nell’inconscio dell’attore si manifesta tutto. Si è nudi” dichiara agli attori Mariano Dammacco.
Serena Balivo si muove tra gli attori come fosse la novella eroina, “moritura” e mai moribonda, di un romanzo illustrato per la scena, si fa spazio tra gli alleati mai nemici. Stropicciandosi il viso quasi a strapparsi la pelle ciò che rimane è il nero o è bianco, rosso forse? Grazia ed eleganza accoglie l’io maschile socializzato e formalizzato in un “omino della bara”, che rievoca un pensiero sull’amore che muore e sulla morte dell’io, l’amato se stesso. E i colori tuttavia ci riportano all’attenzione di Dammacco per la genetica, dichiarato interesse ne La buona educazione, qui sorelle gemelle e amanti opposte duellano mentre la Balivo dilata lo spazio intorno a sé per prendere contatto fisico e sovrastare i molteplici altri senza genere. Mortificare il teatro, ridicolizzarlo per esaltarlo è esercizio attoriale. Dalle streghe del Macbeth agli innamorati di Romeo e Giulietta, usando la commedia dell’arte o lo stereotipo della marionetta o del pupo siciliano o della fiaba con battute iterate e grottesche: l’omaggio non è a Shakespeare. Qui si sta investendo sulla crescita dell’attore, dell’essere umano, perché raggiunga altri spazi, altri mondi. Deposizione destrutturata dell’attore in sembianze da Cristo romantico: Macerie. Il corteggiamento e la scoperta del mondo con il sottofondo musicale di una impossibile Harmony ci mette nella condizione di realizzare un pensiero sulla importanza del significato dell’esserci, al di là dell’assenza. Il pensiero maggioritario dell’artista sta nel lavoro in assenza. Un valzer di giacche giustifica la colpa della nudità per l’uscita dallo stato adamitico dell’Eden. Si tratta in effetti di una blasfemia volta a esaltare il male incarnato nel serpente biblico che è interpretato dalla Balivo-pantera, il lavoro è genetico anche nella sua etimologia. È definitivamente originario e originale ed è oltre-tutto la nascita della eredità che la poetica della trilogia di Dammacco con Balivo in scena restituisce, con sapiente grazia e raffinata consapevolezza.
La consegna del silenzio è la restituzione della serietà nella leggerezza, giocare al teatro sul serio, con una preparazione atletica: “piccoli nel passo, ampi nel gesto”. Queste le indicazioni date poco prima di andare in scena per realizzare una improvvisazione strutturata in totale follia e libertà: “fate la vita, fate teatro”. Non è questo il luogo per svelare le quindici variazioni della struttura e la scaletta che definisce la composizione dei corpi sulla scena per creare un evento unico e irripetibile, per il teatro infatti. Non si dirà del non avere paura di essere artisti per “andare oltre i limiti”. Ma in merito al montaggio vale la pena rilevare come l’equilibrio giocato sul rapporto non più a due ma a tre è esatto bilanciamento di una forma spettacolare che non coinvolge solo attore e spettatore, ma, come si accennava già, il regista pedagogo in scena e fuori di essa, fuori della sua stessa gerarchia eppure presente con autorevole intervento. L’alterazione fisica per l’avere fatto un sogno non è che la dichiarazione di avere fatto una guerra, contagiando lo spettatore tanto da deformarne il volto con un sorriso o con una lacrima di commozione per una luce dipinta con sapienza da un faro su un prato verde, esito vivo di una guida che “disperatamente ricerca”.


Finestre
di Maddalena Peluso, ufficio stampa
testimone della terza e quarta tappa del progetto Finestre, giugno 2019


La mia casa è piccola ma le sue
finestre si aprono su un mondo infinito
.
Confucio

 

Ammetto di averci messo un po’ a capire cosa avessero in mente Mariano Dammacco e Serena Balivo nel dar vita al progetto Finestre, percorso di condivisione delle proprie pratiche di lavoro attraverso momenti di laboratorio. Poi ho valutato che conclusa la Trilogia della fine del mondo, dopo la vittoria ai Premi Ubu 2017 (Serena Balivo, migliore attrice under 35) e l’ottima accoglienza raccolta da La buona educazione, era necessario − e sano − prendersi del tempo per “aprire le finestre”.  Ed è così che la Piccola Compagnia Dammacco, cercando la lingua e incontrando attori, si è aperta su un mondo infinito, moltiplicandosi e propagandosi come un organismo unico, vivo e solido.
Domenica 12 maggio al Teatro Dimora di Mondaino e il 27 giugno alla Corte Ospitale di Rubiera, al termine di una tappa del progetto Finestre, il pubblico ha potuto assistere, gratuitamente e come di consuetudine al termine delle residenze artistiche in questi due meravigliosi luoghi, all’esito dei dieci giorni di laboratorio. Mariano Dammacco e Serena Balivo si sono trasformati così in guide di un “rito” che ha coinvolto e affascinato tutti, dai responsabili delle residenze agli spettatori
Ovviamente al centro c’erano gli attori, i partecipanti al laboratori, tutti diversissimi per provenienza, età e percorso artistico: qualcuno alla prima esperienza, senza alcuna formazione professionale, qualcun altro invece già navigato. Tutti però avevano negli occhi la meraviglia e sapevano che erano tutti lì per la stessa ragione. Ho capito così cosa avevano in mente Mariano Dammacco e Serena Balivo. 



 Le foto a corredo di Finestre: istantanee ed appunti sono di Francesca Giuliani e Luca Del Pia



La Piccola Compagnia Dammacco ringrazia:
L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna, Centro culturale Il funaro di Pistoia, Associazione Franco di Civitanova Marche, Teatro di Dioniso di Torino; Mariano Dammacco e Serena Balivo ringraziano le attrici e gli attori che hanno accolto e vissuto insieme a loro il progetto FINESTRE: Sofia Abbati, Francesco Barra, Federica Bastoni, Caterina Bonanni, Sofia Brocani, Antonella Carchidi, Francesco Carchidi, Selena Covello, Giuseppe Cutrullà, Marta De Medici, Erica Galante, Ivonne Garo, Alfonso Genova, Noemi Grasso, Dario Lacitignola, Ariela Maggi, Sara Magrin, Roberto Marinelli, Ksenija Martinovic, Eleonora Monticone, Alessandra Selene Nardella, Benedetta Parisi, Noemi Alice Ricco, Elvira Scorza, Claudia Tura, Tiziana Francesca Vaccaro, Maria Teresa Vargas, Cesare Vitaliano; e ancora grazie a Fabio Biondi, Luca Del Pia, Elena Di Gioia, Vincenza Di Vita, Lorenzo Donati, Francesca Giuliani, Gerardo Guccini, Maddalena Peluso, Alessandro Toppi e Il Pickwick.

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