“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 25 November 2019 00:00

“Parasite”, la violenza senza ritorno degli ultimi

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Un po’ in sordina rispetto al premio vinto lo scorso maggio (Palma d’Oro a Cannes), il 7 Novembre è uscito nelle sale italiane il film sud-coreano Parasite, del poco noto Bong Joon-ho. Il suo film più noto e acclamato, Memories of Murder, risale al 2003; poi altri tre o quattro lungometraggi. Una carriera non scoppiettante, ma certo interessante.

Piano piano, per fortuna, questo film si sta facendo largo tra il pubblico. Per fortuna, perché Parasite è uno dei film più significativi, belli, pazzeschi dell’ultimo lustro, secondo chi scrive. Il regista e sociologo Bong Joon-ho ha compiuto un miracolo visivo, percettivo ed etico, sia nel senso del costume che del comportamento, cioè, della morale e dei suoi tradimenti che vanno dalla sostanziale e indifferente amoralità della famiglia ricca alla dissennata immoralità di quella povera.
La sua storia è coreana fino al midollo, ma − tolte le differenze di temperamento e modalità di interazione familiare e sociale − potrebbe essere la storia di una famiglia qualunque ai limiti dell’indigenza, in qualunque parte del mondo, che s’ingegna per trovare dei mezzi di sopravvivenza, degli espedienti per non affondare e provare a migliorare la propria condizione.
Seul ospita l’incontro di due famiglie agli antipodi sulla scala sociale, i Kim e i Park. La famiglia Kim è quella povera, poverissima: vive sotto il livello della strada, in un tugurio, negli inferi della capitale, nella parte più bassa della città. È composta dall’indolente padre, Ki-Taek, dall’altrettanto pigra madre, Chung-Sook, e da due figli, il diciottenne, intraprendente Ki-Woo e la maggiore, la scaltra Ki-Jung. Di contro, vi è la ricca, alto-borghese famiglia Park, che vive invece in cima alle colline eleganti di Seul, in una villa grande, curata, dal design ultra-moderno, concepita da un architetto famoso che prima vi dimorava, con un giardino enorme, che Joon-ho mostra spesso come per comunicare in anticipo la sua centralità. Tale giardino sarà difatti fatidico, lo scenario della battaglia apicale e praticamente conclusiva delle sorti dei protagonisti. Finale di pathos che non svelerò, con l’intento di spingere chi legge a recarsi al cinema a godere di questo film così significativo, ben fatto e coinvolgente.
Lo scarto quasi incredibile è già tutto nelle abitazioni delle due famiglie e nelle loro ubicazioni. Una metafora potentissima della crasi inconciliabile tra due mondi. Seul è rappresentata come una città grigia, livida, sporca, sofferente, dove piove spesso, a catinelle, e quasi sempre piove, anzi diluvia, quando i membri della famiglia Kim tornano, magari a piedi, verso casa loro. Seul è piena di scale consumate, sporche, nerastre, che sembrano dei mezzi per raggiungere gironi infernali. La discesa agli inferi sotto temporali tropicali guidati da circuiti monsonici che non consentono riparo. Che non danno scampo.
La storia narra dell’insinuarsi progressivo di tutta la famiglia Kim dentro la villa, e dentro la vita, della famiglia Park. Provocando, questo processo, la distruzione reciproca delle due famiglie. Il giovane Ki-Woo, grazie ad un amico piuttosto agiato che parte per un viaggio sabbatico pre-universitario, gli subentra come insegnante d’inglese della figlia adolescente della famiglia Park. Il signor Park è un uomo in carriera: sta al lavoro tutto il giorno, è affermato, ricco, poco attento alla famiglia. La moglie è una donna di scarse risorse, la cui naïveté è imbarazzante. Non sa fare nulla e nulla fa, se non seguire, in maniera inefficace, la figlia, che di studiare non ne vuole sapere, e il figlio di sei anni che vive pensando di essere un nativo americano e scaglia frecce per tutta la casa. Vive con loro, per fortuna, la fidata e brava governante che si occupa di tutto, dalla cucina alla gestione della casa, alle stranezze della signora, alle bizze del bambino.
A Ki-Woo viene in mente di insinuare, nella casa e nella vita della famiglia Park, la sorella come esperta d’arte per stimolare il (mancato) talento del bambino, e poi, gradualmente, anche i genitori. Un piano audace che riesce, un’idea geniale che trascina lo spettatore in una sorta di euforia per quella che diverrà, per un pezzo importante, una commedia a tratti esilarante, e una “conquista del territorio in stile Risiko”, sempre sul filo del rasoio, visto che l’occupazione avviene con pericolosi escamotage che i Kim ideano per allontanare prima l’autista e far assumere il padre al suo posto, e poi la governante, scacciata di punto in bianco, in favore della madre. La fiducia che i Kim conquistano pian piano sa di assurdo: sembra impossibile che una famiglia così agiata deleghi tutto ai quattro familiari, che sono lì in incognito, estranei apparenti a recitare una parte in maniera impeccabile, pur di perseguire il riscatto della loro vita.
Parassiti, o sanguisughe, che vorrebbero infine sostituirsi ai Park. Nella villa da loro lasciata alla nuova governante, la signora Kim, per un weekend, i Kim si ritrovano tutti lì, intorno a un tavolo, e in un eccesso di cibo e alcool sognano di possedere un giorno quel gioiello che pare essere uscito dall’architettura organica di Frank Lloyd Wright. Ma poi la famiglia Park, per l’ennesimo diluvio, rientra in anticipo. E da questo momento, si scatenerà l’inferno. Addio sogni felici di questa famiglia di impostori. Di parassiti, come recita in maniera tranchant il titolo.
Ma parassita è chi prova ad uscire, in maniera certo egoistica fino a divenire spietata e immorale, dai tremendi bassifondi della vita, o chi vive con scialba e superficiale inerzia e con distacco totale dalle dinamiche sociali e dai problemi e difficoltà che esse generano in buona parte della popolazione, pensando alle persone come servitori di loro proprietà che sempre devono essere disponibili per soddisfare i loro desideri? Bong Joon-ho ci fa propendere a tratti per la prima, a tratti per la seconda ipotesi, tenendosi in realtà in una neutralità che marca il disagio contemporaneo della ricorrente fissità della scala sociale e che lascia poche speranze di modificarla. E con un finale tremendo, violentissimo, disperante, privo di reale possibilità di redenzione e catarsi, Bong Joon-ho spiazza, ancora una volta e lascia senza fiato e con poche parole.
Schizofrenia e resistenza, separazione e unione, follia e lucidità, vita e morte: compresenze trasversali ai personaggi. Parasite è un film corale, e lo è in maniera perfetta. La sua è una coralità dolente, brillante, macabra. Un mash up di generi cinematografici che ha uno spazio di equilibrio talmente limitato da potere essere detto bidimensionale, o, addirittura, monodimensionale. Proprio come un punto. Eppure, l’equilibrio ce l’ha, alternando intorno a quel punto, in maniera geniale, commedia, dramma, noir, grotesque. Continui cambi di registro, di stati d’animo, di spiragli o impedimenti. Grazie a questo film ci si rende conto che la verità non è sempre sinonimo di giustizia e che la giustizia è un precetto spesso solo formale, distante dalla realtà, un’idea astratta e quasi irraggiungibile. Un meta-messaggio molto chiaro e altrettanto amaro.





Parasite
regia Bong Joon-ho
soggetto Bong Joon-ho
sceneggiatura Bong Joon-ho, Han Ji-won
con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong, Choi Woo-shik, Park So-dam, Lee Jung-eun, Park Myeong-hoon, Chang Hyae-jin, Jung Ziso, Jung Hyeon-jun, Park Seo-joon
fotografia Hong Kyung-pyo
montaggio Yang Jin-mo
musiche Jung Jae-il
produzione Barunson E&A, CJ E&M Film Financing & Investment Entertainment & Comics, CJ Entertainment, Frontier Works Comic
distribuzione
Academy Two
paese Corea del Sud
lingua originale coreano
colore a colori
anno 2019
durata 132 min.

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